Ecoterrorismo in mare, il caso Arctic Sunrise

Marzia Scopelliti
Lo scorso agosto la Russia è stata condannata a risarcire i Paesi Bassi a seguito del sequestro dell’Arctic Sunrise, avvenuto durante le proteste contro le operazioni di trivellazione nell’Oceano Artico. Il caso permette di riflettere sull’eco-attivismo in mare, per alcune potenze un fenomeno a metà strada fra terrorismo e pirateria. 

La ricchezza di risorse energetiche e minerarie, unitamente al progressivo scioglimento dei ghiacci e all’apertura di nuove rotte di navigazione, hanno fatto dell’Oceano Artico l’ambita meta delle compagnie petrolifere internazionali. Nonostante alcune illustri retromarce, parallelamente all’estrazione di risorse sono aumentate le proteste di ong, no-profit e associazioni ambientaliste di diversa natura che, con le loro contestazioni, hanno rievocato il timore in alcuni paesi artici- Russia, Canada e Norvegia in particolare- verso l’ecoterrorismo in mare. Quanto sono fondate queste preoccupazioni?

18 settembre 2013, piattaforma petrolifera di Prirazlomnaya. Durante le operazioni di trivellazione intraprese nel mare di Pechora dalla compagnia russa Gazprom, a seguito di un investimento da 6 miliardi di dollari, 30 attivisti appartenenti alla ong conservazionista Greenpeace, iniziano un’azione di protesta al di fuori delle acque territoriali russe a bordo dell’Arctic Sunrise, nave battente bandiera olandese.

Lo stesso giorno, le forze speciali russe sequestrano l’imbarcazione (rimasta nel porto di Murmansk per 8 mesi) e incarcerano l’equipaggio composto da 30 attivisti di 18 diverse nazionalità rilasciato, dopo due mesi di prigionia preventiva, grazie all’approvazione di una legge di amnistia che fa cadere le accuse di pirateria e vandalismo.

A due anni di distanza, durante i quali la Russia non ha mai partecipato all’arbitrato in corso o riconosciuto la giurisdizione del Tribunale del Diritto del Mare, Mosca è stata condannata dalla Corte dell’Aja a risarcire i Paesi Bassi (in un quantum ancora da definire) per i danni provocati dall’assalto in acque internazionali, a cui si aggiungono le critiche ricevute da diverse nazioni per il trattamento comminato agli attivisti.

Quanto c’è di eco e quanto di terrorismo. Al di là di azioni dal carattere simbolico e sarcastico, come l’annuale elezione di un vincitore del Public Eye Awards, il premio per la compagnia più irresponsabile dell’anno (di cui Gazprom  è stata insignita nel 2014), le organizzazioni ambientaliste intraprendono svariate attività in nome di motivazioni etiche ed ecologiche, mirando sempre più frequentemente a difendere l’ambiente dalla contaminazione prodotta dall’attività industriale. Quanto c’è di terrorista in questo?

Riguardo una questione di metodo, ciò che può avvicinare queste contestazioni al metodo terrorista sono, oltre alla matrice politica e all’utilizzo di strumenti non tradizionali, la volontà di sensibilizzare e mobilitare le masse a favore di una causa, intraprendendo azioni più o meno ortodosse, eversive e plateali.

Se si considerano i danni che queste proteste possono provocare a governi e multinazionali, in termini di perdite di licenze o joint venture, ma più che altro di costi politici e reputazionali, le prospettive possono essere terrifiche, ma parlare di terrorismo sembra eccessivo.

Nonostante ciò, a ricordare che una delle caratteristiche fondamentali del terrorismo è la sua universale disponibilità, dunque il suo prestarsi ad un’eterogeneità di scopi ed attori, questa terminologia è entrata a far parte del linguaggio mediatico e della retorica di numerose potenze internazionali.

Eco-attivismo in mare, pirateria? Se l’accostamento tra terrorismo ed ecologismo per attività che esulano dalla sfera della guerra e della sua conduzione può risultare spropositato, sembra altrettanto fuorviante definire l’attivismo ecologico in mare in termini di pirateria.

La Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, circoscrive quest’ultima categoria ad atti di violenza, sequestro o rapina commessi in alto mare, a scapito di un’altra nave o del suo equipaggio con fini privati. Nel caso concreto allora, la Russia avrebbe applicato un’interpretazione estensiva del concetto, adottando forti misure di sicurezza e prevenzione contro gli attivisti di Greenpeace.

Le misure del Cremlino risultano ancor più sproporzionate se si considera che proprio le rotte artiche, rispetto a vie alternative quali lo stretto di Malacca o il Canale di Suez, sembrano immuni da minacce alla navigazione e alla sicurezza marittima, uno dei principali motivi per cui la comunità internazionale e i paesi asiatici in particolare, preferirebbe percorrerle.

La necessità russa di dare una forte risposta ad ogni azione, più o meno violenta, intrapresa in prossimità dei suoi territori artici, risulta più chiara se si considera che è a largo di queste coste che si trovano 43 dei totali giacimenti artici scoperti, di conseguenza l’opportunità di un riposizionamento russo sulla scacchiera internazionale che non ammette interferenze o contestazioni.

Considerando però le enormi difficoltà di intraprendere operazioni di risposta in condizioni climatiche estreme (si stima che nell’Oceano Artico si impiegherebbero dai 7 agli 8 mesi solamente per fermare la fuoriuscita di petrolio, con enormi danni per l’ecosistema), le proteste ambientaliste rappresentano una reale forma di terrorismo, vandalismo e pirateria o una più semplice rivendicazione della tutela dell’ambiente come bene pubblico globale?

di Marzia Scopelliti