Il militarismo verde

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L’attuale modello di conservazione della natura si fonda anche sull’utilizzo di strategie e misure estreme, tra cui azioni militari. Ma “sparare a vista” è veramente utile e necessario nella lotta al bracconaggio e al traffico di specie protette? No, se a pagarne il prezzo più alto sono i popoli indigeni che hanno vissuto e gestito i loro ambienti per generazioni. Stephen Corry, direttore di Survival international, denuncia le gravi violazioni dei diritti umani e il razzismo che si nascondono dietro ad alcune pratiche di conservazione militarizzata.


“Contrasteremo il bracconaggio, uccideremo qualche cattivo e faremo qualcosa di buono.” Magnifico! Chi potrebbe avere qualcosa da ridire sulle parole della cacciatrice di bracconieri Kinessa Johnson (nella foto qui sotto)?

Kinessa Johnson. Credit to: Adam Bettcher

Johnson Apparteneva alla VETPAW, una milizia fondata da un ex-marine per dare lavoro ai veterani del dopo 11 settembre. Pagata con le donazioni della gente, la VETPAW manda i veterani in Africa per “sottrarre fondi” al terrorismo. Ci guadagnano tutti: si dà lavoro ai veterani, si tagliano i finanziamenti ai terroristi, si salvano gli animali e si spazzano via i cattivi. Ovviamente partendo dal presupposto che il bracconaggio finanzi il terrorismo. Dunque è lei, Kinessa, il volto della conservazione moderna?


“Cos’è il conservazionismo o conservazione “

Dall’Enciclopedia Treccani

Con c. si intende il mantenimento della qualità di un determinato ambiente e delle sue risorse o di un particolare equilibrio tra gli organismi che occupano una determinata area. In senso moderno la c. riguarda la gestione delle risorse della biosfera, senza danneggiare la diversità degli ecosistemi naturali e senza interferire con i processi di modificazione dei sistemi naturali. Questo approccio di c. del processo, che si contrappone alla c. dello status quo di singoli sistemi, corrisponde a una visione ecologica globale del sistema e rispetta il naturale progredire degli ecosistemi.

La c. risponde a una logica economica di lungo periodo: sono ormai noti sia i costi del dissesto ambientale sia i benefici di una politica ambientale corretta. Questa infatti è in grado di produrre vantaggi per la collettività: per es., se si mantiene un bosco, si evitano frane e alluvioni, si permette la sopravvivenza di specie potenzialmente utili e si preservano per le generazioni future spazi liberi da fruire in termini sia ecologici sia economici. Nella logica del breve periodo, invece, la c. riduce o elimina i benefici economici prodotti dallo sfruttamento del sito; il problema si sposta dunque su un piano più politico, spesso condizionato dalle logiche di un’economia basata su ritorni economici immediati.

Extra: 21 cose da sapere sulla conservazione

Usando l’espressione “industria della conservazione” Survival vuole sottolineare come in molti paesi la conservazione sia diventata un settore economico significativo. I parchi nazionali e le aree protette sono viste come elementi fondamentali per la generazione di profitti, soprattutto attraverso il turismo. Parliamo di industria della conservazione, perché alcune organizzazioni della conservazione operano come imprese, svolgendo attività commerciali (cioè attività con fini di lucro). Ad esempio promuovendo tour turistici da cui ricavano finanziamenti.


La rinascita del “militarismo verde” va ben oltre un’organizzazione no-profit americana. Si tratta di una “rinascita” perché l’ambientalismo armato non è una novità. Nel XIX Secolo, quando negli Stati Uniti furono creati i parchi nazionali, la cavalleria per prima cosa esiliò i Nativi Americani che vi vivevano e vi cacciavano, e poi allontanò gli altri “bracconieri”.

A dare vita al movimento conservazionista furono sostanzialmente facoltosi cacciatori di trofei, che volevano impedire l’uccisione delle “loro” prede da parte di locali, che le cacciavano per proprio sostentamento. L’idea bizzarra che i cacciatori di trofei siano i migliori conservazionisti rimane diffusa ancora oggi, e il termine “bracconieri” continua a essere usato per indicare gli “altri” cacciatori, di cui i conservazionisti si vogliono sbarazzare.

L’industria della conservazione dipinge il proprio lavoro come una guerra da combattere con determinazione. È comprensibile: l’ambiente sta avendo la peggio. I bracconieri sono descritti come criminali organizzati e sofisticati che alimentano depravazioni come il traffico di droga e il terrorismo. Anche questo è comprensibile; organizzazioni come il WWF (Fondo Mondiale per la Natura) – che raccoglie circa 2 milioni di dollari al giorno – hanno bisogno di offrire ai propri donatori messaggi semplici. Ma la classica storia dell’eroe buono contro il cattivo non dice tutto.

Esistono certamente bande di bracconieri, e organizzazioni come la VETPAW potrebbero contrastarle efficacemente, ma questa deriva militare è davvero utile?

Le popolazioni locali ed indigene, sono state a lungo considerate come un “ostacolo” alla protezione dell’ambiente. Gli indigeni sono stati definiti “bracconieri” e hanno subito abusi di conseguenza: i “Pigmei” Baka in Camerun, i Boscimani in Botswana e le tribù Adivasi in India, vengono picchiati, se non peggio, da chi afferma di proteggere la natura. E la situazione non migliora.

La deforestazione e la conservazione rappresentano problemi enormi per le comunità “pigmee”, causando un significativo peggioramento del loro stato di salute e abusi violenti. © C. Fornellino Romero/Survival

Le Nazioni Unite e BirdLife finanziano in Botswana un imponente progetto da 26 milioni di dollari. Tra gli obiettivi promulgati – qui trovate il documento di partnership – c’è anche permettere il “bracconaggio di sussistenza” – ovvero, per usare altre parole, la caccia di animali fatta per sfamarsi. Progetti autocelebrativi come questo fomentano ostilità tra le loro numerose vittime, e per i conservazionisti è un problema crescente. Mantenere al proprio fianco la popolazione locale dovrebbe avere la massima priorità, specialmente se si tratta di popoli che hanno vissuto in quei territori per generazioni e che conoscono l’ambiente meglio di qualunque ambientalista. Ma quel che accade è esattamente il contrario.

Persone innocenti vengono criminalizzate costantemente, anche ricorrendo a sfacciate menzogne. Per esempio, quando il Presidente del Botswana sfrattò i Boscimani dalle loro terre ancestrali nel 2002, il governo – inclusi alcuni membri del Parlamento britannico – andavano ripetendo fino alla nausea che la tribù cacciava “da camion” con armi ad “alta velocità”.

Donne baka costruiscono una nuova capanna con foglie e rami. I Baka non impiegano più due ore per costruire una casa nuova. © Selcen Kucukustel/Atlas

Alla fine, gli stessi funzionari ammisero in tribunale che era tutta un’invenzione: i Boscimani cacciano con lancia o con arco e frecce per nutrire le proprie famiglie, e non minacciano la sopravvivenza della fauna selvatica. Tuttavia, i conservazionisti elogiano il presidente del Botswana, il Generale Khama (membro del consiglio di Conservation International – no-profit ambientalista statunitense) per aver recentemente emesso un divieto di caccia a livello nazionale, in modo del tutto incostituzionale. Si tratta di un ennesimo tentativo di sbarazzarsi dei Boscimani anche se il divieto si applica a tutti, tranne che ai cacciatori di trofei, ovviamente! I ricchi bianchi – sono quasi sempre bianchi – pagano per sparare praticamente a qualsiasi cosa; i cacciatori africani neri, invece, sono arrestati, picchiati e uccisi.

Il Botswana è una delle tante mete turistiche in cui è stata adottata la politica “dello sparare a vista”. Quando le guardie forestali uccidono i “bracconieri”, verificare i fatti è impossibile. I ranger sostengono sempre di essere stati attaccati per primi, e nessun superstite può affermare il contrario. Tuttavia, a volte i rapporti compilati dalle stesse guardie dipingono un quadro molto diverso rispetto a quello che vorrebbe bande pesantemente armate.

Per esempio, nel 2015, l’Autorità dei Parchi dello Zimbabwe ha riferito di una banda composta da tre uomini che avrebbe aperto il fuoco contro le guardie nel Parco Nazionale di Matusadona con una “pistola di grosso calibro”. Le guardie hanno subito ucciso due di loro, mentre il terzo fuggiva. L’elenco dei reperti raccolti dai funzionari consisteva in un fucile .303, sette caricatori di proiettili, una pentola per cucinare e un po’ di carne di bufalo come quella servita nei ristoranti di tutta l’Africa.

Il fucile .303 non è una “arma di grosso calibro”; è un vecchio fucile della fanteria britannica, comparso per la prima volta non meno di 120 anni fa e utilizzato dalla polizia e dall’esercito nelle ex colonie britanniche fino a qualche decennio fa. Se il bracconaggio è così redditizio come si sostiene, questa “banda” avrebbe potuto certamente dotarsi di qualcosa di più moderno e di molti più proiettili.

Non si è trattato di un incidente isolato: nel 2014 due uomini sono stati uccisi in Zimbabwe, nel Parco Nazionale dello Zambesi, senza che siano mai state trovate né armi né munizioni. Secondo i parenti, le vittime erano disarmate e stavano raccogliendo legna. Dopo un altro episodio simile, accaduto di recente, alcuni soldati del Botswana sono stati accusati di aver simulato un reato posizionando delle zanne vicino ai corpi di tre uomini a cui avevano sparato. Le testimonianze di racconti simili stanno aumentando. E il fenomeno non riguarda solo l’Africa.

Sembra che nei pressi del Parco Nazionale di Kaziranga, in India, i locali siano pagati per fornire informazioni sui bracconieri. Se a seguito dell’informazione viene poi ucciso qualcuno, l’informatore riceve fino a 1.000 dollari di compenso: una piccola fortuna per i locali e un grande incentivo per la delazione. Ci sono casi anche più recenti, come ha raccontato BBC in questa inchiesta.

I guardaparco del Parco Nazionale di Kaziranga, in India, sono pesantemente armati e hanno l’ordine di sparare a vista agli intrusi. © Indileak

Secondo l’esperto di fauna selvatica locale Firoz Ahmed, “A volte noi… conosciamo i piani (dei bracconieri) prima che agiscano… e vengono uccisi”. In altre parole, delle persone verrebbero giustiziate in modo extragiudiziale sulla base di una segnalazione a pagamento da parte di terzi, secondo cui sarebbe in progettazione un crimine contro gli animali. Le guardie, dal canto loro, godono di immunità penale.

Molti conservazionisti occidentali sono favorevoli alle misure estreme. Per quanto li riguarda, per esempio, se c’è motivo di pensare che vi siano persone a caccia di elefanti, esse meritano soltanto di essere fucilate senza esitazione.

C’è più di una contraddizione in tutto ciò: anche i cacciatori di trofei uccidono regolarmente gli elefanti, in modo legale! Quando in Camerun fu rubata la terra ai Baka per istituire le “zone protette”, il WWF giocò un ruolo importante nella spartizione del territorio, che accanto ai parchi nazionali comprendeva anche concessioni per i safari di caccia e per la produzione legna. La potentissima organizzazione non governativa ha ignorato fermamente ogni richiesta di pubblicazione dei documenti che mostrerebbero a cosa ha dato il suo appoggio, e sostiene, in modo completamente falso, che i Baka avevano dato il loro consenso a essere privati delle proprie terre.

In effetti, i conservazionisti traggono utili dalla caccia ai trofei, come ha ignobilmente dimostrato un’asta dello scorso anno, durante la quale un membro del Club Dallas Safari si aggiudicò per 350mila dollari il diritto di uccidere in Namibia un raro esemplare di rinoceronte nero, una specie minacciata di estinzione. Il club è oggi membro a pieno titolo della IUCN (International Union for the Conservation of Nature), partner del WWF.

Gli stessi conservazionisti cacciano elefanti, cosa che in alcuni luoghi potrebbe avere senso.

Sembra che nel Parco di Chobe, in Botswana, ci sia un numero di elefanti sette volte superiore al sostenibile, con una catastrofica perdita di diversità vegetale e animale. Ora che i tradizionali cacciatori tribali sono stati quasi completamente spazzati via dai regolamenti ambientali, permettere che la creatura terrestre più grande del pianeta si moltiplichi senza controllo è una pessima strategia per l’ambiente.

Questa ipocrita doppia faccia della definizione di “caccia” e “bracconaggio” è ben esemplificata da Geoffroy de Gentile Duquesne, un impiegato della compagnia spagnola Mayo Oldiri, incaricato di gestire una concessione per la caccia sportiva in una “area protetta” del Camerun. Fra i suoi clienti vantava il sudafricano Peter Flack, cacciatore di elefanti della foresta, anch’essi classificati come specie in pericolo. Descrivendo la sua costosa avventura, risalente al 2012, Flack scrive che voleva assicurarsi una “pelle intera” per “motivi d’esposizione”. Mentre altrove, confondendoci, commentava “Solo un miope e stupido criminale caccerebbe animali minacciati”. Dopo aver ricevuto, sei anni prima, il premio di “cacciatore dell’anno” dalla Confederazione delle Associazioni di Caccia del Sud Africa, l’ex magnate minerario è divenuto membro del consiglio del WWF.  (da cui però è stato espulso nel novembre del 2016, dopo 20 anni a seguito della campagna di Survival International che ha utilizzato una sua battuta di caccia all’elefante in Camerun).

Peter Flack, cacciatore e membro del consiglio del WWF, con un elefante morto. © Peter Flack

Ma c’è ancor peggio. La guida di Flack non solo aiutava i ricchi cacciatori a uccidere grandi animali nella sua area “protetta”, ma ha anche ucciso un presunto bracconiere (ovviamente, a sua detta, per “autodifesa”). In altre parole, alcuni conservazionisti uccidono sia gli elefanti sia i cacciatori di frodo di elefanti.

Questo ci riporta alle radici storiche della conservazione: il tentativo di impedire ai poveri di cacciare per nutrirsi, lasciando la selvaggina esclusivamente ai ricchi. Il termine “bracconiere” si sta estendendo: viene usato non solo per indicare i fuorilegge organizzati e sì, ben pagati, ma anche i popoli tribali che cercano di sfamare le loro famiglie, finanche qualche funzionario incaricato di fermare il bracconaggio. Ma include anche coloro che finanziano il terrorismo, così come ci viene spesso ricordato dai sostenitori delle politiche dello “sparare a vista”?

Rosaleen Duffy della London’s School of Oriental and African Studies ha studiato la questione approfonditamente. Ha scoperto che questa idea ha avuto origine da un solo e singolo articolo, facente riferimento a un gruppo terroristico, al Shabaab, in Somalia. Era stato scritto da Nir Kalron e Andrea Crosta, direttore della Elephant Action League, e pubblicato nel 2013.

Gli scrittori raccontano di aver avuto il loro “primo incontro” con i bracconieri in un hotel di Nairobi. “Seguire la pista dell’avorio di al Shabaab in Somalia ha richiesto l’assistenza di coraggiosi Somali del posto, scrivono gli autori, lasciando intendere che si erano recati in Somalia anche se, in realtà, non lo affermano mai esplicitamente. Come ci si potrebbe aspettare, i loro informatori sono anonimi, e non c’è modo di controllare se la loro storia sia vera.

L’articolo è zeppo di espressioni ipotetiche: “potrebbe essere”, “forse”, “magari” e così via, tuttavia a un certo punto viene fornito un dettaglio concreto: i bracconieri hanno detto loro che l’avorio fornisce ad al Shabaab tra i 200mila e i 600mila dollari al mese. L’enormità della cifra l’ha subito trasformata in un mantra conservazionista. Facendo una media di questi importi, al Shabaab riceverebbe dal bracconaggio circa 5 milioni di dollari all’anno. Nello stesso articolo, Kalron e Crosta scrivono poi che quest’attività “potrebbe fornire fino al 40% dei fondi necessari per mantenerli attivi”. Ma queste cifre sono vere e hanno senso?

Si pensa che al Shabaab riceva centinaia di milioni di dollari da diverse fonti: da “tasse” e riscatti riscossi dai porti di mare; dai governi simpatizzanti; da aziende internazionali di proprietà somala e persino, ipoteticamente, da organizzazioni per la cooperazione e dalle Nazioni Unite, che pagano tangenti per poter operare nelle aree sotto il loro controllo. Cinque milioni di dollari all’anno sono tanti (il WWF ne raccoglie altrettanti ogni due o tre giorni), ma è interessante che equivalgano solo al 12% del reddito che le Nazioni Unite stimano che questi terroristi accumulino ogni anno dalle sole “tasse”, una sola delle loro numerose fonti di reddito.

Se anche l’articolo avesse ragione nell’affermare che il denaro del bracconaggio finanzia in parte al Shabaab, anche “noi” la finanziamo, attraverso le tangenti e le bustarelle pagate dalle Nazioni Unite, dalle agenzie di cooperazione internazionale e dai governi.

Qualunque sia la verità, è d’obbligo sottolineare che Rosaleen Duffy non èa riuscita a reperire nessun’altra fonte sul presunto collegamento tra bracconaggio e terrorismo, e che questa fonte è stata scritta da qualcuno che ha interesse che i conservazionisti ingaggino i paramilitari.

Dal report WWF Natura Connection

Nir Kalron, l’autore principale, è infatti un ex “commando d’élite” che gestisce la Maisha Consulting, con sede in Israele. Fornisce paramilitari e addestramento armato e, insieme al Ministro degli Affari Esteri di Israele, collabora con il WWF e la Wildlife Conservation Society (un tempo New York Zoological Society). Ovviamente è disponibile parecchio denaro per combattere il terrorismo, e Kalron è sicuramente un fermo esecutore. Come egli stesso sottolinea, “È chiaro a tutti che non siamo dei filantropi appartenenti a qualche associazione no-profit che chiede educatamente alla gente di prendersi cura dell’ambiente”.

Se prendiamo per buone le cifre di Kalron, allora bloccare il commercio dell’avorio di al Shabaab intaccherebbe solo leggermente il budget dei terroristi. Ma questi numeri sono reali? Né le Nazioni Unite né l’INTERPOL, per esempio, credono che al Shabaab riceva somme significative dal bracconaggio.

Prima di preoccuparsi per i terroristi, che sono fuori dal suo controllo, l’industria della conservazione dovrebbe bloccare le attività criminali che lei stessa finanzia, come gli abusi contro i cacciatori indigeni. Dopotutto, rubare le terre agli indigeni e arrestarli, picchiarli e torturarli (o peggio), finirà sicuramente con il danneggiare anche l’ambiente.

È tempo per l’industria della conservazione smetta di parlare di diritti umani e che inizi ad applicarli realmente. È ora che riconosca il suo passato, con trasparenza. E che smetta di considerare le critiche come un attacco da respingere a suon di pubbliche relazioni. Fino ad allora sarà difficile immaginare che il suo lavoro possa avere un impatto positivo durevole, mentre non c’è alcun dubbio che al momento stia facendo del male a gente innocente.

Nota al testo:

“Pigmei” è un termine collettivo usato per indicare diversi popoli cacciatori-raccoglitori del bacino del Congo e di altre regioni dell’Africa centrale. Il termine è considerato dispregiativo e quindi evitato da alcuni indigeni, ma allo stesso tempo viene utilizzato da altri poiché risulta essere il nome più conosciuto per riferirsi a sé stessi.

Traduzione di Elena Pozzi

© Survival International

La versione originale di questo articolo la trovate qui.

Cosa è Survival International

Survival International è il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Dal 1969 li aiuta a difendere le loro vite, a proteggere le loro terre e a determinare autonomamente il loro futuro. Le società industrializzate sottopongono i popoli indigeni a violenza genocida, a schiavitù e razzismo per poterli derubare di terre, risorse e forza lavoro nel nome del “progresso” e della “civilizzazione”. La missione di Survival è prevenire il loro sterminio, e ottenere un mondo in cui questi popoli siano rispettati come società contemporanee e i loro diritti umani tutelati.

A finanziare il lavoro di Survival, che è rigorosamente apartitica e aconfessionale, sono quasi esclusivamente le donazioni dei singoli, insieme ai proventi di piccole iniziative di raccolta fondi. Tra le campagne più urgenti del momento c’è quella per un nuovo modello di conservazione della natura, che si opponga allo sfratto dei popoli indigeni dalle terre ancestrali e alle violazione dei loro diritti umani operate nel nome della protezione dell’ambiente. Per aiuti o maggiori informazioni su Survival e sulla campagna: www.survival.it