Analisi, non richiesta, sulla Brexit

Il premier britannico David Cameron / © European Union
Da una parte il premier inglese David Cameron che preme per il “Remain”, dall’altro il collega di partito Boris Johnson che punta all’uscita per conquistare anche il Partito conservatore. E poi c’è il presidente del Consiglio europeo che “incrocia le dita” per scongiurare l’effetto domino. Ma alla fine, questa Brexit, è davvero necessaria al Regno Unito?

Ma davvero quest’Europa non funziona? Davvero non funzionano le politiche comuni in materia di economia e finanza? Siamo sicuri che non funzionino le regole per la gestione dei flussi migratori e nemmeno i vincoli politici cui sono sottoposti i 28 stati membri?

Mancano ormai pochi giorni al referendum, giornalisticamente ribattezzato “Brexit“, che chiamerà, per la prima volta nella storia di uno Stato membro, i cittadini ad esprimersi sulla permanenza della loro nazione all’interno dell’Unione europea.

Già, il Regno Unito. Uno Stato che non fa parte dell’unione monetaria, in quanto non adotta l’Euro. Uno Stato che, in virtù della sua “prosperosità“, è la seconda economia dell’Unione dopo la Germania. Uno Stato che, meno di altri, è stato chiamato a contribuire, in termini di impegni reali, alle crisi migratorie che premono ai confini meridionali del continente.

Ancora non è chiaro chi realmente beneficerà di un’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Ue, sicuramente non gioverà ai 27 che perderanno un partner solido, seppur da sempre riluttante, ma neanche la monarchia inglese che sarà, nei fatti, marginalizzata nello scacchiere internazionale.

Non è più pensabile, nel 2016, credere che una Nazione, da sola, possa far fronte alle sfide che inesorabilmente la globalizzazione pone.

Non è immaginabile che, pur con qualche riserva, la Gran Bretagna e la sua Sterlina relativamente “forte” – anche se la Borsa di Londra non è stata per nulla clemente dopo gli ultimi sondaggi che danno in vantaggio i favorevoli all’uscita della Ue – possano restare competitive rispetto al Dollaro statunitense o allo Yen giapponese, nonostante la centralità delle operazioni finanziarie nelle logiche economiche di Londra.

Secondo il Guardian, i "Leave" sarebbero davanti ai "Remain" / © The Guardian
Secondo il Guardian, i “Leave” sarebbero davanti ai “Remain” / © The Guardian

Il mondo sta cambiando a una velocità tale che è necessario quantomeno pensare di poter affrontare problemi globali (da quelli economici, a quelli geopolitici e militari) con azioni di concerto motivate da  obiettivi comuni.

Il referendum inglese del prossimo 23 giugno sarà davvero “l’inizio della fine” dell’Europa, come credono alcuni?

Probabilmente no, anche perché il popolo di Sua maestà forse sarà più saggio dei politici che lo governano; anche se i sondaggi evidenziano un leggero sorpasso del “Leave” rispetto al “Remain”.

Da un lato c’è il premier conservatore David Cameron, che su questa consultazione elettorale (dove si è schierato in maniera inequivocabile per restare nell’Ue, dopo aver ottenuto ulteriori vantaggi e opt-out  e distinguo dall’Unione) ha puntato tutta la sua carriera politica, tanto da giocarsi il suo stesso futuro alla guida dei Tories; dall’altro ci sono i Conservatori “ribelli” guidati dall’ex sindaco di Londra Boris Johnson che, cavalcando il malcontento dilagante, hanno appoggiato il maniera netta l’uscita dell’Uk dall’Unione, avvicinandosi alle posizioni anti-europeiste dell’Ukip di Nigel Farage.

In qualunque caso, il referendum britannico potrebbe essere il primo di una serie di consultazioni che potrebbero coinvolgere altri Stati che, a causa della gestione farraginosa e inadeguata della questione dei migranti che premono alle frontiere orientali e meridionali del Vecchio continente, sentono il bisogno di “slegarsi” dai vincoli e dalle regole di Bruxelles.

Il presidente del Consiglio Donald Tusk, teme un "effetto domino" in altri Stati dell'Unione / © European Union
Il presidente del Consiglio Donald Tusk teme un “effetto domino” in altri Stati dell’Unione / © European Union

Negli ultimi mesi, infatti, il governo di ultra-destra polacco guidato da Beata Szydlo e quello ultra-conservatore dell’Ungheria, retto da Viktor Orbàn, soffrono di insofferenza nei confronti di Bruxelles, tanto da essersi più volte trovati a “battere i pugni” sui tavoli delle trattative, primo segnale di un appoggio implicito ad un eventuale “Leave” inglese.

“Sono sicuro che l’Unione europea sopravviverà, anche se il prezzo da pagare sarà alto” ha commentato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk al quotidiano Bild. Nel caso, Tusk stima che potrebbero volerci anni per rinegoziare con i 27 paesi tutti i rapporti e i Trattati tra l’Unione europea e il Governo di Londra.

Una situazione tutt’altro che chiara. Il prossimo 23 giugno, indipendentemente da quale sarà l’esito del referendum, l’Europa non è più la stessa.

Da un lato continueranno ad esserci gli anti-europeisti, quelli che vedono nell’Europa un nemico da sconfiggere e che ignorano che senza questa Unione, paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia ad esempio, avrebbero dichiarato default da almeno un decennio. Sull’altro versante continueranno invece ad esserci coloro che, pur ammettendo l’imperfezione di questa Unione europea, vogliono contribuire a migliorarla proprio per continuare a far parte di questo mondo, sempre più interconnesso.

di Omar Porro