Da Chernobyl al nuovo ambizioso accordo sul clima

A radiation sign is seen in the 30 km (19 miles) exclusion zone around the Chernobyl nuclear reactor in the abandoned village of Dronki, Belarus, Feb. 11. (Vasily Fedosenko/Reuters)
di Federica Allasia
A trent’anni dal disastro di Chernobyl, i leader del mondo si sono dati appuntamento il 22 aprile scorso al Palazzo dell’Onu per firmare l’accordo sul clima redatto a Parigi (COP21) a fine 2015 e definire i nuovi obiettivi in termini di green economy. In gioco c’è il diritto delle nuove generazioni di ricevere in eredità un ambiente sano dove vivere.

Prima del 26 aprile del 1986, poche persone avrebbero saputo spiegare gli effetti di una catastrofe nucleare, pochissime sarebbero state in grado di collocare su una cartina geografica la città di Chernobyl, nessuna avrebbe potuto immaginare che un errore umano sarebbe stato la causa di uno dei più grandi disastri ecologici della storia contemporanea.

Trent’anni dopo la tragedia, Chernobyl è divenuta lo spettro della città che era: l’aria è ancora satura di scorie radioattive e i pochi abitanti rimasti hanno imparato a convivere con la malattia letale che ha ucciso i loro familiari e amici, e che ora sta irrimediabilmente contaminando i loro corpi. Nonostante la consapevolezza dei gravi rischi connessi alle inalazioni del materiale radioattivo, dal 2011, anno in cui il governo ha consentito l’ingresso ai turisti nella “zona di alienazione” compresa nel raggio di 30km dal sito dell’ex centrale nucleare, migliaia di uomini e donne partecipano al Chernobyl Tour, esorcizzando la morte armati di una reflex.

Cartello nell’area contaminata di Chernobyl / credits: Wikimedia

All’indomani di quel 26 aprile, un acceso dibattito politico, oltre che ambientale, si diffuse in Europa e nel resto del mondo; il timore che quanto accaduto potesse ripetersi in una delle tante centrali ancora operative spinse i governi a riconsiderare i rischi legati allo sfruttamento dell’energia atomica e portò alla chiusura di numerosi impianti. In Italia fu una consultazione referendaria a decretare nel 1987 la volontà della maggioranza dei cittadini di vivere in un paese senza nucleare, decisione peraltro riconfermata con il 95% delle preferenze nel 2011, in seguito al disastro di Fukushima, che fu la causa di politiche ambientali analoghe in molti altri Stati, primo fra tutti la Germania.

Le catastrofi nucleari rappresentano una parte dei numerosi disastri ambientali di cui l’uomo continua a rendersi artefice: è evidente come l’individuazione di una giornata denominata “Earth Day”, nella quale celebrare la salvaguardia del pianeta sul quale viviamo, sia fine a sé stessa se alla commemorazione non fa seguito un impegno concreto promosso dalle istituzioni internazionali e consapevolmente recepito dai singoli cittadini.

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Forse però, il cambiamento tanto auspicato potrebbe essere iniziato: il 22 aprile 2016, quattro mesi dopo lo storico accordo sul clima raggiunto a Parigi lo scorso 12 dicembre, i leader del mondo si sono incontrati al palazzo dell’Onu per apporre la propria firma sul documento. Proprio nel giorno in cui si festeggiava la Giornata mondiale della Terra, 171 paesi si sono impegnati, attraverso i loro rappresentanti, a “regalare” al nostro pianeta un futuro migliore, attraverso un accordo che, insieme con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, a detta del Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon “ha il potere di trasformare il mondo”.

Sono numerosi gli obiettivi che gli Stati firmatari sembrerebbero voler perseguire: drastica riduzione delle emissioni di gas serra per contenere l’innalzamento delle temperature al di sotto dei 2°C a partire dal 2020 (la soglia massima individuata è di 1,5°C) e lo stanziamento – ad opera dei Paesi industrializzati – di un fondo annuo pari a 100 miliardi di dollari volto a far raggiungere il risultato anche agli Stati in via di sviluppo. L’accordo prevede inoltre, a partire dal 2023, verifiche quinquennali tese ad accertare l’osservanza degli impegni assunti.

Il condizionale resta però d’obbligo: la firma del trattato rappresenta soltanto una formalità giuridica, la prima tappa di un lungo percorso destinato a concludersi soltanto qualora un numero di paesi tali da rappresentare il 55% delle emissioni mondiali ratifichi l’accordo. Soltanto 15 Stati insulari, ad oggi, hanno approvato il documento, incoraggiati dalla minaccia rappresentata dall’innalzamento del livello degli oceani. Tra i paesi che hanno assicurato di voler ratificare l’accordo già nel 2016 spiccano gli Stati Uniti. Il Segretario di Stato John Kerry, firmando il documento con in braccio la nipotina, ha voluto lanciare un messaggio forte ed inequivocabile: abbiamo il dovere morale di lasciare in eredità alle generazioni future un pianeta sano in cui vivere.