Conflitto in Siria: come siamo arrivati sin qui – parte / 1

credits: Orazio Truglio
La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
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Siria: rivoluzione, guerra civile o guerra proxy?

Come è iniziato il conflitto in Siria? Ecco una rapida panoramica sulle varie fasi del conflitto e sulla scintilla che ha incendiato il Paese.

Rivoluzione. Nel marzo 2011 il vento della Primavera Araba soffiò anche in Siria. Le proteste tunisine provocarono un effetto domino in molti Paesi arabi e come la Tunisia ebbe la sua scintilla in un venditore ambulante di frutta, la Siria ebbe la sua in un gruppo di bambini e in un gesto di ribellione.

Secondo le ricostruzioni di testimoni oculari e degli stessi bambini, nei giorni in cui piccole proteste prendevano vita a Damasco, nella città meridionale di Deraa (vicino al confine giordano) il 16 febbraio 2011 alcuni studenti scrissero sul muro di una scuola frasi anti-regime tra cui: “As-Shaab / Yoreed / Eskaat el nizam! (“il popolo vuole la caduta del regime”), cioè lo slogan delle rivolte di piazza che in quelle settimane scuotevano Tunisia, Egitto, Libia, Yemen.

La polizia segreta locale, sotto il comando del generale Atef Najeeb, un cugino del presidente Bashar al-Assad, arrestò i 15 bambini, di età compresa tra i 10 e i 15 anni. Vennero interrogati, picchiati e torturati poiché la polizia sospettava che dietro il gesto ci fosse la regia di adulti. I genitori si rivolsero al braccio dell’Intelligence Politica, ad Atef Najeeb in persona, per richiedere il rilascio dei loro bambini, ma, stando alle testimonianze dei genitori, ottennero solo insulti e un diniego, così la cittadinanza di Deraa scese in piazza per chiederne la scarcerazione.

Il Presidente Assad inviò dapprima un suo rappresentante per placare i manifestanti, ma egli non ebbe successo, dato che i bambini non furono rilasciati. Per giorni le famiglie chiesero di riavere i loro figli e la gente si riunì nelle moschee e nelle strade per chiedere la liberazione dei prigionieri politici. Secondo una ricostruzione del The National durante una di queste dimostrazioni un manifestante lanciò una pietra contro gli uomini della polizia, che risposero con il fuoco, nella speranza di disperdere la folla e mantenere l’ordine pubblico. Ma si contarono le prime vittime e le proteste proseguirono.

Ai primi di marzo le autorità rilasciarono i bambini, ma i segni delle torture sui loro corpi acuì la rabbia della popolazione e le proteste dilagarono presto, non solo a Deraa, ma anche a Damasco, Hama, Homs, Aleppo etc. Le manifestazioni di piazza chiedevano dapprima riforme e il governo ne annunciò alcune (come amnistie per i detenuti politici, maggiori salari, riduzione delle tasse, la fine della decennale legge d’emergenza ecc…), che non vennero mai attuate.

Crebbe invece la risposta violenta delle forze di sicurezza, giustificata dalla lotta al terrorismo, (giustificazione addotta anche per il divieto di accesso nel Paese per i giornalisti stranieri). Il governo siriano infatti sosteneva di essere di fronte ad un’infiltrazione di terroristi stranieri che puntavano a destabilizzare il Paese fomentando le proteste. Ma dato il crescente numero di morti, i manifestanti cominciarono a chiedere le dimissioni del Presidente Assad.

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Protesta a Daraya (Damasco) – credits: Amnesty International

In realtà, le vicende di Deraa furono solo la scintilla che fece esplodere un malcontento radicato in buona parte della popolazione, dovuto a oltre 40 anni di dittatura e reso più audace dalle rivolte che in quelle settimane scuotevano altri Paesi arabi. Quando nel 2000 era salito al potere Bashar si era sperato nel cambiamento.

La società siriana è molto variegata dal punto di vista etnico-religioso, con circa il 70% della popolazione sunnita, il 10% Alawita (minoranza sciita cui appartiene la famiglia Assad) e il 20% di altre comunità sciite, cristiane, druze, kurde ecc. La convivenza è sempre stata possibile in Siria e i diritti religiosi tutelati, anche se non si può dire lo stesso dei diritti civili, politici e delle libertà di espressione e opinione.

Come rivela anche un dettagliato rapporto di Human Rights Watch del 2010, le libertà civili e politiche erano quasi nulle, la repressione del dissenso, dell’attivismo, la tortura e la sparizione forzata erano prassi di governo ben consolidate. Dal 2011 la situazione peggiorò. Le manifestazioni in piazza vedevano fianco a fianco cittadini di ogni etnia e religione, tutti accomunati dalla speranza che il rinnovamento fosse vicino. Ma non fu così. Il governo rispose con il pugno di ferro, le testimonianze di gravi violazioni dei diritti umani cominciarono a emergere: torture sistematiche anche su bambini, arresti arbitrari, esecuzioni sommarie, sparizioni forzate impiego di carri armati e aviazione suscitarono le dure condanne del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, del Segretario Generale Ban Ki-moon oltre alle sanzioni di USA e molti Paesi europei.

L’Unione Europea adottò anche misure restrittive nei confronti del governo siriano. Tuttavia le difficoltà a livello diplomatico si palesarono sin dai primi mesi della repressione, con Russia e Cina che da allora fino ad oggi, hanno posto il veto su quasi tutte le risoluzioni Onu riguardanti la Siria, a cominciare dalle sanzioni. Il governo siriano impiegò ogni mezzo e forza, dall’esercito regolare alle milizie para-militari note come Shabeeha (“fantasmi” in arabo), per tentare di tenere circoscritte le rivolte e estinguerle, ma invano. Anzi, fu proprio l’uso eccessivo della forza a farle dilagare di più. Il 22 agosto 2011 il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU istituì con risoluzione S-17/1 la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulla Siria con il mandato di indagare su tutte le presunte violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani dal marzo 2011.

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credits: Bbc – Getty Images

Guerra civile Nel luglio 2011, dopo mesi di sangue e nessuna azione concreta da parte della comunità internazionale, le proteste pacifiche vennero affiancate da un’opposizione armata costituita principalmente da disertori dell’esercito regolare che rifiutavano di sparare sulle folle: nacque il Free Syrian Army (FSA). Inizialmente il loro scopo era tutelare le manifestazioni e fornire protezione contro la repressione violenta operata dall’esercito regolare, poi divenne anche quello di espellere le forze di sicurezza dalle loro aree locali e di rovesciare il regime.

Gli scontri con le forze regolari divennero a tutto campo e il Paese scivolò in una sanguinosa guerra civile. Nell’ottobre 2011 nacque l’organo politico dell’opposizione, il Consiglio Nazionale Siriano (SNC). Ma mentre il governo siriano possedeva un solido apparato militare e istituzionale, l’opposizione non godeva della stessa solidità. Dal 2012 l’FSA cominciò a mostrarsi un’entità frammentata e diversificata al punto tale da non costituire uno schieramento unitario contro il governo siriano.

I contrasti con il corpo politico del SNC e la diversa natura delle varie brigate rese difficile ottenere aiuto da Stati Uniti e Europa. Ma mentre nelle capitali occidentali ci si chiedeva se e come sostenere l’opposizione siriana, Arabia Saudita e Qatar già appoggiavano alcuni gruppi islamisti, decretando l’inizio dell’isolamento delle frange più moderate e secolari dell’opposizione siriana. Per approfondire le dinamiche del sostegno americano all’opposizione siriana, si rimanda a questo nostro precedente articolo. Meglio equipaggiate e meglio organizzate delle brigate moderate dell’FSA, le fazioni islamiste, come Jabaht Al-Nusra, hanno accresciuto sempre più la loro influenza e potere sul terreno. Nel 2013 cominciarono anche le infiltrazioni  jihadiste, fino all’autoproclamazione nel giugno 2014 del “califfato” dell’Isis.

Guerra Proxy. La Siria è oggi una complicata scacchiera in cui poteri regionali e globali si contendono interessi. Iran, Russia e Cina hanno sostenuto sin dall’inizio il governo Assad, (diplomaticamente, militarmente ed economicamente), così come hanno fatto le milizie sciite degli Hezbollah. L’opposizione siriana ha invece ricevuto sostegno da Paesi come Turchia, Arabia Saudita, Qatar e altri Stati arabi insieme a Stati Uniti, Regno Unito e Francia.

Tuttavia, l’aumento di fazioni islamiche e poi jihadiste provenienti da tutto il mondo ha portato a un forte raffreddamento del sostegno internazionale e regionale, tanto che oggi gli aiuti sono concentrati sui gruppi kurdi. Nonostante le posizioni inconciliabili degli attori coinvolti, le Nazioni Unite hanno provato più volte a mediare negoziati tra il governo siriano e l’opposizione.

La prima Conferenza di Ginevra del giugno 2012 produsse il primo Geneva Communiqué, un piano di pace in 6 punti che prevedeva, tra l’altro, la fine delle violenze, l’accesso delle agenzie umanitarie in Siria (negato fino ad allora dal governo siriano), il rilascio dei detenuti, il libero accesso al Paese per i media internazionali, ma soprattutto l’avvio di un dialogo inclusivo e una transizione politica. I punti del piano non vennero mai attuati.

La seconda Conferenza di Ginevra (gennaio-febbraio 2014) fu un secondo fallimento per il quale l’allora inviato speciale Onu per la Siria Lakhdar Brahimi si scusò pubblicamente con il popolo siriano. In realtà la soluzione politica non è ben vista né dal governo siriano – la cui intransigenza è motivata dalla contrarietà rispetto a qualsiasi  governo di transizione (implicherebbe cedere il potere), né dall’opposizione, che pone come precondizione necessaria la caduta di Assad e la piena attuazione del comunicato di Ginevra I. Per i retroscena su Ginevra II, si rimanda a questa interessante intervista rilasciata da Brahimi al Der Spiegel. Il fallimento di questi negoziati era inevitabile e prevedibile e non solo per l’intransigenza delle parti, ma anche per via degli interessi delle potenze coinvolte.

Mappare oggi il conflitto è molto complesso, si contano 220,000 morti ufficiali, cioè quelli per cui c’è un corpo e un nome, quindi le cifre sono sottostimate.

Le violenze hanno generato, in 4 anni, 3,9 milioni di rifugiati fuori dalla Siria e quasi 8 milioni di sfollati all’interno della Siria (su una popolazione totale originaria di 23 milioni).

Ciò che era iniziata come una sollevazione popolare in nome di libertà e diritti civili per tutti si è trasformata in una sanguinosa guerra in cui hanno prevalso gli interessi e le infiltrazioni di attori esterni. Non sembra inappropriata l’espressione di chi ha parlato di “rivoluzione tradita”. Per una panoramica più approfondita sia sulle vicende precedenti al 2011 che successive, si consiglia questa timeline. Per una panoramica sull’attuale situazione sul terreno si rimanda a questo nostro articolo.

di Samantha Falciatori