La pressione cinese sul confine russo

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Sasha Mordovet-Getty Images

La comunione d’intenti tra Russia e Cina sembra sempre più solida, ma il costante afflusso di cinesi che attraversano il confine dell’estremo oriente russo gravando su quel territorio scarsamente popolato potrebbe compromettere l’equilibrio tra i due giganti asiatici e creare qualche problema in futuro.


A prima vista cosa ci potrebbe mai essere di più diverso tra le soleggiate, celebri e agognate spiagge della California rispetto alle remote, ghiacciate e dimenticate coste dell’estremo oriente russo? Eppure le due sponde condividono molto di più che lo stesso, immenso, Oceano Pacifico.

Per poter comprendere il lunghissimo fil rouge che lega Vladivostok e San Diego occorre fare una breve digressione alle cronache americane di una settimana fa, dove in California (stato più popoloso degli Stati Uniti e regina della “West Coast”) troneggiava l’ufficialità del tanto atteso sorpasso demografico degli ispanici rispetto ai “bianchi non ispanici” .

La notizia è stata accolta dall’opinione pubblica americana con una mitezza che sorprende dopo anni di dibattiti, cronache e paranoie sull’inarrestabile ispanizzazione del paese. Sarà stata la consapevolezza che il sorpasso era ormai una questione inevitabile, o forse saranno stati altri dati demografici – quelli attuali – che dipingono una comunità ispanica sempre meno isolata rispetto al tessuto sociale del paese e che sembra ormai parte integrata del melting pot americano. La sola certezza è che al  momento vengono smentite tutte le previsioni apocalittiche che vedevano nel sorpasso il preludio a conflitti interni alla nazione a causa dello sconvolgimento demografico nel Sud-Ovest americano, (dove si concentra in massa la comunità ispanica), tra i quali spiccano certamente quelle di Samuel P. Huntington, che vent’anni or sono vedeva per gli Stati Uniti o una balcanizzazione nelle sue regioni sud orientali o, addirittura, una progressiva dissoluzione dell’identità culturale e sociale dell’intera nazione.

Cosa c’entra in tutto questo la remota sponda pacifica russa rispetto alla sempre più latina corrispettiva americana? C’entra eccome in quanto, con molto meno clamore mediatico, un fenomeno molto simile sta contemporaneamente interessando la Russia e la sua estrema propaggine orientale, delimitata dalla Cina e dalle rive del fiume Amur. Sempre più cinesi infatti decidono di oltrepassare il fiume e sistemarsi in Russia, complice una situazione in cui una regione immensa e con un crescente bisogno di manodopera per l’industria estrattiva ora più che mai fatica a rimpinguare quel pugno di milioni di abitanti che abitano quelle terre sconfinate.

credits: Wikipedia
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Mosca non intende fare una conta precisa dei cinesi presenti oltre confine, ma esistono delle stime del Moscow Carnegie Center, aggiornate all’anno scorso, che parlano di 5 milioni di cinesi irregolarmente entrati in Russia. Il fenomeno, in costante ascesa sin dalla caduta dell’Unione Sovietica, è sotto l’occhio vigile degli analisti per ragioni molto simili a quelle che rendono ancora oggi la California e tutto il Sud Ovest americano un “osservato speciale”.

Una delle ragioni principali difatti per la quale Hungtinton temeva la crescente ispanizzazione  della regione è di carattere storico. Tra gli ispanici statunitensi la comunità preponderante proviene dal confinante Messico. La particolarità segnalata dal teorico dello scontro di civiltà e da molti altri analisti è che in origine quei territori erano sotto il controllo del Messico, ereditato dalla colonizzazione spagnola del continente. A seguito della guerra tra Messico e Stati Uniti tra il 1846 e il 1848, il Messico sconfitto cedette sotto indennizzo, un terzo del proprio territorio all’Unione, stabilendo  come nuova linea di confine tra i due paesi il corso del fiume Rio Grande, com’è ancora oggi. Quei territori, allora scarsamente popolati, perlopiù da tribù indiane locali, furono da lì a pochi anni investiti da colossali fenomeni migratori di massa quali la corsa all’oro in California.

Questo colossale spostamento di americani, perlopiù, “bianchi” verso quei territori selvaggi, che tutti noi conosciamo grazie alle innumerevoli raffigurazioni del “Far West”, aveva sostanzialmente eclissato l’allora scarsa impronta messicana di quelle terre, destinata tuttavia a ripresentarsi con numeri molto importanti più di un secolo dopo. Numeri tali che secondo diverse interpretazioni (nonchè timori americani) potrebbero spingere l’opinione pubblica messicana da entrambe le sponde del Rio Grande a rivendicare territori in California, Nevada, Arizona, Utah e Texas.

Qualcosa di sorprendentemente simile accadde, sempre verso la metà del XIX Secolo, dall’altra parte dell’Oceano Pacifico. Molte delle terre a Nord dell’Amur erano formalmente soggette al dominio dell’Impero Cinese della dinastia Qing. Tuttavia la scarsità di popolazione e l’inospitalità di quelle regioni erano tali che quando i primi coloni russi raggiunsero quelle lande non c’era sostanzialmente traccia dell’autorità cinese; proprio come per il Sud Ovest Americano dell’epoca, dove non c’era quasi traccia di presenza umana a parte qualche tribù nomade locale. Fu sotto la spinta dei coloni e l’opportunità da parte della Russia di porsi in posizione di forza nei confronti del decadente Impero Cinese, allora fiaccato dalla “Rivolta dei Taiping” e alle prese con la fallimentare “Seconda Guerra dell’Oppio”, che vennero stabiliti confini definitivi tra i due imperi a tutto vantaggio dei russi per mezzo dei trattati di Arguin e Pechino (1858 e 1860), che fissarono la frontiera sulle rive del fiume Amur. Alla Russia più che i circa 600.000 chilometri quadrati di nuovo territorio acquisito (praticamente disabitato) interessava la possibilità di poter fondare un porto sull’Oceano Pacifico libero tutto l’anno dai ghiacci, porto che oggi tutti noi conosciamo come Vladivostok.

Per la Russia l’epopea del “Far East” – a noi meno nota rispetto al “Far West” americano, di cui ci rimane solo qualche simbolo quale la ferrovia transiberiana – fu speculare e importante tanto quanto quella americana e contribuì a formare l’identità nazionale contemporanea, soprattutto in quei momenti dove la Russia, diplomaticamente e culturalmente, intendeva distinguersi dal teatro europeo esaltando la sua natura di grande piattaforma asiatica.

Oggi, agli albori del “Secolo del Pacifico”, dove il più grande Oceano del Mondo non costituirà più una colossale frontiera tra blocchi continentali, ma il centro pulsante dei traffici, degli interessi e delle problematiche politiche di domani, la Russia più che mai riscopre il suo amore verso quelle sue remote lande. Lande che si svelano sempre più ricche di minerali e giacimenti di idrocarburi strategici fondamentali, i quali costituiscono non solo un’inestimabile fonte di ricchezza (e l’unico volano dell’espansione economica russa), ma una vera e propria arma che consente alla Russia d’imporsi su più scacchieri internazionali con molta più efficacia rispetto alle sue riserve di arsenale nucleare. Non sorprende dunque come l’idea di un Estremo Oriente russo minacciato da una sempre maggior presenza cinese susciti paure e paranoie da parte russa magari meno rumorose a quelle speculari degli americani verso la “reconquista” messicana ma, probabilmente, più profonde e prese sul serio anche nelle stanze dei bottoni del Cremlino.

Nonostante ciò, l’alleanza d’intenti tra Russia e Cina sembra più che mai solida. Ma cosa teme Mosca?

Innanzitutto il carattere endemico di ogni matrimonio d’interesse, che tra nazioni e, soprattutto, imperi, tende ad avere una longevità persino minore rispetto a quello tra star di Hollywood. E se il matrimonio si dovesse rompere, i cocci (in questo caso il crescente numero di cinesi oltre confine), potrebbero tagliare in profondità se maneggiati da una mano maldestra.  Dall’altra sponda invece il Messico non si limita a restare un alleato di punta per gli Stati Uniti, ma spinge sempre più verso un’integrazione economica, sociale e politica tra le tre grandi nazioni nordamericane, già riunite nel NAFTA, un progetto in grado di disinnescare del tutto qualsivoglia bomba demografica aldilà del Rio Grande, qualcosa che tra Russia e Cina sarebbe pura fantascienza nel medio periodo.

In secondo luogo numeri e proporzioni impongono Mosca di restare più guardinga di Washington. Negli Stati Uniti sembra ormai assodato che l’espansione ispanica e nella fattispecie messicana abbia raggiunto il suo apice qualche anno addietro e da ora in poi sia destinata a calare progressivamente sia per i tassi di natalità di molti paesi latino americani (paragonabili a quelli statunitensi) sia per l’ascesa economica della regione e in particolar modo proprio del Messico, che pur con le sue gravi instabilità interne sembra destinato a diventare una potenza associabile agli altri BRICS. Questo apice vede attualmente circa trenta milioni di cittadini americani d’origine messicana. Un decimo della popolazione statunitense e quasi un terzo di quella messicana e sono più di un terzo i messicani che abitano in California e in Texas. Proporzioni impressionanti che se non creano sconvolgimenti ora che hanno raggiunto il loro culmine è ragionevole dedurre che non lo faranno in futuro, soprattutto in uno scenario dove gli Stati Uniti nonostante la penetrazione messicana al suo interno, vantano un numero di abitanti tre volte superiore a quello del suo vicino meridionale.

Cifre molte diverse invece intercorrono tra Russia e Cina, dove la prima costituisce meno di un decimo della popolazione della seconda. Seppure la Cina da tempo sia stagnante dal punto di vista demografico, può vantare un capitale umano incomparabile rispetto ai meno di sette milioni di abitanti dell’Estremo Oriente russo. In più occasioni governatori e ufficiali russi locali hanno denunciato la fiumana cinese che nel giro di pochi mesi ha sconvolto il panorama della regione; la più recente ha portato un milione e mezzo di cinesi presenti illegalmente nella regione nell’arco di soli diciotto mesi passati dal luglio del 2014. Questo, di fronte ai censimenti ufficiali del governo che, al contrario, minimizzano la presenza cinese a poche decine di migliaia, contribuisce a creare un clima di confusione e, naturalmente, a gettare benzina sul fuoco ovvero sulle paranoie di analisti e opinione pubblica.

L’ultima e forse più concreta ragione risiede nel fatto che ciò che più temono i russi è lo stesso fenomeno che potrebbe garantire la salvaguardia dei confini nel caso in cui accada per davvero uno sconvolgimento demografico nell’Estremo Oriente a favore cinese. La mentalità strategica cinese, forgiata da millenni di cultura confunciana oltre che dalla ferma convinzione di risiedere al centro del Mondo, raramente punta all’acquisizione diretta di nuovi territori, dal momento in cui ciò che davvero conta è instaurare un rapporto gerarchico di subalternità tra le nazioni confinanti (e nel nostro mondo globalizzato oggi il confinante sta anche nell’altro capo del globo). Pechino, in quest’ipotetico futuro dove da una sponda all’altra del fiume Amur si potrebbe chiacchierare amabilmente del più e del meno in mandarino, potrebbe avere tutto l’interesse a preservare anzi coccolare l’orgoglio russo di vedere la bandiera panslava sventolare sulle sponde del Pacifico se ciò le garantisse, ad esempio, il controllo sostanziale delle ricchissime risorse presenti nella Siberia Orientale.

Per la Cina non sarebbe niente da nuovo: da secoli è in grado di utilizzare il peso delle sue comunità “oltremare” per influenzare gli equilibri economici e politici del paese “ospitante” tra i quali i casi di spicco sono certamente Malesia e Indonesia, quest’ultimo un gigante da più di duecento milioni di abitanti la cui influenza della piccola minoranza cinese è tale, (reale o percepita che fosse), da aver scatenato vere e proprie rivolte in passato da parte della popolazione locale infuriata.

La Russia dal canto suo ha più che mai bisogno della sua estrema periferia la quale, suo malgrado, potrebbe riscoprirsi come prossima periferia per una Cina intenzionata a diventare il centro gravitazionale del pianeta, una situazione che per la mentalità strategica cinese non sarebbe altro che il ritorno alla sua storica posizione e visione di sé. Per Mosca invece la posta in palio è forse ancora più cruciale poiché, sulle rive dell’Amur e sui suoi equilibri, anche demografici, si giocherà il suo status di potenza globale nel prossimo futuro.