Dieci possibili nuovi Stati per il 2016

Donetsk
Bandiera Donetsk credits to Reuters
Dieci possibili nuovi paesi che potrebbero vedere la luce nel 2016, scombussolando l’ordine già precario dell’odierno sistema internazionale.

Negli ultimi anni, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi, la natalità statuale – la creazione e l’istituzione di nuove entità statali – è aumentata esponenzialmente. In particolar modo si è registrata una crescita di natalità tra quelle Nazioni che vivono e hanno vissuto nel limbo tra autonomia de facto, e un riconoscimento internazionale parziale; chiaro segnale che la coesione d’intenti riguardo le norme internazionali tra Stati si sta sempre più sfilacciando.

Per il 2016, abbiamo stilato una lista di dieci possibili nuovi Stati che potrebbero presto comparire su mappe, atlanti e sulle scrivanie dei cervelloni di Google Maps. Alcuni nomi sono ormai onnipresenti nelle cronache mondiali, altri sono sconosciuti o dimenticati, spesso da tempo. In ogni caso l’eventualità che da queste situazioni possa nascere o meno uno Stato costituirebbe un fatto importante per lo scenario mondiale attuale, dato che darebbe maggiore forza a fenomeni disgregativi e di frammentazione globale.

  • Catalogna
credits: Miguillen / Wiki
credits: Miguillen / Wiki

In Europa soffia vento d’autonomia. Se il Regno Unito l’anno scorso è riuscito a scongiurare attraverso un referendum l’indipendenza scozzese, persuasa (per ora) a restare nel Regno, non potrebbe essere altrettanto capace, o fortunata, la Spagna. Il referendum approvato dal Parlamento di Barcellona per l’autodeterminazione della regione è previsto per il 2016. La Spagna ha già dichiarato che l’intera operazione  non ha valore legale, e la stessa Corte Costituzionale spagnola ha annullato la validità del referendum, ma senz’ombra di dubbio un’eventuale vittoria del fronte autonomista porrebbe la questione indipendentista catalana (e l’identità spagnola, crogiolo di antiche nazioni) su un diverso piano di contrattazione.

  • Cipro (riunificato)
credits: nationsonline.org
credits: nationsonline.org

Sì, Cipro effettivamente è già un paese, membro dell’Unione Europea per giunta. Non molti tuttavia sanno che Cipro è stato riconosciuto solo per i suoi due terzi. La sua parte settentrionale è dal 1974 occupata dall’esercito turco a “protezione” della comunità turcofona, al tempo minacciata dalla maggioranza greca. Da allora esiste l’autoproclamatasi “Repubblica Turca di Cipro del Nord”, riconosciuta soltanto da Ankara. Dopo un primo referendum per l’unificazione indetto dall’Onu e fallito nel 2004 per il “no” dei greco-ciprioti, per gli abitanti dell’isola la divisione comincia a creare non pochi problemi (soprattutto per i turco ciprioti “schiacciati” dall’ingerenza dei loro protettori ad Ankara e dai migliaia di “coloni” provenienti dal continente). L’elezione di rispettivi capi di Governo a favore della riunificazione potrebbe portare a un processo di riunificazione appunto benedetto da Unione Europea e Turchia (si parla di un nuovo referendum già per il mese di Marzo), la quale potrebbe portare in dote proprio il suo pezzo d’isola in vista della nuova “comunione d’intenti” Bruxelles-Ankara, che potrebbe concludersi con (l’improbabile) adesione della Turchia nell’Unione.

  • Donbass
credits: Sven Teschke / Wiki
credits: Sven Teschke / Wiki

La guerra in Ucraina, seppur passata in secondo piano, continua senza sosta. Esercito ucraino e separatisti rompono così di frequente la tregua da far ragionevolmente dedurre che nel 2016 si tornerà allo scontro dichiarato. Questa volta tuttavia la Russia, sempre più impegnata in Siria, non sembra disposta a ripetere nel Donbass (nelle province di Luhanks e Donetsk) il blitzgrieg compiuto in Crimea, e un nuovo stallo tra esercito e separatisti potrebbe essere lo scenario più probabile. Da questa situazione i separatisti potrebbero continuare il processo di “state-bulding”, già cominciato quest’anno con la progettazione di una nuova moneta, rendendo il territorio il nuovo e più grande tra gli Stati de facto sorti nei territori dell’ex Unione Sovietica su volere e ingerenza più o meno esplicita della Russia, tra i quali si trovano la Transinistria, l’Abkazia e l’Ossezia del Sud.

  • Nagorno-Karabakh o Artaskh
credits: newcoldwar.org
credits: newcoldwar.org

Rimanendo nell’ex Unione Sovietica, c’è un braccio di terra grande quanto il Molise “legalmente” appartenente all’Azerbaijan ma popolato da armeni i quali, durante la dissoluzione dell’URSS, hanno istituito una Repubblica tutta loro sotto l’egida dell’Armenia (e con la ferma intenzione d’unirsi alla madrepatria, un giorno, col beneplacito dei russi che riconoscono gli armeni come unici fidati alleati nella regione). Dopo decenni di scontri e scaramucce incrociate tra Armenia e Repubblica del Nagorno contro il governo azero, si sta verificando un’ escalation tra le parti in causa, e il 2016 potrebbe essere l’anno della messa in pratica delle numerose minacce volate tra le due nazioni caucasiche, e lo scoppio di una nuova guerra per il controllo della regione. In questo caso la soluzione “mediana” che vedrebbe il Nagorno assurgere al rango di Stato consentendo a entrambi i contendenti di salvare la faccia apparirebbe quasi obbligata per coloro che realmente si contendono il Caucaso: Russia, Turchia, Iran e, se mai si degnasse di battere un colpo, l’Europa.

  • Somaliland
credits: thekularingtradeblog / frontiermarketstrategy.com
credits: thekularingtradeblog / frontiermarketstrategy.com

Non per forza il nuovo arrivato tra la comunità degli Stati sarà il frutto di un sanguinoso conflitto. Tra i sempre più numerosi Stati de facto non riconosciuti o riconosciuti parzialmente ne esiste uno che è un modello di stabilità in una delle regioni più instabili del mondo: parliamo del Somaliland, regione coincidente alla ex colonia britannica della Somalia resasi di fatto autonoma da quando il paese del Corno d’Africa è scivolato nella sanguinosa guerra civile che tutt’ora lo attanaglia. Seppur non navighi nell’oro, il Somaliland – affacciato sull’imbocco del Golfo di Aden verso il Mar Rosso – è considerato talmente affidabile che diversi suoi ministri sono stati ospiti di numerosi paesi per la stipulazione di accordi commerciali. Oggi il paese è sempre più meta di approdo per rifugiati yemeniti e siriani. Se il contrasto tra una Somalia lacerata dai conflitti e un Somaliland stabile perdurerà, ogni anno potrebbe essere quello buono per una dichiarazione d’indipendenza del paese.

  • Oromia
credits: TUBS / Wiki
credits: TUBS / Wiki

Sempre nel Corno d’Africa, l’Etiopia oscilla tra ambizioni di dominio regionale e incertezza locale. Nonostante gli ingenti investimenti cinesi, il paese fatica a decollare economicamente, e i fuochi dalla vicina Somalia rischiano di contagiare il grande Paese africano, crogiolo di culture e religioni che nel corso della loro millenaria storia si sono spesso dichiarate guerra aperta. Se il peso della storia ha già consentito agli eritrei di abbandonare la casa madre etiope nel 1992, i prossimi potrebbero essere il popolo degli oromo. Situati nelle zone occidentali nel paese, gli oromo costituiscono un terzo della popolazione totale etiope, numero persino superiore a quella degli amhara, meglio noti come abissini, vale a dire gli etiopi etnici “propriamente detti”, in quanto a cultura e tradizione storica, dal Regno di Axum ai grandi imperi etiopi cristiani. Originariamente animisti, fino al loro arrivo nell’attuale Etiopia occidentale, gli oromo vantano una storia antichissima ma, a detta loro, separata da quella degli abissini e denunciano di esser stati colonizzati dall’Impero d’Etiopia nel XIX Secolo allo stesso modo in cui l’Impero Etiope un secolo più tardi denuncerà la colonizzazione da parte italiana. Nel 2015 la tensione tra le due comunità etniche ha raggiunto preoccupanti vette di violenza. A differenza del caso eritreo, gli oromo avrebbero dalla loro un fattore numerico tale che in caso di guerra civile l’Etiopia potrebbe non soltanto rimpicciolire, ma dissolversi completamente.

  • Biafra
credits: ibtimes.co.uk
credits: ibtimes.co.uk

Se questa piccola (ma ricchissima di petrolio) regione costiera della Nigeria sud orientale raggiungesse l’indipendenza sarebbe un caso di ritorno tra le Nazioni. La Repubblica del Biafra infatti ha avuto una breve quanto tulmutosa esistenza tra il 1967 e il 1970, approfittando della guerra civile nigeriana che insanguinò il paese per tutti gli anni ’60. La portata dell’evento per la Nigeria (e il rischio che un eventuale successo da parte dei Biafra l’avrebbe portata al collasso), fu tale che il Paese, a guerra finita, ribattezzò il “Golfo di Biafra” in “Golfo di Bonny”. Il movimento per l’indipendenza del Biafra sta assumendo una forza tale che – anche a causa del clima d’instabilità che sta vivendo la Nigeria su più fronti – alcuni sottolineavano come il “2015 nigeriano ricordasse il 1960”, con le conseguenti paranoie da parte del Governo centrale. Non è solo il petrolio la posta in gioco (tanto che gli autonomisti si sono dichiarati disposti a “cederlo” ai nigeriani in cambio della libertà politica), ma è l’esistenza della Nigeria quale paese contenitore di etnie che, prima dell’arrivo degli europei, in molti casi non erano neanche in contatto tra loro.

  • Kurdistan
credits: Joe Burgess / The New York Times
credits: Joe Burgess / The New York Times

Comunque vadano le sorti della guerra in Siria e Iraq contro il Daesh, tutti gli attori chiamati in causa saranno tenuti ad accordarsi sul come mettere la parola fine alla questione Kurdistan. Di fatto autonomi in Iraq e sempre più intraprendenti in Siria, i curdi si trovano in una posizione di favore per l’indipendenza che forse non si ripeterà mai più. Sostenuti sia dalla coalizione Usa “anti Daesh” sia dalla coalizione russa, con conseguente accondiscendenza dei governi regolari siriano e iracheno, è rimasta solo la Turchia a non voler vedere una patria curda dentro ai suoi confini. Al momento, tuttavia, le sorti della guerra sembrano sorridere sempre più alla causa curda, che prima o poi cominceranno a chiedere un premio per il proprio impegno in funzione anti-islamista.

  • Stato Houthi
credits: geopoliticalmonitor.com
credits: geopoliticalmonitor.com

Un nuovo giocatore ha fatto il suo ingresso nello scacchiere yemenita: il Daesh, In guerra sia coi ribelli sciiti Houthi sia con le forze regolari sunnite sostenute dall’Arabia Saudita, i miliziani del sedicente Califfato potrebbero loro malgrado portare a un rafforzamento del fronte sciita, portando il Paese alla divisione interna, un quarto di secolo dopo la Reunion tra Yemen del Nord e del Sud: una riprova del fatto che, probabilmente, alle due regioni conviene prendere cammini separati.

  • Afghanistan Orientale
credits: The University of Texas at Austin / CIA
credits: The University of Texas at Austin / CIA

Il caos siriano e il terrore in Occidente lasciano in secondo piano un’operazione su larga scala condotta dal Daesh e i talebani in Afghanistan, operazione non troppo diversa dalla sorprendente presa dell’Iraq del Nord da parte dei jihadisti nell’estate del 2014. Dopo la caduta del governo talebano nel 2001, il nuovo governo centrale di Kabul non ha ancora dato prova di saper camminare con le proprie gambe senza l’aiuto della coalizione internazionale. In un certo senso, non ha mai dimostrato, dai tempi dell’invasione russa, di poter esser uno Stato unitario a tutti gli effetti. Il controllo di alcune parti orientali da parte della “coalizione jihadista”, seppur meno coesa di quanto potrebbe, se reiterata, scaturire in un più esteso movimento di autodeterminazione dell’etnia pashtun, minacciando di destabilizzare ulteriormente il vicino Pakistan (che potrebbe a sua volta dare vita dalle sue ceneri ad almeno quattro nuove entità politiche coincidenti con le quattro principali etnie del paese: pashtun, urdu, sinti e balochi).