Facebook e le Nazioni evanescenti

La crisi di credibilità che sta affrontando Facebook può dirci qualcosa di più anche sul modo di gestire il potere e sulle differenze tra Stati Nazione e grandi corporazioni.

Facebook e le Nazioni evanescenti

Le multinazionali rappresentano un tassello fondamentale per la comprensione delle dinamiche geopolitche del nostro tempo. In alcuni casi tali colossi commerciali possono rivaleggiare con interi paesi per fatturato, e il numero dei dipendenti è tale da poter essere considerate vere e proprie micronazioni – per fare un esempio celebre la The Walt Disney Company può vantare circa 195.000 dipendenti.

Alcune società riescono poi ad inserirsi in ambiti strategici dell’organizzazione delle nostre comunità, acquisendo un potere che oltre che economico è anche politico. È il caso tra gli altri di Google e, naturalmente, Facebook.

Se questa epoca ci ha abituati a repentini mutamenti del mercato e a società evanescenti come un fuoco di paglia (ricordiamo il celebre caso di Tiscali che ad inizio millennio valeva più della FIAT), quando riguarda colossi che sono indissolubilmente legati alle macroeconomie nazionali o a centri nevralgici della sicurezza, il discorso cambia, ed assumi toni allarmanti.

Per quanto auspicato da molti, il fallimento di Facebook sarebbe catastrofico, si pensi solo al caos nella gestione delle informazioni di 2.2 miliardi di utenti attivi. È forse prematuro parlare di una vera e propria crisi del gigante di Menlo Park, ma esistono vari segnali che ci indicano che il castello è sotto assedio.

L’ingresso della sede di Facebook, a Menlo Park, in California – Robyn Beck / AFP / GettyImages

È di questo stesso periodo la notizia per cui la Federal Trade Commission sta valutando di multare Facebook per svariati miliardi, definendo così una sanzione ben più grave dei 22,5 milioni già imposti a Google per aver violato le norme della privacy per gli utenti Safari, il browser di navigazione internet preinstallato su device Apple.

Nello stesso periodo in cui Google era costretta a fare ammenda, Facebook stipulava un accordo con la Federal Trade Commission in cui garantiva la sicurezza dei dati dei suoi utenti, ma tale millantata protezione della riservatezza dei suoi account è stata smentita dallo scandalo Cambridge Analytica che ha mostrato come 87 milioni di persone abbiano involontariamente fornito i loro dati ad agenzie di consulenza politica.

L’idea di una multa miliardaria è stata concretamente avanzata dall’Open Market Institute il quale ha preso atto che una società con un utile netto di 20,22 miliardi di dollari non subirebbe un reale sanzionamento con un intervento su base milionaria.

Parallelamente, la semplice catalogazione delle informazioni ha aperto un nuovo scenario di sfruttamento, prima, delle informazioni e poi di manipolazione dei consumatori (di cui del resto lo scandalo Cambridge Analytica non è che la degenerazione politica) che ha sollevato quesiti di natura filosofica e sociale.

Stiamo parlando delle notizie, costruite scientificamente ad arte e poi diffuse nel web e note oggi come “Fake News” le quali sono state un’importante fonte di introiti per Facebook, grazie al fatto che, intorno ad esse, sostenitori e detrattori, generavano un movimento concreto e ampio, attirando così l’interesse degli sponsor e il conseguente ingresso di nuovi danari per casa Zuckerberg.

Tale sfruttamento della menzogna a puri fini commerciali sta ora mostrando il suo lato oscuro, un esempio su tutti è rappresentato dal movimento No Vax il quale è oggi ai minimi storici per popolarità e diffusione, e oramai ha esaurito la sua funzione di aggregatore di masse in funzione delle elezioni (negli USA come in Italia) ma i cui avanzi si concretizzano negli Stati Uniti in una ampia epidemia di morbillo nello stato di Washington che sta spingendo in molti a domandarsi sulle responsabilità di Facebook nella vicenda.

Del resto, lo sfruttamento delle false notizie è una debolezza che è stata ampiamente sfruttata in ambito politico come dimostrato nel caso delle elezioni in U.S.A. e in Italia (anche se nessuno sembra ricordarlo), e ora l’ombra lunga di Facebook si allunga anche sulle elezioni in Nigeria dove un gruppo di giornalisti di Al Jazeera ha dimostrato come sia facile aggirare i blocchi definiti da Facebook e diffondere false notizie in vista delle elezioni.

In questo caso specifico non si tratta più delle mistificazioni di un politico in un sistema democratico la cui effettiva capacità di governo è oggetto di dibattito, ma di qualcosa di peggio. Un sistema perverso di scatole cinesi per cui Facebook, per ottenere maggior traffico dati, esalta la diffusione delle notizie false; come ha rivelato un’inchiesta BBC, i gruppi estremisti vicini a Boko Haram hanno saputo sfruttare tale debolezza per ampliare esponenzialmente il loro messaggio e la loro presa sulla popolazione.

Nel frattanto Facebook si comporta come un gigante di gibsoniana memoria e, se da una parte spia e rivende e manipola identità e persone, al contempo si fa padre e protettore dei suoi dipendenti, al punto di indicizzare tutti coloro i quali rappresentino una minaccia per i clienti Facebook o per l’azienda, muovendosi nella zona grigia e sfumata in cui è difficile definire quando termini il pericolo per il dipendente e quando per l’azienda, e quando un’azione all’apparenza lodevole si trasformi in spionaggio finalizzato al solo benessere aziendale. In questa area semantica intermedia, pericolosamente vasta, galleggiano gli ulteriori sospetti nei confronti dell’opera di Zuckerberg.

Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, testimonia al Congresso degli Stati Uniti nell’aprile del 2018 – Pablo Martinez Monsivais / AP

Eppure tutte queste considerazioni di natura morale spesso poco influenzano il mercato che al contrario in questo caso è ugualmente ingeneroso nei confronti dell’azienda che stiamo analizzando. Alla fine di luglio del 2018 Facebook è stata colpita dal più grande crollo della sua storia, una rovinosa discesa che si è arrestata solo nel dicembre dello stesso anno, complice anche un attacco hacker che nel settembre del 2018 ha portato ad una falla in 50 milioni di account e una conseguente perdita del valore delle azioni di Facebook del 3%.

L’attacco ha sfruttato una tragica ingenuità del sistema di gestione della privacy, provocando il furto di tutti i dati disponibili di almeno 30 milioni di utenti e mettendo in luce la debolezza di una azienda che da tempo ha assunto un ruolo notevole anche in ambito di politica internazionale anche per la capacità di gestire le informazioni, in altre parole una falla negli archivi è qualcosa di più di una rapina in banca, quanto una crisi strutturale e la perdita del solo 3% di conseguenza si definisce come una reazione più che ottimistica del mercato.

Del resto, che qualcosa stia cambiando in Facebook, lo si può facilmente intuire attraverso la percezione dell’azienda da parte degli analisti, così se nel gennaio del 2015 Deloitte definiva Facebook come una fondamentale risorsa per moltiplicare la ricchezza e creare nuovi mercati, nell’aprile del 2018 il New York Times commentava il rovinoso, ed in parte imbarazzante, intervento di Zuckerberg al Congresso degli Stati Uniti d’America come specchio di un garante rimasto indietro nei confronti di un’azienda che in maniera arbitraria gestisce troppo potere (anche quello di influenzare le menti delle persone basandosi sulle loro frustrazioni).

Facebook non è sul punto di crollare, non ancora, ma le multinazionali, a differenza delle nazioni, possono svanire molto rapidamente se commettono errori strutturali e sistemici, soprattutto quando sembrano dimenticare che il mercato è solo una sovrastruttura dell’economia reale la quale si basa sulle nazioni intese come congregazioni di popoli. Una simile iperbole serve solo a ricordare che collezionare una sequenza quasi infinita di errori può rappresentare una strada senza uscita. I governi possono sbagliare, anche a costo del benessere dei suoi cittadini, le corporazioni no.

di Tanator Tenabaun