Il Giappone alla prova delle elezioni

Shinzo Abe e i membri del suo partito - credits: Toru Hanai / Ruters
Il 22 ottobre i giapponesi sono chiamati al voto. Il premier Shinzo Abe ha indetto elezioni anticipate per sfruttare il consenso di cui gode, ma gli azzardi in politica non pagano sempre.

Il premier Shinzo Abe il 5 ottobre ha decretato lo scioglimento del parlamento e indetto nuove elezioni politiche per il prossimo 22 ottobre, anticipando di 14 mesi la scadenza naturale della legislatura, prevista per gli inizi del 2019. La scelta di andare ad elezioni anticipate è motivata, solitamente, dalla difficoltà del governo in carica a proseguire la sua attività, ma in realtà Abe non è mai stato così saldo alla guida del paese: attualmente possiede, di concerto con il partito alleato Komeito, 322 seggi sui 475 dell’Assemblea Parlamentare, i sondaggi gli attribuiscono un indice di gradimento del 50%, l’opposizione è nel marasma più completo.

La situazione generale deporrebbe a favore del proseguimento dell’azione di governo. Perché Abe ha spinto per andare ad elezioni anticipate?

Abe sta svolgendo il suo terzo mandato da primo ministro, avendo ricoperto questo incarico già nel periodo 2006-2007 e 2012-2014, e in caso di rielezione diventerebbe il premier che ha governato più a lungo nella storia del Giappone. Nel corso degli ultimi due mandati ha intrapreso una serie di riforme economiche, denominate Abenomics, grazie alle quali il paese è venuto fuori da anni di stagnazione ed ha ripreso a crescere ad un buon ritmo. Inoltre, il premier giapponese ha potuto iniziare, inoltre, la tanto agognata modifica dell’Articolo 9 della costituzione che darebbe al paese una postura più “aggressiva” dal punto di vista militare, consentendo ai soldati giapponesi di poter intraprendere anche missioni fuori dai confini nazionali.

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L’intenzione di Abe, che ricopre anche la carica di leader del partito Liberaldemocratico (LDP), è quella di capitalizzare il vantaggio che detiene sui potenziali avversari, consolidandolo con nuove elezioni che gli possano garantire una maggioranza più ampia. Per motivare la sua scelta il premier giapponese ha parlato di «crisi nazionale» di fronte alle minacce nordcoreane e della necessità di una maggiore spesa sociale, da finanziare con una parte del previsto rialzo dell’imposta sui consumi dall’8% al 10%, anche a costo di non raggiungere il sospirato pareggio di bilancio nella spesa primaria finora fissato per il 2021.

La volontà di Abe è, insomma, quella di approfittare del momento dato che sembrerebbe finito nel dimenticatoio anche lo scandalo di Maritomo Gakuen, l’operatore scolastico al quale sarebbe stato concesso di comprare terreni dello stato a pezzo di saldo, su intercessione della First Lady, Akie Abe, in cerca di incarichi ben remunerati.

Quello che poteva essere il principale partito di opposizione, il Partito Democratico, è nel caos dopo le dimissioni della leader Renho e la nomina del redivivo Seiji Maehara a presidente, subito seguita da dimissioni di altri membri dopo le fallimentari elezioni di Tokyo; molti elettori democratici potrebbero di votare per Abe, rifugiandosi in un candidato che interpreta la stabilità,  piuttosto che fare una scelta rischiosa.

I calcoli del premier giapponese nel chiamare alle urne con oltre un anno di anticipo gli elettori, motivandolo con una certa dose di populismo basato su nuovi stimoli all’economia e il rafforzamento del welfare, potrebbero risultare sbagliati. Innanzitutto, gli ultimi sondaggi rivelano che una buona parte di giapponesi (il 64% circa) non ha gradito la scelta di sciogliere anticipatamente il parlamento, mentre la percentuale degli indecisi sarebbe piuttosto alta, il 42%.

Ed è in questa indecisione che potrebbe incunearsi Yuriko Koike, gettatasi nell’agone politico nazionale con un nuovo partito, il Partito della Speranza (Kibo no To in giapponese) che vorrebbe proporre un approccio più liberale rispetto al partito di Abe che, nonostante il nome, è un partito conservatore. Yuriko Koike, in passato ministro dell’Ambiente e poi della difesa nel governo Abe, è salita agli onori della cronaca nazionale quando, lo scorso luglio, ha conquistato la poltrona di sindaco di Tokyo, sconfiggendo proprio il candidato del Partito del premier. Abe avrebbe deciso di indire elezioni anticipate proprio per cercare di stoppare l’ascesa di Koike, desiderosa di replicare il proprio successo anche a livello nazionale: ma l’ex ministro della difesa si è mossa velocemente e, quasi in contemporanea con la decisione di Abe, ha presentato agli elettori il suo nuovo Partito della Speranza.

La nuova creatura politica, a secco di candidati da presentare in così poco tempo, ha ricevuto il supporto di molti esponenti del Partito Democratico che, dati gli scarsi risultati del loro partito, si sono rivolti a quello di Koike. Con la defezione degli esponenti del Partito Democratico, il Partito della Speranza possiede adesso più di 220 candidati, di cui soltanto 80 provenienti dalle proprie fila, con inevitabili ripercussioni sulla tenuta futura. Al riguardo, Koike ha subito annunciato che non svolgerà alcun incarico nel nuovo parlamento e continuerà a guidare la capitale, spegnendo i sogni di chi sperava nella prima donna premier del Giappone.

Nell’attesa di capire cosa farà realmente Koke, dinanzi al premier Abe potrebbe presentarsi quello che, in tempi recenti, ha preso il nome di Theresa May moment: la premier britannica, in cerca di maggior sostegno politico per intraprendere la Brexit, lo scorso 23 giugno ha indetto elezioni anticipate, ma ha visto ridurre il suo vantaggio sui Laburisti ed è stata costretta a cercare un partito con cui allearsi.

Decidere di sciogliere il parlamento e chiamare alle elezioni anticipate è uno degli strumenti più potenti che un primo ministro possiede, ma costringendo i suoi sostenitori a calarsi anticipatamente nella battaglia politica, va incontro al rischio concreto di perdere una parte del consenso che deteneva in precedenza. Oltre al recente esempio delle elezioni britanniche del 23 giugno 2017, anche il passato mostra che la scelta dei primi ministri di indire elezioni anticipate spesso si rivelano controproducenti. Sempre in Gran Bretagna, l’allora primo ministro britannico Harold Wilson nel maggio 1970 cercò di sfruttare la popolarità raggiunta dal Partito laburista, indicendo elezioni anticipate, ma il sostegno al Labour crollò e i conservatori si aggiudicarono 330 dei 630 seggi. Un recente articolo de Il Sole 24 Ore ha ripreso una ricerca del politologo Alastair Smith della New York University, pubblicata nel 2003 sul “British Journal of Political Science”. Il Prof. Smith, analizzando i risultati di molte elezioni dal 1945 ad oggi, è giunto alla conclusione che il sostegno popolare dei leader che indicono elezioni anticipate tende a diminuire nel periodo immediatamente prima del voto. Il punto chiave evidenziato è che la scelta del momento per le elezioni può rivelare molto del modo col quale i politici agiscono: i governi competenti attenderanno più a lungo prima di rivolgersi agli elettori, mentre quelli più insicuri cercheranno di sfruttare la popolarità. A riprova di questa tesi, Smith pone l’esempio di Margaret Thatcher che nel 1982, dopo la vittoria delle Falkland, fu spinta dai suoi colleghi di partito ad indire elezioni anticipate, per sfruttare l’enorme consenso di cui disponeva: invece lei aspettò, nonostante il rischio che eventuali errori politici potessero intaccare più avanti la sua popolarità, e stravinse le elezioni dell’anno successivo.

Danilo Giordano