Hillary Clinton Unveiled

Hillary Clinton close up schoeller
Credits: Hillary Clinton, photo by Martin Schoeller. Title: Close Up
Cosa pensa Hillary Clinton dell’Isis, della Siria, dell’Iraq e di Obama, e cosa possiamo aspettarci da una sua eventuale elezione nel 2016 come Presidente USA.

Il 10 agosto 2014 la rivista statunitense The Atlantic ha pubblicato una lunga e approfondita intervista ad Hillary Clinton, ex Segretario di Stato dell’Amministrazione Obama, e probabile candidata per i democratici alle prossime elezioni presidenziali del 2016. In questa intervista si affrontano molte questioni, tra le quali la più importante risulta essere la politica estera americana degli ultimi anni. Negli USA l’intervista è stata letta come una parziale bocciatura da parte dell’ex Segretario di Stato delle scelte di politica estera dell’amministrazione durante il secondo mandato di Obama.

Hillary Clinton – che starebbe preparando la propria candidatura da tempo, ed il cui manifesto politico può essere letto nell’ultimo libro da lei pubblicato “Hard Choices” – nel criticare le scelte di politica estera di Obama, sembrerebbe scansarsi dall’arrugginita figura politica del Comandante in Capo. Anche se l’intervista potrebbe esser letta come un attacco un po’ strumentale in vista della corsa alle primarie presidenziali, queste critiche, come scrive Ezra Klein su Vox.com, Hillary Clinton le ha sempre fatte, e sulla politica estera americana l’ha sempre pensata in questo modo. È uno dei motivi per cui non è mai andata molto d’accordo con il Presidente Obama; Clinton ha infatti molti dubbi sulle politiche distensive per il nucleare dell’Iran, non approva l’assunto obamiamo che vede più pericoli nell’azione, piuttosto che nell’inazione (“don’t do stupid stuff“), non supporta pienamente il disimpegno statunitense in Medioriente, è molto più allineata ad Israele rispetto ad Obama (e Kerry), eccetera. Scrive Klein,

The interview with Goldberg is being analyzed as a calculated gamble on Clinton’s part to distance herself from the Obama administration, and perhaps it is. But it matters because it’s also much more than that: this is what Clinton really believes. It’s what she believed before the Obama administration, it’s what she fought for inside the Obama administration, and it’s what she believes after leaving the Obama administration. This is insight into the kind of president Clinton would be, not just the kind of candidate she would be.

La dottrina di politica estera di Obama, seppur confusa e mal spiegata al Paese, poiché spesso infarcita di retorica idealista, è tuttavia abbastanza coerente con i cambiamenti geopolitici che stanno attraversando il mondo;  it is working.
Malgrado le contingenze che si sono dovute affrontare nell’ultimo periodo – dalle tensioni con la Russia, alle cosìddette “primavere arabe”, passando per i problemi nel Mare Cinese – contingenze che comunque, sono sempre figlie del riassestamento del potere globale, il taglio della politica estera obamiana ha contorni tutto sommato definiti. Semplificando, Obama ed i suoi consiglieri pensano che nel mondo di domani gli USA non potranno ricoprire quella funzione di attore unipolare che hanno ricoperto – mal interpretando il proprio ruolo internazionale, e provocando anche dei danni – dalla caduta del muro di Berlino fino alle amministrazioni George W. Bush. Obama, facendo un paragone che ad alcuni potrebbe sembrare improprio, sta tentando faticosamente di preparare gli Stati Uniti a quel mondo multipolare che – in maniera lungimirante – Nixon, e soprattutto Kissinger, avevano in qualche modo previsto più di 40 anni fa. In un discorso del 1971 Nixon disse esplicitamente che,

now when we see the world in which we are about to move, the United States no longer is in the position of complete preeminence or predominance. That is not a bad thing. As a matter of fact, it can be a constructive thing. The United States, let us understand, is still the strongest nation in the world; it is still the richest nation in the world. But now we face a situation where four other potential economic powers have the capacity, have the kind of people–if not the kind of government, but at least the kind of people–who can challenge us on every front.

Nel consueto discorso tenuto a West Point nel maggio del 2014, Obama ha statuito la propria dottrina di politica estera, dottrina che fino ad allora si era solo potuta intuire. Obama rifiuta ogni ipotesi isolazionista, ritenuta folle nel XXI secolo, e fa ricorso ad una retorica idealista che da’ molta importanza ai principi morali: “I believe that a world of greater freedom and tolerance is not only a moral imperative, it also helps to keep us safe”. Come però scrive la rivista americana The National Interest,

Despite eschewing the realist label and lacing his speeches with idealist rhetoric, the Obama of 2014 is very much a realist in practice. After the above set-up, he got down to matters of actual policy and declared, “to say that we have an interest in pursuing peace and freedom beyond our borders is not to say that every problem has a military solution.

Usando una fortunata analogia, Obama, nei fatti, mette al primo posto la cautela nell’affrontare le questioni internazionali con la forza diretta delle armi: “solo perché abbiamo il miglior martello non significa che ogni problema debba diventare un chiodo“. Hillary Clinton si oppone a questa visione del mondo, e il dibattito americano scatenato dall’intervista al The Atlantic, si concentra su queste importanti e diverse prospettive di vedute.

D’altronde Hillary Rodham Clinton è uno dei candidati alla presidenza più forti della storia americana. Anzi, possiamo dire senza sbilanciarci che è con tutta probabilità il Presidente degli Stati Uniti in pectore. Avere coscienza della sua visione vuol dire illuminare la politica estera americana del futuro, e quindi, di tutte le relazioni internazionali. Inevitabilmente nell’intervista – alla luce di quello che sta succedendo in Medioriente – Clinton, oltre a parlare in generale, entra più nello specifico riguardo alla Siria (e, per riflesso, all’Iraq). Innanzitutto: da nessuna parte e in nessun modo, Hillary Clinton ha accusato Obama di aver contribuito alla nascita dell’Isis. Quest’affermazione, banale, va precisata, perché nelle trasposizioni faziose che si leggono su certi media italiani (in alcuni, addirittura: aperte virgolette “L’Isis è roba nostra”, chiuse virgolette) sembra che Clinton abbia ammesso un coinvolgimento diretto dell’Amministrazione americana nella creazione e nella crescita dell’organizzazione terroristica – ora sedicente Califfatto – che imperversa tra Siria ed Iraq. Cosa che ovviamente la Clinton non ha mai detto o scritto. La Clinton, parlando nell’intervista dei contrasti tra lei – che avrebbe voluto un impegno statunitense più diretto, fin dall’inizio delle rivolte siriane – e Obama – che invece non aveva la minima intenzione di impelagarsi maggiormente in Siria, dice

is why I advocated this […] have some better insight into what was going on on the ground […] we would have been helped in standing up a credible political opposition, which would prove to be very difficult, because there was this constant struggle between what was largely an exile group outside of Syria trying to claim to be the political opposition, and the people on the ground, primarily those doing the fighting and dying, who rejected that, and we were never able to bridge that, despite a lot of efforts that Robert [Robert Ford, diplomatico di lungo corso, esperto di Medioriente, nominato ambasciatore in Siria contro il volere del Senato da Obama, proprio su raccomandazione di Hillary Clinton, ndr] and others made.

Ciò che Clinton critica ad Obama, è lo scarso impegno nel sostenere “l’opposizione siriana”. L’Amministrazione Obama, infatti, fin dall’inizio delle rivolte, aveva solo appoggiato a parole, ed in sede Onu, le richieste di regime changing in Siria, non risparmiandosi dure condanne – a parole e con sanzioni – al Governo di Bashar al-Assad. Il problema, rileva Clinton, era l’impossibilità di riunire in unico corpo il complicatissimo scenario delle opposizioni siriane, divise da motivazioni tribali, geografiche e religiose. Clinton prosegue dicendo,

therefore we needed to figure out how we could support them on the ground, better equip them, and we didn’t have to go all the way, and I totally understand the cautions that we had to contend with, but we’ll never know. And I don’t think we can claim to know [grassetto mio].

L’idea di Clinton era quella di intervenire on the ground – siamo nel 2011 – per avere il controllo sul campo dell’opposizione siriana. In poche parole, l’incubo di Obama: un’operazione di terra in Siria. Clinton nell’intervista si lamenta di “non essere andati fino in fondo”. Alla seguente domanda del giornalista, che le chiede se un intervento più deciso tre anni prima avrebbe impedito il proliferare dell’Isis, Clinton risponde

Well, I don’t know the answer to that. I know that the failure to help build up a credible fighting force of the people who were the originators of the protests against Assad—there were Islamists, there were secularists, there was everything in the middle—the failure to do that left a big vacuum, which the jihadists have now filled.

Va sottolineato come, fino al 24 febbraio 2012, cioè da quando è stato istituito a Tunisi il gruppo diplomatico denominato “Amici della Siria” – cui facevano parte una sessantina di nazioni che premevano per la fine delle violenze e l’apertura di una via risolutiva diplomatica del conflitto civile (che prevedeva una inevitabile – ed improbabile – sostituzione di Assad) – la comunità internazionale, e in particolare gli Stati Uniti, si erano ben poco prodigati nel sostenere, nei fatti, le opposizioni siriane. Obama riconobbe le opposizioni del Consiglio Nazionale Siriano, come “rappresentative del popolo della Siria” solo a dicembre dello stesso anno (e inviò aiuti “non letali” verso metà del 2012), mesi dopo che l’ebbero fatto la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi del Golfo e la Turchia, tenendo fuori da tale legittimazione i fondamentalisti di al-Nusra.
Tuttavia, nel giugno del 2013, il giornale americano Los Angeles Times, rese noto che durante il 2012, la CIA avrebbe addestrato in Turchia e Giordania un centinaio di componenti del Free Syrian Army all’uso di armamenti di tipo russo e sovietico. Questo addestramento avrebbe permesso ai ribelli siriani di utilizzare facilmente gli armamenti catturati all’esercito siriano, che sono prevalentemente di tipo russo. Una goccia nell’oceano, ammessa dalla stessa Clinton nel suo libro (pag. 593).

Ed è proprio questa la critica che Clinton fa ad Obama: scarso supporto ai ribelli. Al contrario degli USA, già all’inizio delle rivolte, cioè all’inizio del 2011, Arabia Saudita e Qatar erano impegnate nel sostenere alcuni gruppi di ribelli islamisti, tra i quali c’era il gruppo al-Nusra, ancora oggi affiliato ad al-Qaeda, e ad alcuni gruppi che in seguito si unirono all’Isi, attivo in Iraq, dando origine a quello che oggi chiamiamo Isis (che è oggi considerato un nemico dall’Arabia Saudita, dal Qatar e dalla stessa al-Qaeda, a causa dei metodi troppo brutali con cui agisce). Da questo punto di vista Clinton non ha tutti i torti nel definire un “fallimento” la strategia attendista di Obama, anche se non è dimostrabile che armando i ribelli del Free Syrian Army, ed aiutandoli sul campo, si sarebbe potuto fermare l’espansione dell’Isis in Siria ed Iraq. In “Scelte Difficili” scrive,

non era un segreto che vari Stati e singoli individui arabi stessero inviando armi in Siria. Ma il flusso era mal coordinato, con vari Paesi che sponsorizzavano gruppi armati diversi e talvolta in concorrenza tra loro. E una quantità allarmante di materiali finiva in mano agli estremisti. Poiché non partecipavano a quello sforzo, gli Stati Uniti non potevano esercitare la propria autorità sulle operazioni di raccolta e coordinamento dei rifornimenti di armi […] Se invece l’America si fosse decisa a entrare in gioco, sarebbe stata più efficace isolare gli estremisti e rafforzare i moderati in Siria [grassetti miei].

Clinton, nel suo libro, parla proprio di come, da quando è stato istituito il gruppo diplomatico “Amici della Siria“, si sia iniziato a discutere del modo in cui si sarebbe potuto aiutare i ribelli, con armi e rifornimenti militari, e di come questa eventualità preoccupasse la sua amministrazione (leggi: Obama e i suoi consiglieri). Clinton scrive testualmente che (pag. 583 dell’edizione italiana)

Io comprendevo la sua esasperazione [del Ministro degli Esteri saudita, Saud bin Faisal], nonché il desiderio di mutare gli equilibri delle forze in campo, ma c’era anche motivo di temere una ulteriore militarizzazione della situazione […] Una volta consegnate le armi nel Paese, non sarebbe stato facile controllarle, né impedire che finissero nelle mani degli estremisti [grassetto mio].

Clinton racconta che i nemici politici della Siria – Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi – premevano per rifornire di armi i ribelli, ma che la sua Amministrazione non poteva accettarlo, perché fino a quel momento era impossibile per loro distinguere on the ground i diversi gruppi di ribelli, non avendo questi una struttura organizzativa e di comando definita. Nella famigerata intervista al The Atlantic è quella scelta – che non dipese da lei, evidentemente – a venire criticata. Aiuti più concreti al Free Syrian Army arrivarono solo nell’estate del 2013 (a Clinton nel frattempo subentrò come Segretario di Stato, John Kerry), quando vi fu un grave attacco con armi chimiche a Damasco, sui quartieri in mano ai ribelli. Per Obama si era superata “la linea rossa“.*

A metà agosto 2014 l’Amministrazione Obama ha acconsentito ad inviare armamenti ai curdi iracheni che combattono contro l’Isis (stessa cosa ha deciso l’Unione Europea). Non c’è incoerenza tra la reticenza nell’aiutare i ribelli siriani, e la rapidità con cui si è deciso di armare i curdi: il Kurdistan iracheno è un’entità politica federale ed autonoma dell’Iraq, con un esercito regolare, strutture di comando e decisori riconoscibili. Dare forniture d’armi a un esercito regolare come quello curdo, è tutt’altra cosa rispetto all’armare, in un territorio in cui vige l’anarchia, diverse fazioni ribelli spesso in lotta tra di loro.

Proprio riguardo all’Iraq, le posizioni tra Obama e Clinton sono, di nuovo, distanti. Clinton, più che ai Democratici, sembra vicina alle posizioni dei neocon Repubblicani, sebbene quest’ultimi usino toni del tutto diversi rispetto a quelli figli dell’esperienza diplomatica di Clinton. Non molto diplomatica in realtà è stata la presa di posizione, dopo l’intervista della Clinton al The Atlantic, del più famoso consigliere politico di Obama, nonché direttore dell’Institute of Politics dell’Università di Chicago, David Axelrod,

Hillary Clinton, bisogna ricordarlo, votò a favore dell’invasione dell’Iraq nel 2002, ammettendo sul momento la “scelta difficile”, anticipando così il nome del suo libro, libro in cui scriverà che fu una scelta fatta “in buona fede in base alle informazioni che avevo“. Clinton è stata anche contraria al ritiro delle truppe americane dall’Iraq deciso (e promesso) da Obama per il 2011. Nell’ultimo periodo, e anche nell’ultima intervista, le opinioni riguardanti le decisioni da prendere in Iraq in seguito all’avanzata dell’Isis sono state molto caute e sfuggenti. Non stupisce; qualsiasi cosa Hillary Clinton pensi sull’Iraq, parlare in maniera troppo decisa e netta di una situazione altamente in divenire, in cui lei ha giocato un ruolo, per così dire, ambiguo, all’interno del Partito Democratico, potrebbe rivoltarsi contro di lei in vista della gara presidenziale. Si può però supporre, visto la coerenza di atteggiamento nel tempo, che se in questo momento fosse lei il Presidente, un intervento militare in Iraq contro l’avanzata dell’Isis potrebbe essere altamente probabile.


* Il resto della storia la conoscete: in quei giorni concitati, dove sembrava sempre più possibile un intervento militare diretto americano nel conflitto in Siria, un’uscita estemporanea e probabilmente casuale di Kerry allontanò lo spettro della guerra[Assad] potrebbe consegnare tutte le sue armi chimiche alla comunità internazionale“, disse Kerry ad un giornalista che gli chiedeva cosa potesse fare Assad per prevenire un’azione militare americana. I russi interpretarono seriamente quell’affermazione, e si impegnarono per far sì che Assad consegnasse le armi chimiche.

Lorenzo Carota