Turchia, Israele e Russia: il ritorno della diplomazia

Turkish President Tayyip Erdogan makes a speech during an iftar event in Ankara, Turkey, June 27, 2016. Murat Cetinmuhurdar/Presidential Palace/Handout via REUTERS ATTENTION EDITORS - THIS PICTURE WAS PROVIDED BY A THIRD PARTY. FOR EDITORIAL USE ONLY. NO RESALES. NO ARCHIVE. TPX IMAGES OF THE DAY
di Marta Furlan e Lorenzo Carota
L’isolamento diplomatico internazionale della Turchia ha raggiunto negli ultimi mesi livelli mai toccati. La leadership del Paese se ne è accorta, ed è dovuta correre ai ripari, normalizzando le relazioni con due storici avversari regionali: Russia e Israele.

[ecko_alert color=”orange”]Gli antefatti[/ecko_alert]

Gli ultimi anni sono stati per la Turchia molto complicati dal punto di vista politico e diplomatico. L’esplosione della guerra civile siriana ha offerto ad Ankara la possibilità, poi arenatasi, di abbattere uno dei suoi peggiori nemici: la Siria di al-Assad. Con l’iniziale supporto accordato ai ribelli – aiuti e rifornimenti che talvolta sono finiti direttamente e indirettamente a gruppi di varia intensità jihadista – il Presidente Erdogan si è attirato le critiche dei suoi alleati occidentali e della Nato (di cui la Turchia fa parte).

Il supporto russo è riuscito a puntellare militarmente e politicamente ciò che rimaneva del regime siriano, rendendo più complicato per Ankara agire indirettamente per il suo abbattimento. Inoltre, il supporto occidentale ai gruppi ribelli curdi dell’Iraq e della Siria che combattono, oltre alle forze lealiste, anche Isis e al-Nusra, ha fatto innervosire Ankara, che vede nel rafforzamento dei curdi in quelle aree, una delle più grandi minacce alla propria sicurezza nazionale.

Accettando in seguito di affiancarsi alla coalizione occidentale che combatte l’Isis, Ankara si è ritrovata a dover fronteggiare sul proprio territorio anche il terrorismo jihadista, oltre a quello curdo, come spiega questo articolo del Time.

L’abbattimento nei cieli tra Siria e Turchia di un Sukhoi Su-24 russo a fine novembre 2015 ha poi causato una gravissima crisi diplomatica con la Russia, emha fatto piovere su Ankara pesanti critiche da parte degli alleati Nato per azioni ritenute, a ragione, irresponsabili.

Nel Maghreb la Turchia ha inoltre perso un importante alleato: l’Egitto dei Fratelli Musulmani. Il golpe guidato dal generale al-Sisi del 2013 ha instaurato nel Paese un regime militare che non ha perso tempo e non ha lesinato risorse per eliminare ogni velleità e aspirazione politica del gruppo politico islamista, fortemente sostenuto da Ankara.

A tutto questo va aggiunta la strada autoritaria che il Paese ha imboccato da qualche anno a questa parte con l’accentramento del potere nelle mani del Presidente Erdogan; forti limitazioni alla libertà di stampa e di cronaca hanno accompagnato dure repressioni di manifestazioni di piazza e allontanato ogni remota possibilità di veder attivato un processo di adesione della “sublime porta” al progetto europeo. I ricatti giunti a Brussels sulla questione dei migranti hanno definitivamente dissipato la restante fiducia dei leader europei nella leadership turca, nonostante – va’ detto – la Turchia stia ospitando milioni di rifugiati siriani tra i suoi confini.

Rifugiati siriani su territorio turco, ultime stime / source: data.unhcr.org
Rifugiati siriani su territorio turco, ultime stime / source: data.unhcr.org

Il sigillo di questa deriva è arrivato il 5 maggio 2016, quando con una decisione per alcuni versi inaspettata, il Presidente Erdogan ha deciso di mettere da parte il suo Primo ministro, nonché (ex) più fidato consigliere ed ex-Ministro degli affari esteri, il prof. Ahmet Davutoglu, l’uomo che teneva i contatti, da anni, con tutte le cancellerie europee e occidentali. L’auto-isolamento diplomatico della Turchia poteva quindi dirsi compiuto: il punto più basso delle relazioni di politica estera del Paese da molti anni a questa parte.

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Per questo motivo probabilmente, ad Ankara, si sono resi conto che la situazione internazionale non permette al Paese di prolungare un isolamento tanto pericoloso quanto dannoso per le mire di egemonia regionale del grande Stato turco. Vanno lette in questo senso le due ultime azioni diplomatiche di Erdogan: la normalizzazione dei rapporti con Israele con la Russia.

[ecko_alert color=”orange”]L’accordo con Israele[/ecko_alert]

Lunedì scorso, dopo quasi due anni di negoziazioni e sei anni di congelamento dei rapporti diplomatici, Israele e Turchia hanno raggiunto un accordo che ristabilirà piene relazioni tra Tel Aviv e Ankara, interrotte nel 2010, quando soldati dell’IDF assaltarono un vascello turco – il Mavi Marmara – che stava tentando di violare il blocco navale imposto da Israele sulla striscia di Gaza, uccidendo 10 attivisti turchi che si trovavano a bordo. L’episodio del Mavi Marmara fu l’evento che all’epoca fece collassare le relazioni bilaterali turco-israeliane, già difficili e tese a causa del legame tra il sostegno turco ad Hamas.

Tale accordo, annunciato lunedì da Benjamin Netanyahu, Primo ministro israeliano, e Binali Yildrim, Primo ministro turco, è frutto di diversi compromessi, come è del resto il destino di ogni accordo diplomatico che voglia essere credibile e duraturo. Entrambi gli attori sono riusciti ad ottenere l’accettazione di alcune delle proprie richieste più pressanti e a non fare concessioni sulle questioni più delicate.

La Turchia ha ottenuto da parte di Israele scuse formali per l’episodio del Mavi Marmara, nonché una compensazione di 20 milioni di dollari per le famiglie degli attivisti turchi uccisi. Mentre la richiesta di smantellamento del blocco navale contro Gaza è stata (inevitabilmente) rifiutata dal governo israeliano, che considera il blocco navale essenziale per evitare il traffico di armi in favore di Hamas. Tuttavia, Ankara ha ottenuto la possibilità di trasferire aiuti a Gaza tramite il porto Israeliano di Ashdod, riuscendo in questo modo a preservare la propria credibilità come difensore della causa palestinese.

Un’affessione esposta nella città di Ankara, in Turchia, che ringrazia l’allora primo ministro ed oggi presidente turco Erdogan dopo che è riuscito ad ottenere delle scuse dal primo ministro israeliano  Netanyahu per le uccisioni di 9 cittadini turchi nei fatti del Mavi Marmara del 2010 / credits: ADEM ALTAN/AFP/Getty Images

Dal canto suo, Israele ha ottenuto da Ankara l’impegno a intervenire su ogni tentativo di Hamas di sfruttare le proprie basi in Turchia per condurre attacchi contro Israele. In questo modo, Netanyahu ha potuto non ledere agli occhi della destra israeliana e degli elettori del suo partito, il Likud, la propria credibilità come garante della sicurezza, essendo riuscito a mantenere il blocco navale a Gaza e limitando i trasferimenti verso la Striscia ai soli aiuti umanitari.

Ciò che invece ha sollevato nell’opinione pubblica e nella classe politica israeliana voci di protesta è stato il fatto che Netanyahu non sia riuscito ad ottenere la restituzione da parte di Hamas delle salme di due soldati dell’IDF uccisi nella Striscia durante la guerra del 2014, e che si sia dovuto piegare alla compensazione di 20 milioni di dollari. Nonostante le critiche mosse, però, secondo diversi commentatori israeliani l’accordo sarebbe equilibrato perché che non crea né vincitori né vinti.

Resta però da interrogarsi su cosa abbia spinto Ankara e Tel Aviv a cercarlo. Quali calcoli e quali interessi si celano dietro un riavvicinamento che ha impiegato sei anni per concretizzarsi?

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Indubbiamente, come accennato nell’introduzione dell’articolo, la ragione che per entrambi i Paesi ha giocato un ruolo di primo piano è il deterioramento della sicurezza in Medio Oriente, dove guerre civili, stati falliti e terrorismo jihadista, hanno rivelato a Turchia e Israele la necessità di ricucire i loro rapporti e possibilmente aprire nuovi spazi di cooperazione.

In questo contesto è diventato essenziale per Ankara investire i propri sforzi diplomatici per una risoluzione del conflitto siriano che tenga debito conto dei propri interessi nazionali. Ma il fallimento della politica dello “zero problems with neighbours” – il cui fautore principale, l’ex-Ministro degli esteri ed ex-Primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, è stato allontanato dalla politica dal Presidente Erdogan – ha obbligato la Turchia a limitare le inimicizie nella regione, normalizzando i propri rapporti con Israele.

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Tel Aviv è anch’essa interessata alle dinamiche siriane in quanto la guerra in Siria ha creato un terreno fertile per un aumento di influenza nell’area dei nemici storici di Israele: Hezbollah e, soprattutto, l’Iran. Teheran, – molto più di Hezbollah, il cui costo per il supporto al regime siriano sta diventando parecchio oneroso – sta aumentando la propria influenza politica nelle dinamiche del Levante. Di fronte a questa minaccia, è diventato allora fondamentale per Israele controbilanciare l’influenza dell’Iran e scongiurare un rafforzamento futuro di Hezbollah; per fare ciò, Tel Aviv ha dovuto volgere lo sguardo verso la Turchia, storico rivale dell’Iran sciita.

Sia Tel Aviv che Ankara, poi, trovano una comune minaccia e un nemico diretto nel terrorismo jihadista, del quale la Turchia è nell’ultimo anno diventata spesso vittima. Un avvicinamento tra Israele e Turchia è così emerso nelle rispettive capitali come un passo necessario per una possibile cooperazione futura nella lotta al terrorismo, percepita dai due Paesi come prioritaria.

A queste considerazioni di sicurezza, poi, sono da aggiungere anche calcoli di altro tipo, economico e geopolitico. L’accordo di normalizzazione renderebbe ora possibile per Israele la vendita del gas proveniente dai giacimenti scoperti negli ultimi anni alla Turchia e – attraverso di essa – ai Paesi europei. Simili considerazioni economiche hanno giocato un ruolo anche dal lato turco, con Ankara che sta cercando di diversificare il bacino dei propri fornitori di gas in modo da rendersi meno vulnerabile e meno dipendente dal gas russo.

naturalgaseurope.com

[ecko_alert color=”orange”]La normalizzazione dei rapporti con la Russia[/ecko_alert]

Appena a fine maggio, la Turchia ha accusato la Russia di aver bombardato un ospedale ad Idlib, in Siria. Mosca ha negato, ed ha intimato ad Ankara di ritirare le sue truppe dalle aree dell’Iraq del nord. Tra i due Paesi, come visto nella premessa di questo articolo, la tensione era massima, e tra accuse e sanzioni la situazione non sembrava di facile risoluzione.

In quegli stessi giorni, ad inizio giugno, inaspettatamente Erdogan fece una dichiarazione che paventava un cambio di rotta nella retorica turca nei confronti della Russia. Parlando dell’abbattimento del jet russo nei cieli turco-siriani, Erdogan definì quell’atto “un errore del pilota”; fino a quel momento la linea mantenuta dal governo sulla giustificazione dell’abbattimento era stata quella della violazione dello spazio areo turco da parte del Sukhoi Su-24 russo.

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Sequenza dell’abbattimento del jet militare russo, schiantatosi sulle colline siriane / Reuters

Questa dichiarazione apriva allo scenario delle scuse ufficiali, ritenute improbabili da diversi analisti, tra cui l’esperto di diplomazia Semih Idiz e da Soner Cagaptay del Washington Institute, interpellati da BBC. 

Le scuse alla fine sono invece arrivate. In una lettera ufficiale spedita a firma del Presidente turco ed indirizzata a Putin, Erdogan ha espresso le proprie scuse per l’avvenuto abbattimento. La lettera – si noti – è stata inviata lo stesso giorno in cui è stata comunicata la ripresa dei rapporti diplomatici tra Turchia e Israele. Girano su internet diverse traduzioni di questa lettera: in alcune le scuse sono relegate a mero “rammarico” per l’incidente, tanto che dopo i primi giorni in cui queste scuse apparivano “ufficiali” – e così le hanno raccontate i media russi -, in una nota del portavoce di Erdogan si afferma che quella lettera voleva esprimere solo “profondo dispiacere”.

Si tratta di differenze all’apparenza minime, ma che nella diplomazia hanno un certo peso, e devono essere lette nella giusta ottica, come ha scritto il sito Russia In Traslation,

Il giornalista tartaro di Crimea Osman Pashayev ha fatto notare che la frase “kurusa bakma”, utilizzata dal presidente Erdogan, significa “non offendetevi” e viene usata quando chi si scusa si ritiene nel giusto, mentre l’altro interlocutore, ingiustamente, si ritiene ferito.

Probabilmente basterà l’esistenza di queste due “versioni” per far accettare ad entrambi le parti una normalizzazione diplomatica. Tra Russia e Turchia corrono tensioni secolari (ne trovate un’approfondita analisi dalla pag.80 del nostro annuario cartaceo, che potete scaricare gratuitamente qui), ma anche importanti accordi economici. La Turchia fa affluire nelle casse russe molti rubli, derivanti dalla propria ancora forte dipendenza energetica (gas e petrolio), e beneficia(va) ogni anno dell’afflusso di milioni di turisti russi nel Paese, secondi solo per numero ai turisti tedeschi. D’altra parte, alla Russia serve poter contare sulla Turchia per raggiungere con le condutture del Turkish Stream il grande mercato energetico europeo.

Render del progetto Turkstream che dovrebbe attraversare il Mar Nero per portare gas e petrolio in Europa / credits: Turkstream

Sul fronte del terrorismo, anche in questo caso, le contingenze hanno spinto le diplomazie dei due Paesi a cercare una maggior coordinazione. Lunedì 4 luglio è stato lo stesso Ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, a dichiarare che una cooperazione in funzione anti-Isis tra Russia e Turchia è possibile e auspicabile.

C’è poi da considerare anche il contesto regionale, che vede l’Iran,  sempre più preoccupato dell’influenza russa nell’area. La Russia potrebbe sfruttare questo riavvicinamento con la Turchia in modo da ri-bilanciare le aspirazioni di influenza iraniana nella regione.

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Alla luce di queste considerazioni appare evidente come Erdogan si sia ritrovato schiacciato dall’isolamento diplomatico internazionale, e abbia dovuto in qualche modo mettere da parte la retorica e fare un bagno di realismo: troppe le minacce che stavano accerchiando la Turchia, che pur avendo potenti alleati – benché sempre più riluttanti – ha l’imperativa necessità di non fomentare vecchie inimicizie.