Gli Stati Uniti e la strategia africana

L’impegno e le strategie degli Stati Uniti d’America in Africa si scontrano con il bisogno di stabilità e la necessità di dare supporto agli alleati qui presenti. Vi forniamo una breve panoramica sugli Stati Uniti e la strategia africana.

Africa. Nonostante sia un’area sulla quale si concentra un’attenzione minore rispetto ad altri scenari, come quelli mediorientali o dell’Asia meridionale, anche questo continente negli ultimi due decenni ha visto la crescita esponenziale di gruppi estremisti islamisti che hanno scosso le già deboli fondamenta degli Stati settentrionali del continente.

Tale situazione è peggiorata con lo scoppio delle proteste tunisine del 2011 sfociate nelle cosìddette “primavere arabe” e con la caduta del regime libico di Gheddafi dovuta all’intervento della NATO.

In realtà, parlare degli interventi statunitensi significa occuparsi di due zone in particolare del continente: gli Stati del Sahel e Maghreb, e il Corno d’Africa, in particolar modo della Somalia. Sono queste le due aree strategiche dove risiedono gli interessi statunitensi.

Prima di procedere alla discussione dei casi concreti è rilevante sottolineare che, così come per ogni altro continente, il sistema di difesa degli Stati Uniti ha assegnato a uno specifico comando combattente geografico la responsabilità delle politiche di sicurezza e difesa.

I sei comandi geografici dell’esercito USA – wikiwand.com

Benché l’AFRICOM (African Command) sia il più recente tra gli esistenti, è stato indubbiamente quello che ha visto un maggior cambiamento d’impostazione negli ultimi anni; infatti al momento della sua creazione, nel 2006, quando la supervisione dell’Africa venne tolta dal corrispondente Comando degli Stati Uniti in Europa (EUCOM), si decise che le politiche che avrebbero guidato tale struttura sarebbero state principalmente incentrate sullo sviluppo dei rapporti diplomatici e di cooperazione.

Quartier Generale dell’AFRICOM, a Stuttgart – Vince Crawley/U.S. Africa Command

Non a caso il Pentagono decise che il secondo in comando, dopo il generale/ammiraglio che lo avrebbe guidato, sarebbe stato un appartenente al servizio diplomatico. Inoltre non si volle nemmeno stabilire un quartier generale in territorio africano, decidendo di mantenerlo nello stesso luogo del “comando genitoriale”, ossia Stuttgart, in Germania.

Per il resto l’AFRICOM è stato inizialmente organizzato come un comando subordinato responsabile per le forze appartenenti all’Esercito, Marina, Aviazione e Corpo dei Marines (sebbene questi ultimi tre sarebbero stati guidati dal comandante dei corrispondenti servizi all’interno dell’EUCOM). Da non dimenticare, in un contesto come quello locale, l’importantissima componente rappresentata dalle SOF (Special Operations Forces). La situazione internazionale ha portato a diversi cambiamenti.

IL SAHEL – All’indomani degli attacchi dell’11 settembre, quindi diversi anni prima della costituzione del comando suddetto, gli Stati Uniti misero sotto la lente d’ingrandimento ciò che si stava creando nei poveri e fragili stati compresi tra l’Oceano Atlantico e il Sudan, ovverosia uno spazio funzionale al passaggio di armi, beni e persone potenzialmente riconducibili ai gruppi terroristici già esistenti (in special modo le formazioni algerine) che, se lasciato senza controllo, avrebbe potuto facilitare lo spostamento verso paesi alleati, oltre a non escludere poi la possibilità che si costituissero nuove basi logistiche da cui pianificare e lanciare attacchi.

Da tali considerazioni nacque la prima operazione contro-terroristica “a stelle e strisce” in quest’area dell’Africa, mirante principalmente a finanziare le forze di sicurezza locali di Paesi come Mauritania, Niger, Ciad e Mali. I programmi erano ancora limitati e gestiti principalmente da nuclei appartenenti alle SOF, sebbene anche i governi nazionali ricevettero non senza critiche numerosi finanziamenti atti a potenziare gli apparati di sicurezza e migliorare le capacità.

Gli Stati Uniti erano ancora fortemente concentrati sull’Afghanistan e si stavano preparando a invadere l’Iraq e, in secondo luogo, gli stessi gruppi terroristici si limitavano a colpire i turisti che si avventuravano nel deserto o a continuare il loro tentativo insurrezionale in Algeria, pur iniziando ad allinearsi ai dettami provenienti dal nemico “numero uno” degli USA in quel momento, ossia Al Qaeda.

Tuttavia l’evento che condusse a un deciso cambio di passo lo si ebbe nell’anno 2011, come risultato dell’operazione Odyssey Dawn.

Forze statunitensi addestrano soldati senegalesi – U.S. Army photo by Sgt. Heather Doppke

Con tale nome si indica la prima e finora unica operazione militare maggiore condotta dall’AFRICOM all’interno della sua area di responsabilità; sostanzialmente, l’intervento che Obama autorizzò in modo da supportare con i “muscoli” delle Forze Armate statunitensi le azioni avviate dal Presidente francese Sarkozy e dal Premier inglese Cameron.

La caduta, dopo qualche mese di bombardamenti, del regime di Gheddafi comportò tutta una serie di fattori che andarono, inevitabilmente, a incidere sull’area maghrebina e del Sahel: in primis, il caos che seguì al vuoto di potere portò alla proliferazione incontrollata di numerose milizie armate, rendendo quindi estremamente difficile il controllo del territorio, oltre a permettere la nascita di ulteriori formazioni fondamentaliste.

In secondo luogo la razzia dei depositi di armi libici comportò l’aumento della violenza e l’esportazione di conseguente instabilità in tutta la regione; infine, si registrò un’abbondante presenza di manodopera impiegabile per fini illeciti. Con questa espressione si intende specificare che numerosi appartenenti alle tribù Tuareg, impiegate tradizionalmente dal dittatore libico come assicurazione alla propria sicurezza, si trovarono immediatamente disoccupate. Ed essendo ben armate e dotate di esperienza fu immediata la decisione di andar ad assicurare i propri servigi a qualcun altro.

Ben presto gli Stati Uniti dovettero non solo tornare a intervenire in Libia proprio per limitare l’espansione dello Stato Islamico, colpendo basi d’addestramento nel deserto o aiutando il governo legittimo a “liberare” Sirte (nonché attuando audaci operazioni contro-terroristiche condotte dalla Delta Force su obiettivi appartenenti ad Al-Qaeda “storica”), ma anche a sostenere l’intervento francese che nel 2013 si avviò in Mali.

Quest’ultimo paese fu, infatti, la vittima designata delle formazioni Tuareg e gruppi terroristici alleati che, riuscendo a sfruttare un colpo di stato militare, partirono dal nord desertico e marciarono sino a raggiungere Bamako, la capitale (sita assai vicino il confine con altri numerosi stati dell’Africa occidentale).

I francesi, dispiegati nell’area del Sahel sin dai primi giorni dell’indipendenza di quegli stessi paesi, riuscirono sostenere il ritmo delle operazioni proprio in virtù della collaborazione statunitense, anche in quanto la presenza insurrezionale e terroristica si era oramai espansa fortemente, tanto da presentarsi in formazioni dalle molteplici denominazioni. Quest’ultima affermazione dal 2017 ha finito di essere vera, in quanto vi è stata la creazione di un gruppo unitario.

Soldati francesi in Mali – AFP Photo/Dominique Faget

È da notare come a partire dal 2013 numerosi siano stati gli attacchi contro obiettivi internazionali associati ai governi occidentali o nei confronti delle forze di sicurezza locali in vaste aree, comprendenti anche stati precedentemente non toccati dalle violenze come il Burkina Faso o la Costa d’Avorio.

Piuttosto rilevante, per esempio, l’imboscata in cui caddero vittima nell’ottobre 2017 quattro uomini appartenenti alle Forze Speciali degli Stati Uniti impegnati assieme all’Esercito maliano in una missione contro obiettivi riconducibili a cellule Isis. I morti che seguirono agli scontri hanno costretto il Pentagono a rivedere i propri metodi d’impiego delle unità terrestri, anche in ragione della scarsità di mezzi (soprattutto aerei) e rinforzi nel caso di attacchi di questo tipo. Non è da dimenticare, infatti, le enormi distanze caratterizzanti questi territori.

Attualmente, gli Stati Uniti stanno costruendo nella città di Agadez, nel Niger centrale, un’installazione che diverrà la più importante posseduta in Africa (200 milioni di dollari il suo costo), che permetterà lo stazionamento dei droni impiegati nelle missioni ISR (Intelligence, Survelliance and Recognition) a sostegno delle proprie operazioni e di quelle alleate.

Probabilmente, a differenza di quanto avviene ora, vi sarà la presenza anche di droni armati, che avrebbero la capacità di operare più a lungo non dovendo volare dalle basi europee (la NAS di Sigonella, Sicilia, soprattutto). La locazione delle base quindi è assai rilevante, dato che si troverà esattamente nel centro di quell’area del Sahel che, come detto sinora, si rivela così strategica.

Tanto più che permetterà anche di avvicinarsi a quell’altro paese fondamentale dell’Africa occidentale che è la Nigeria, a propria volta alle prese con l’insurrezione messa in atto da Boko Haram, formazione principalmente famosa in Occidente per il rapimento di centinaia di ragazze in età scolare, alcune mai più tornate a casa.

IL CORNO D’AFRICA – La presenza statunitense esattamente all’altro estremo del continente africano è immediatamente successiva al settembre 2001, con l’apertura nel piccolo Stato di Gibuti della base di Camp Lemonnier, l’unica effettivamente permanente per le Forze Armate statunitensi in Africa.

Agire in questa ex colonia francese presenta molteplici vantaggi: un paese piccolo e stabile, una locazione strategica affacciata sullo stretto di Bab Al-Mandab, uno dei chockepoint planetari attraverso cui passano le rotte commerciali e petrolifere, e la vicinanza a due territori potenzialmente pericolosi in quanto luoghi di presenza jihadista come lo Yemen, esattamente frontale rispetto a Gibuti, e la Somalia, vecchia conoscenza del Pentagono.

La struttura era sede di una Combined Joint Task Force, l’acronimo militare per indicare un insieme di forze statunitensi e alleate appartenenti a vari servizi, che anch’essa dopo la creazione dell’AFRICOM si integrò nella gerarchia tradizionale.

In realtà le operazioni militari nel primo decennio del 2000 si rivolsero primariamente al problema della pirateria che piagava le acque al largo della Somalia, la cui condizione politica era quella di un failed state dominato dai signori della guerra. Numerose navi della U.S. Navy procedettero progressivamente ad affrontare, anche in accordo con gli alleati europei, la questione, rendendo di conseguenza questa pratica assai rischiosa e poco redditizia per i somali medesimi.

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Tuttavia, nel lungo periodo, anche in quest’area la tipologia degli interventi si spostò a favore di attività di contro-terrorismo nei confronti del gruppo fondamentalista somalo, Al-Shabaab, affiliato ad Al-Qaeda, presentando interventi a sostegno delle unità militari della missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) o, per la prima volta dalla fallita operazione a Mogadiscio nel 1993, in completa autonomia.

La questione della diffusione dell’estremismo in Somalia non fu certamente una novità di quegli anni, sebbene lo sviluppo massimo e incontrollato si ebbe a partire dal 2006, momento nel quale una coalizione di forze conosciute con il nome di Unione delle Corti Islamiche si impossessò della capitale e di buona parte dello Stato (ancorché, di fatto, esso esistesse esclusivamente “sulla carta”).

L’invasione portata avanti dal governo etiope con lo scopo di rovesciare il governo fu il detonatore che in realtà avviò una sorta di campagna insurrezionale da parte della suddetta coalizione. Il successivo intervento dell’Unione Africana non fece altro che esacerbare le dinamiche, fino a giungere ad attentati condotti anche al di fuori dei confini del Paese e verso i territori dei membri costituenti la missione militare. Si ricordi a questo proposito l’attacco contro gli spettatori della finale dei mondiali di calcio del 1998 avvenuto in un locale ugandese, e quello rivolto contro un centro commerciale keniano, totalizzanti circa 180 morti.

Scena dell’attacco in Uganda in un locale che trasmetteva una partita dei mondiali tenuti in Francia nel 1998 – Marc Hofer/AP

Dopo questo deterioramento di eventi, il Pentagono decise di abbandonare la politica che sino a quel momento aveva impedito il ritorno di unità terrestri sul suolo somalo, incrementando prima i voli ISR condotti principalmente da droni e poi facendoli seguire da numerosi blitz eseguiti dal Seal Team Six (il reparto impegnato nel 2011 nella missione contro Bin Laden).

Questi risultarono nella morte o cattura di un certo numero di responsabili di medio e alto livello degli Shabaab, permettendo quindi alle forze africane di riprendere il controllo di molte aree precedentemente in mano avversaria. Progressivamente, poi, si passò all’espansione di attacchi condotti tramite droni armati, tanto da portare la Somalia a essere oggigiorno il terzo teatro operativo di maggior impegno dopo i tradizionali afghano e iracheno-siriano, superando persino le operazioni condotte in Yemen.

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Non va dimenticato, inoltre, dimenticato che altre unità di Forze Speciali sono attualmente impegnate (anche con alleati di paesi europei, Italia inclusa) nell’addestramento delle forze somale appartenente al debole governo federale. Ciò al fine di condurre una campagna contro-insurrezionale efficiente, pur continuando a mantenere l’aspetto contro-terroristico sotto la responsabilità statunitense.

IL FUTURO – Un aspetto piuttosto interessante sarà stabilire quale saranno le mosse future del Dipartimento della Difesa nella realtà africana. Infatti, notizia di qualche giorno fa è che il Segretario alla Difesa Mattis e i capi dei vari servizi armati hanno sostanzialmente deciso che il maggior impegno che negli ultimi anni è stato dedicato ai quadranti locali, con una presenza globale di circa 7.200 uomini, dovrà essere ridotto.

Tale decisione in ragione delle nuove priorità che gli Stati Uniti si sono dati riguardo alla rinascente competizione tra potenze, ossia Cina e Russia, fatto che di conseguenza comporterà un dispiegamento militare prioritario in altre zone del globo, anche da parte di quelle forze per operazioni speciali che sino a questi tempi hanno svolto la parte dei protagonisti.

Tuttavia, come dimostra la sopra descritta costruzione di una base aerea in Niger, i piani non prevedono l’abbandono del continente, anche in ragione del fatto che i paesi instabili e piagati dall’estremismo si trovano tutti in aree fondamentali e con possibili ricadute su terzi, che siano rotte commerciali o ulteriori Stati di maggiore rilevanza strategica (leggi Egitto, Nigeria o addirittura il continente europeo).

Non rendersi conto della complessità di tali situazioni, come alcuni governanti europei parrebbero fare (anche con la conseguente incapacità di illustrarlo ai propri cittadini), sarebbe un errore di enorme portata.

di Luca Bettinelli