4 riflessioni sulla vittoria di Donald Trump

Il tycoon di New York batte analisti e sondaggi, aggiudicandosi la poltrona alla Casa Bianca. Ecco come si spiega l’inaspettata vittoria di Trump.

Alla fine è accaduto. Donald Trump, fino a due anni fa noto per apparizioni estemporanee in qualità di wrestler, o come macchietta televisiva e fonte di meme su internet nel reality The Apprentice, ha vinto le elezioni presidenziali, e da Gennaio dell’anno prossimo sarà per quattro anni l’uomo più potente sulla Terra.

L’evento è stato salutato da incoraggianti avvenimenti quali il crollo del Pesos messicano e una corsa delle borse nell’acquisto di oro, il bene rifugio per eccellenza in vista di scenari economici tetri. In Europa si grida già al panico e gli Stati Uniti si scoprono un paese spaccato a metà su diverse direttrici, da quella etnica (bianchi vs people of color) a quella urbana e culturale (grandi metropoli multiculturali vs periferia e aree rurali).

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Donald Trump sarà il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America. Credits: David Zalubowski/AP

Alla vigilia delle elezioni pochi avrebbero scommesso sulla vittoria del tycoon, anche tra i suoi stessi sostenitori. Di fronte a sondaggi come quello commissionato dal New York Times che dava a Hillary Clinton l’85% di probabilità di successo il clima era ormai preparato alla consacrazione della prima donna Presidente degli Stati Uniti. Soltanto Michael Moore (e l’Intelligenza artificiale) hanno saputo prevedere che Trump avrebbe potuto vincere grazie alle contraddizioni e alle paure che pervadono la società americana.

Cerchiamo dunque, a caldo, di analizzare alcune possibili ragioni che hanno portato alla vittoria di Trump.

La trappola populista continua a mietere vittime

E dire che sono anni che aleggia nell’Occidente democratico come un morbo dormiente in attesa di esplodere alle prime avvisaglie di crisi. Attribuire ai sostenitori di un demagogo caratteristiche intrinseche d’inferiorità (ignoranza, odio, webete) non fa altro che rafforzare la posizione del demagogo stesso, ampliandone il consenso. Noi in Italia lo sappiamo bene. Il solo antidoto efficace per debellarlo sono i contenuti e Clinton, nel tentativo di accontentare tutti, non è riuscita a dare un’idea chiara di quello che voleva fare; come Trump certo, soltanto che lui da bravo demagogo poteva permetterselo mentre lei, che si è presentata con la forza della sua competenza in politica, no.

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L’epoca dei testimonial e degli endorsement è finita

Moltissime riviste si sono lanciate in editoriali strappalacrime nei quali indicavano che in via del tutto eccezionale avrebbero dato il proprio appoggio a Hillary Clinton. Al tempo stesso, un esercito di celebrità, opinionisti e intellettuali ha marciato compatto a favore della candidata democratica. Vent’anni fa, quando il cittadino medio occidentale pendeva dalle labbra dei grandi giornali e delle star del cinema, della musica e della televisione, tutto questo battage avrebbe consegnato la vittoria alla Clinton.

Oggi, con Internet e gli “imprenditori di sé stessi”, se c’è una cosa che il cittadino occidentale non sopporta è quella di sentirsi dire cosa fare da chicchessia, soprattutto se la dritta viene da chi è influente o famoso (leggi: le élite). Quella che un tempo era ammirazione per uomini e donne di successo, oggi è diventato risentimento (o peggio, rancore) verso che si esprime su problemi che, in fondo, non la riguardano affatto. Parliamo dello scollamento tra la realtà di chi fa parte dell’élite, e chi invece ne è tagliato fuori e attende invano da anni di poter salire sui sempre più rari ascensori sociali. Per questa ragione ogni endorsement a favore di Hillary Clinton ha portato voti su voti a favore di Donald Trump, il quale si è guardato bene dal replicare a ogni levata di scudi contro di lui da parte di giornali, star dello spettacolo e intellettuali.

Il futuro incerto è la vera paura degli elettori (non le performance economiche)

Un’altra delle ragioni per cui in molti erano certi della vittoria di Hillary è la capacità, da parte di Obama, di trascinare il paese fuori dalla crisi economica. Con un paese in crescita, si pensava, l’elettorato americano non sarebbe stato così impaurito e furibondo nei confronti dell’establishment, ben rappresentato da Hillary, rispetto agli elettorati dei paesi europei ancora impantanati in una fase di stagnazione. La vittoria di Trump in Michigan, stato delle tute blu per eccellenza, dimostra tuttavia come ridare occupazione e far ripartire l’economia non sia sufficiente laddove l’elettore è ancora preoccupato per ciò che gli riserva futuro.

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La febbre politica ha caratterizzato lo scontro tra i due candidati alla presidenza sin dall’inizio della campagna elettorale negli States – credits: Seth McConnell/The Denver Post

L’America è stufa di essere la Casa sulla Collina

Make American Great Again” è stato interpretato da molti come una nuova fase di aggressività imperiale da parte americana sullo stile dei neocon di George W. Bush. Il problema è che questa “fase” non solo ha avuto inizio ben prima della vittoria di Bush nel 2001, ma non è nemmeno cessata con gli otto anni di Presidenza Obama. In qualità di egemone globale, gli Stati Uniti hanno speso gli anni ’90 e i primi anni Duemila ad impegnarsi in una lunga serie di teatri sparsi per il Mondo, sia per la difesa dei propri interessi, sia nel tentativo di ottenere un ordine mondiale stabile sotto la loro guida.

Chi conosce l’elettorato americano sa tuttavia come la politica estera sia considerata accessoria a quella interna. Considerati gli enormi costi, in termini di bilancio statale e di vite umane in teatri considerati lontani, gli americani sono sempre più insofferenti al ruolo di “garanti” della stabilità internazionale. Le (vaghe) promesse di Trump di un’America arroccata su sé stessa sono state più sufficienti a rievocare l’idea dello “splendido isolazionismo” americano dei primi anni ’20 del XX Secolo; la nota “vivacità” di Hillary Clinton in politica estera durante il suo periodo da Segretario di Stato non ha fatto altro che rafforzare le speranze di una nuova epoca immaginaria di prosperità autarchica.

di Mirko Annunziata