Come parlare di violenza con un bambino

via welshrower.com
Di Beatrice Mattioli
Le scene di violenza e disperazione a cui sono sottoposti i bambini sono oggi numericamente molto maggiori rispetto a 20 anni fa. Saper spiegare ad un bambino le quotidiane tragedie che appaiono sugli schermi della nostra esistenza è sempre più cruciale.

La guerra sembra essere un dato ineliminabile dalla vita dell’essere umano e oggi più che mai viene esaltata da immagini violente diffuse tramite serie tv, telegionali, videogiochi, film, social network. Immagini che raggiungono gli occhi di tutti, quotidianamente, anche quelli dei più piccoli (protagonisti, come gli adulti, di questo macabro fenomeno mediatico) che a causa della innocente inesperienza che caratterizza la loro età necessitano di spazi per il confronto all’interno del nucleo famigliare. L’esigenza di questo spazio è ribadita da Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese che sostiene come la figura materna, in primo luogo, abbia il compito di fare da holding, ovvero da contenitore delle angosce del bambino al fine di soddisfare i suoi bisogni emotivi.

Come fare? Innanzitutto, prestare attenzione alle tecniche di comunicazione che si ha intenzione di utilizzare. I bambini hanno bisogno di parole chiare, adeguate alla loro maturità e, soprattutto, non contradditorie. Discorsi paradossali, ovvero esplicati e poi negati, diventano impossibili da decodificare per il bambino e possono dare luogo, in seguito a ripetute manifestazioni dell’evento, a patologie comunicative. Alcune tecniche di comunicazione efficaci da utilizzare in un discorso sono rispecchiare e riaffermare. La prima consiste nel diventare una sorta di “specchio” per il bambino, permettendogli di riformulare il suo pensiero, i suoi sentimenti con domande come “a cosa hai pensato dopo aver visto quelle immagini?” “cosa ti spaventa?”. La seconda tecnica, invece, consiste nel ripetere al bambino il pensiero centrale che ha espresso così da fargli percepire l’ascolto attivo e avere la piena comprensione del suo pensiero. Allo stesso tempo, quindi, risulta necessario evitare risposte stereotipate, superficiali e generiche poiché, come tali, rischiano di minimizzare le difficoltà del bambino togliendo valore alle sue emozioni.

Appresa l’importanza del metodo comunicativo, serve diversificare l’approccio in base all’età. Dai due ai cinque anni di età il bambino non è pienamente consapevole delle scene distruttive che osserva, in quanto non è ancora in grado di differenziare gli episodi reali da quelli fantastici che vede nei cartoni animati o nei film d’azione. Tuttavia, trovandosi in una fase pienamente egocentrica, potrebbe porre domande come “vogliono ucciderci?”. Utile per la spiegazione è servirsi di mezzi a loro ben conosciuti, come le favole, dove il meccanismo tra il bene e il male è da tempo appreso. Il pianto è una reazione naturale in questi casi, ed è saggio coglierlo come un successo, non con il timore di avere stravolto la sua psiche: esso è indice di sfogo, di liberazione del peso accumulato.

Il disegno è un altro proficuo approccio, poiché il foglio bianco rappresenta lo spazio di vita del bambino, un luogo dove poter sfogare le sue fantasie, i timori, le ansie e le speranze. Nel caso in cui egli disegni scenari di guerra è possibile “ridimensionare” insieme l’ambiente rendendolo il meno intimidatorio possibile: ponendo fiori, simboli pacifici o “bloccando” con linee e barriere “difensive” le rappresentazioni di oggetti quali missili, bombe o proiettili.

Credits: Jenna Frome
Credits: Jenna Frome

Dai sei agli undici anni di età risulta inutile cercare di nascondere la guerra in quanto, in un modo o nell’altro, egli ne verrà a conoscenza. Con la discussione in classe seguita dal minuto di silenzio, con il video comparso su un social network o con le confusionarie parole di un telegiornale: talvolta è più angoscioso percepire che sapere. Evitare di affrontare insieme argomenti così delicati può, inoltre, portare il bambino a trovare in autonomia risposte alle sue paure. Le stesse potrebbero essere erronee e potrebbero spingerlo ad adottare comportamenti xenofobi o atteggiamenti regressivi come la paura del buio. In questa fase ci si può aspettare domande come “perché questa guerra?”.

Importante per un genitore, quindi, essere per primo informato su ciò che accade nel mondo, per evitare così improvvisazioni poco appropriate. Bisogna tenere a mente che le figure di riferimento per il bambino – genitori, nonni o insegnanti che siano – costituiscono un modello da imitare: l’insicurezza dell’adulto si trasferisce al bambino, così come la paura, ma anche il coraggio e l’accettazione. Il gioco in questa fascia d’età risulta tanto essenziale quanto il disegno in quella precedente. Giochi d’azione, di lotta, di guerra, non sono esclusivamente simboli di un carattere forte, energico, bensì anche un metodo tramite il quale sfogare le tensioni e apprendere attraverso la simulazione il funzionamento del mondo circostante. Una tecnica semplice ma efficace, da non negare. Un modo per rendersi protagonisti in una realtà che ci vede indifesi.