Cosa sta succedendo in Turchia

nazionalisti turchi
Manifestanti nazionalisti protestano contro l'uccisione di alcune guardie di sicurezza turche da parte del Pkk / credits: Afp
Il testo del comunicato rilasciato questa mattina dalla Commissione Affari Esteri del partito Democratico dei Popoli guidato da Selahattin Demirtaş (formazione filo-curda che ha ottenuto un inaspettato successo alle ultime elezioni, di fatto bloccando le mire presidenzialiste di Erdoğan) rivela (forse) il problema principale con cui deve fare i conti il movimento stesso. La situazione nel paese è delicata, il clima è di quelli che  preannunciano una guerra civile. I cittadini turchi di nuovo al voto il 1 novembre saranno chiamati a riflettere prima di esprimere una preferenza che in ogni caso segnerà il destino del loro paese.

“La Turchia sta scivolando nella guerra civile. (..) Solo nell’ultimo mese diverse città a maggioranza curda (Silopi, Lice, Şemdinli, Silvan, Yüksekova and Cizre) sono state teatro di violenti scontri voluti dalle forze di stato. Decine di civili, guerriglieri e membri dell’esercito sono morti. Dal 24 luglio il governo ad interim invece che colpire l’Isis – come afferma – si è concentrato sulle montagne di Qandil (una regione di confine tra Turchia, Iran, Iraq governata dai curdi), prendendo di mira i curdi, le forze politiche democratiche i civili e l’intera opposizione in Turchia.

Lo Stato turco momentaneamente guidato dal governo dell’Akp sta facendo ricorso a ogni sorta di misura coercitiva come impedire la libera circolazione dalle città curde oggetto di operazioni militari in corso; oscurare le linee di comunicazione, limitare la libertà di stampa con il chiaro obiettivo di impedire la diffusione di notizie, all’interno e all’esterno del paese, che riportino quello che sta succedendo. Da settimane vige il coprifuoco nella provincia di Cizre teatro di violenti scontri in cui 21 civili hanno perso la vita. La città di Cizre è sotto assedio da giorni e iniziano a scarseggiare beni di prima necessità per la popolazione oltre che medicine negli ospedali dove vengono ricoverate le vittime delle operazioni militari turche. (..)

In questo clima di violenza il Partito Democratico dei Popoli è oggetto di attacchi quotidiani da parte di membri dell’AKP e mass media compiacenti. (..) Come risultato di questa propaganda numerosi uffici dell’Hdp in diverse città del paese, sono stati presi di mira e distrutti da gruppi organizzati di razzisti e fascisti. Il giorno 8 settembre il quartier generale dell’HDP ad Ankara è stato dato alle fiamme con un azione mirata. Non si è registrata nessuna vittima, ma sino ad ora sono 128 le sedi di partito attaccate. (la maggior parte delle quali distrutte). 

Ci teniamo a sottolineare che l’HDP non è un partito violento o orientato alla lotta politica, noi non abbiamo preso parte al processo decisionale della guerra. Anzi cerchiamo di spingere sia il PKK che lo Stato turco a mettere fine al conflitto armato. 

Alla luce di questi eventi invitiamo la comunità internazionale a supportare un immediato cessate il fuoco. (..) Vanno intraprese azioni urgenti contro l’aumento della violenza di stato, della violazione dei diritti umani e delle pratiche anti-democratiche a cui sono soggette le città curde, ma anche quelle nell’ovest del paese. (..) Il nostro appello è rivolto a tutte le istituzioni e le forze democratiche affinchè prendano una posizione decisa contro  contro la violenza dello Stato turco e le sue azioni antidemocratiche rivolte ai suoi stessi cittadini. La commissione affari esteri del Partito democratico dei popoli, 10/9/2015

Nelle relazioni umane è difficile pretendere dall’Altro che smetta di fare una cosa a cui per primi non possiamo rinunciare. Supponendo che il comportamento imitativo sia parte integrante dell’agire antropico se ne deduce che l’esempio sia sempre preferibile al precetto.

L’escalation di terrore in Turchia può risultare più comprensibile se inserita all’interno di uno scenario di questo tipo dove le due figure politiche decisive per tentare di ristabilire l’ordine nel paese – Recep Tayyip Erdoğan e Selahattin Demirtaş – difettano entrambe di coerenza nel passaggio tra ideali propagandati e azioni concrete da essi ispirate.

A seguito dell’attentato del 20 Luglio nella cittadina turca di Suruc dove per mano del Daesh hanno perso la vita una trentina di giovani attivisti riunitisi per manifestare solidarietà alla popolazione curda di Kobane, la Turchia è entrata a far parte della coalizione internazionale anti – Isis per bombardare (nell’incredulità dei suoi alleati Nato) anche e soprattutto i terroristi del Pkk – il Partito dei lavoratori curdo (un’organizzazione rivoluzionaria riconosciuta come eversiva da Turchia, Stati Uniti e Unione Europea) – partito percepito come principale minaccia per il paese dal Presidente della Repubblica Erdoğan e dal suo entourage. Peccato che a riaccendere la miccia dell’irridentismo curdo sembrerebbe essere stata proprio questa decisione, dato che sino a quel momento i curdi che tra Iraq, Turchia e Siria avevano abbracciato le armi lo avevano fatto pressochè esclusivamente per fronteggiare l’avanzata dell’Isis.

Parrebbe proprio una vendetta (un rimedio che non rinuncia alla violenza) quella che guida l’azione del Pkk in questi giorni di terrore dove le vittime innocenti invece che essere civili curdi morti sotto i raid del governo sono poliziotti e militari dell’esercito turco.

I diversi attentati, oltre a suscitare lo sdegno della società turca (già polarizzata lungo il clevage storico che la vede separata dai curdi) e a incrementare le azioni militari dell’esercito ai danni dei terroristi del Pkk, hanno scatenato un biasimo collettivo già sfociato in violenza contro il Partito Democratico dei Popoli guidato da Selahattin Demirtaş che si appella alla pace dimenticandosi di condannare con fermezza gli atti di guerra compiuti dal Pkk.

Un’omissione del genere – proprio da parte di Demirtaş che avrebbe la doppia opportunità storica sia di guidare la galassia del movimento curdo sul terreno della politica allontanandolo definitivamente dalla lotta armata sia di intralciare per la seconda volta i piani di Erdogan – appare agli occhi dei turchi – che pure si oppongono all’agenda politica del “Sultano” – come ingiustificabile. Il fatto che tutto questo terrore arrivi in un momento quantomeno favorevole per Erdogan e l’Akp sembrerebbe confermare il timore espresso dagli analisti che intravedevano nei bombardamenti ai danni del Pkk e dei curdi la volontà del Presidente di trovare un casus belli per isolare la forza dell’Hdp il partito filo-curdo che con tutta probabilità (se la situazione non dovesse stabilizzarsi) nelle prossime elezioni potrebbe non superare la soglia di sbarramento posta al 10% prevista dal sistema elettorale turco.

E cosa accadrebbe se i curdi di Turchia si ritrovassero senza rappresentanza per un’intera legislatura? La costituzione di un parlamento autonomo nell’est trascinerebbe sì il paese della mezzaluna in una guerra civile, dato che questo scenario non è sicuramente contemplato da nessun Sovrano che sia a capo di uno Stato nazionale (senza dimenticare che nel caso specifico, nell’est della Turchia vi sono le sorgenti dei fiumi Tigri e Eufrate, risorse della potenza in senso stretto).

L’ambiguità (a tratti comprensibile) manifestata da Selahattin Demirtaş nel condannare le azioni del Pkk trascura di considerare che il sistema parlamentare non premia la violenza semplicemente perchè non la contempla. Quello che il Guardian all’indomani delle elezioni generali di giugno definiva l’Obama turco, si è posto sin dall’inizio a capo di una forza politica di opposizione dichiaratamente ostile a Erdogan (allontanadosi dalle posizioni di Ocalan che ultimamente sembrava aver compreso che un qualche risultato politico si può ottenere solo scendendo a compromessi) e questo paradossalmente lo ha esposto all’inesorabile legge dell’eterogenesi dei fini.

Selahattin Demirtaş è chiamato in virtù del suo ruolo istituzionale e del mandato accordatogli dalla maggioranza dei suoi elettori, ad assumere una posizione più decisa nei confronti di chi propende per la lotta armata e di conseguenza né per il dialogo, né la pace. Diversamente, il carissimo prezzo della sua reticenza sarà quello di spianare la strada a un’eventuale maggioranza monocolore ottenuta nuovamente dal partito del suo nemico giurato; nemico che non vede l’ora di accentrare tutto il potere nelle sue mani.

Eliza Ungaro