Ora sono dazi amari

Nel tempo il libero commercio ha “sconfitto” i dazi dimostrandosi in grado di creare complessivamente un maggior beneficio per tutti. Restano tuttavia importanti e di enorme rilevanza tutte le problematiche intrinseche della globalizzazione: dalle dinamiche concorrenziali internazionali considerabili scorrette, alla crescita di un benessere non realmente inclusivo e condiviso.

Qualche cenno storico

Nel 1947 nasceva il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), un accordo internazionale mirato a favorire la liberalizzazione del commercio mondiale e ad abolire le barriere tra Paesi (limitando ad esempio le politiche dei dazi). Nel 1995 il GATT veniva sostituito dalla World Trade Organization (WTO), un’organizzazione tuttora esistente e riconosciuta sostanzialmente da 186 Paesi (che rappresentano circa il 95% del commercio globale) che ha come obiettivo principale proprio quello di limitare i dazi a livello globale e di gestire le controversie internazionali riguardanti le politiche commerciali.

Nel corso del tempo si sono affiancati al WTO moltissimi altri accordi commerciali bilaterali o tra gruppi più ristretti di Paesi, sempre per favorire e facilitare il commercio internazionale. Alcuni esempi sono il CETA, il TTP (dal quale gli Stati Uniti hanno firmato il ritiro nel gennaio 2017), o il Mercosur.

Caso particolare e sostanzialmente unico al mondo è poi quello dell’Unione Europea: una grande unione doganale tra diversi Paesi che aboliscono i dazi al loro interno ma che mantengono dazi uguali verso determinati prodotti provenienti dall’estero (rispettando comunque le regole e  gli accordi globali come il WTO).

Logo WTO

Gli Stati Uniti e le vicende odierne

È sostanzialmente a causa degli Stati Uniti che i dazi sono prepotentemente rientrati nel dibattito politico-economico globale, con l’amministrazione Trump che ha più volte annunciato – ed ora sembra sul punto di varare – alcuni dazi per “proteggere i lavoratori e le aziende statunitensi dalla concorrenza estera”.


La data per l’entrata in vigore di queste misure sembra essere il 23 marzo, ed i dazi colpiranno l’acciaio con un’imposta del 25% e l’alluminio con una del 10%; saranno applicati verso tutti i Paesi del mondo esclusi Canada, Messico e, forse, Australia. Per un importatore americano, acquistare acciaio da Europa o Cina costerà quindi sostanzialmente il 25% in più (più avanti analizzeremo meglio gli effetti economici di un dazio), e l’obiettivo che sembra avere Trump è duplice: da un lato, cercare in una qualche maniera di ri-equilibrare parte della bilancia commerciale con la Cina, dall’altro fare pressioni sull’Unione Europea perché faccia più concessioni commerciali agli Stati Uniti e perché contribuisca di più al bilancio NATO.

In caso la manovra statunitense non raggiungesse tali risultati, sembrerebbero essere già pronti ulteriori dazi sulle automobili europee come Mercedes e BMW, mentre da parte sua l’Unione Europea sta aspettando il 23 marzo per vedere cosa realmente accadrà, preparandosi a rispondere a sua volta con altre contromisure commerciali. Il rischio è quello di una escalation con conseguente sviluppo di una vera e propria guerra commerciale tra Stati Uniti e resto del mondo che difficilmente avrebbe dei reali vincitori e che potrebbe potenzialmente peggiorare la ripresa economica globale e le relazioni internazionali.

La situazione con la Cina resta inoltre ancora più tesa: Pechino ha una enorme quota del debito pubblico statunitense (1.600 miliardi di dollari nel 2017) ma nei confronti del gigante asiatico l’amministrazione statunitense ha previsto restrizioni ancora più severe. La possibilità che scoppi una feroce guerra commerciale tra Pechino e Washington dovrebbe preoccupare tutti perché potrebbe, tra le altre cose, influenzare molte dinamiche globali e geopolitiche odierne: dalle isole Spratly, alla situazione in Corea del Nord.

Storicamente non è la prima volta che gli Stati Uniti agiscono adottando dei dazi criticabili: nel 1930 scoppiò la più celebre guerra commerciale che si ricordi con lo Smoot-Hawley Tariff Act, un sistema di dazi varato dagli Stati Uniti che fece salire i prezzi dei prodotti americani di oltre il 40% e che esacerbò enormemente gli effetti della Grande Depressione del 1929; mentre nel 2002 George W. Bush varò dei dazi in difesa dell’acciaio americano ma la reazione europea e quella dello stesso WTO costrinsero l’amministrazione americana dell’epoca ad annullare tali misure poco tempo dopo.

In linea teorica, quindi, gli stati non sono completamente ed assolutamente liberi di varare dei dazi a loro piacimento, in parte perché devono sottostare alle regole internazionali da loro stessi firmate (WTO o regolamenti bilaterali ad esempio) ed in parte perché, tendenzialmente, l’approvazione di un dazio con pretesti protezionistici è generalmente considerata un’azione economica ostile.

Il rischio è l’innescarsi di una guerra commerciale potenzialmente disastrosa per tutte le parti coinvolte: nessuno vince una guerra commerciale, perdono tutti, soprattutto i consumatori. Ampliando ulteriormente il punto di osservazione si può anche tirare in ballo il concetto generalista, ma tutto sommato fondato, del “dove non passano le merci, passano spesso gli eserciti” evocando il rischio che delle guerre commerciali degenerino in guerre vere e proprie, evenienza realizzatasi specialmente in tempi meno recenti.

Dazi e teoria economica internazionale: gli Usa sono un “paese grande”

Ora la parte noiosa, se non vi interessano gli effetti teorici dei dazi skippate pure all’ultimo paragrafo.

Secondo le teorie dell’economia internazionale un dazio può essere vantaggioso in termini di benessere per un “paese grande”. Gli Stati Uniti possono essere considerati un paese grande, cioè con un grande mercato interno ed in grado di influenzare le dinamiche commerciali globali.

Un “paese grande” come gli Stati Uniti, applicando un dazio, finisce per influenzare la domanda globale di quel bene (ipotizziamo l’acciaio): con un dazio sull’acciaio estero, la domanda interna di acciaio da parte dei consumatori statunitensi (le imprese che lo utilizzano) tende a diminuire perché costa di più acquistarlo.

Nei limiti del possibile quindi, gli utilizzatori di acciaio negli Stati Uniti diminuiranno la quantità di acciaio utilizzata per le loro produzioni e cercheranno di comprare quello Made in USA non gravato dal dazio e quindi più economico. Tale diminuzione nella richiesta di “acciaio dal resto del mondo” da parte del grande mercato americano, farà diminuire di una certa misura il prezzo globale del bene (legge della Domanda e dell’Offerta: c’è meno richiesta di acciaio rispetto all’offerta e quindi il prezzo del bene diminuisce).

Il “paese grande” dovrà con ogni probabilità comunque ancora comprare dell’acciaio estero per sopperire alle proprie necessità ma il prezzo di tale acciaio sarà però diverso: sarà pari al nuovo prezzo internazionale (più basso a causa della minor domanda USA) più l’importo del dazio. Si possono verificare sostanzialmente due scenari a questo punto:

Il CASO A è il più frequente: la componente positiva (il minor prezzo di acquisto estero) resta minore della componente negativa (il dazio) e quindi il benessere della società statunitense viene influenzato negativamente perché comprare acciaio estero costa complessivamente di più (105$ anziché 100$).

Nel CASO B, invece, l’esito dell’applicazione di un dazio è già di per sé foriera di un maggior ed evidente benessere per il Paese che lo impone (99$ anziché 100$). Tuttavia in entrambe le situazioni, soprattutto nel più comune CASO A, vanno considerate anche le entrate doganali derivanti dal dazio che possono compensare la perdita di benessere accennata in precedenza nel CASO A (il costo dell’acciaio estero è si di 105$, quindi più elevato di quello di partenza senza dazio, ma in questi 105$ si devono considerare anche i 10$ derivanti dal dazio che vengono “guadagnati” dal Paese importatore e che vanno conteggiati nel suo “benessere” complessivo).

Quindi, in tali scenari, è possibile che un Paese grande come gli Stati Uniti, a seguito dell’introduzione di un dazio, ottenga un aumento del proprio benessere totale derivante dal minor prezzo internazionale dell’acciaio e dal guadagno dell’importo del dazio stesso.

Tale maggior benessere sarebbe ottenuto a danno di tutti gli altri Paesi che esportano la merce colpita e che vedrebbero il loro benessere economico-sociale ridursi in maniera secca di una certa misura: venderanno infatti l’acciaio ad un prezzo minore ed in minor quantità. Tendenzialmente, il maggior benessere ottenuto dal Paese grande non copre il minor benessere degli altri Paesi, determinando così una perdita di benessere a livello globale. In linea teorica un dazio di una certa misura può quindi essere economicamente conveniente per un Paese grande, anche se eticamente discutibile.


Tuttavia è adesso che va inserito quell’elemento di dinamicità che nessun modello teorico può prevedere e valutare anticipatamente in maniera realistica: la reazione degli altri Paesi.

Gli Stati Uniti hanno sì annunciato che vareranno dei dazi che potrebbero risultare convenienti per la loro economia, ma la loro economia è, e resterà, comunque interdipendente con quella del resto del mondo. Ed il resto del mondo, dalla Cina all’Unione Europea, ha annunciato fin da ora delle “rappresaglie commerciali” e delle contromisure (verosimilmente degli altri dazi) verso gli Stati Uniti.

In uno scenario del genere l’escalation sembra inevitabile e la guerra commerciale anche. È Il precedente storico dello Smoot-Hawley Tariffs Act che ci dice in parte come probabilmente andrebbe a finire l’applicazione reciproca di dazi e di altre contromisure commerciali: senza nessun vincitore e con tanti perdenti: dai consumatori alle imprese, dall’economia globale a quelle nazionali, correndo inoltre il rischio di innescare nuove crisi economiche planetarie.

di Enrico Giunta - InformaXcambiare