Diplomazia della violenza

Clouds of heavy smoke billowing into the air following an Israeli military strike in Gaza City on July 29, 2014. ASHRAF AMRA/AFP

Il conflitto che perdura tra israeliani e palestinesi è dominato dal terrore, che assicura per le future generazioni il protrarsi della violenza. Il terrore come metodo è impiegato sia da Israele, attore statuale legittimato a difendere la sua sicurezza, sia da Hamas, attore semi-irregolare, con ambizioni statuali ma fondamenti terroristici.

La pratica del roof-knocking, adottata dall’aviazione israeliana durante l’escalation dell’estate del 2014 a Gaza, è un esempio di diplomazia della violenza proprio in ragione degli avvertimenti, rivolti alla popolazione civile palestinese, che in taluni casi hanno accompagnano questa controversa strategia.


La guerra di Gaza (estate 2014)

Il 7 Luglio 2014 inizia l’operazione Protective Edge condotta dall’esercito israeliano contro Hamas e altre sigle terroristiche (stimate attorno alla decina) presenti nella striscia di Gaza quell’estate, colpevoli di aver intensificato le ostilità e, nello specifico, il lancio di missili in territorio israeliano.

Tra gli obiettivi dichiarati della campagna militare voluta dal governo di Netanyahu e condotta inizialmente dall’aviazione e poi da contingenti di terra, figuravano sia l’eliminazione degli arsenali di Hamas che la distruzione dei tunnel sotterranei (32 secondo il Ministero della difesa, 14 dei quali raggiungevano lo stato d’Israele).

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Protection Edge via Debka

In 50 giorni di combattimenti dal 7 luglio al 26 agosto 2014 morirono 2.251 palestinesi di cui 1.462 civili; i feriti furono 11,231; le vittime israeliane furono 73, di cui 67 soldati e 6 civili; 1600 i feriti.

Si registrarono oltre 6mila bombardamenti condotti dall’aviazione israeliana, la maggior parte dei quali su aree residenziali che l’esercito fu costretto a colpire poiché, secondo l’intelligence, era lì dove abitavano i civili che Hamas nascondeva gli arsenali. Le case andate distrutte furono circa 18mila, così come distrutte risultarono la maggior parte delle infrastrutture della Striscia.

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Ragazzini palestinesi siedono su quello che resta delle loro case a Beit Hanoun, Gaza, 5 agosto 2014. Credit to: Finbarr O’Reilly, Reuters

Le ostilità occorse nell’estate del 2014 a Gaza vanno inquadrate nell’ottica di una perdurante occupazione dei territori palestinesi soggetti dal 2007 a embargo, e di un intensificarsi delle ostilità e delle conseguenti minacce alla sicurezza dello stato d’Israele, costituite dal lancio di missili oltre confine oltre che dalla presenza di tunnel sotterranei utilizzati per infiltrarsi all’interno del territorio israeliano.

L’escalation estiva venne preceduta da alcuni eventi rilevanti. Il 23 aprile 2014 fu raggiunto un accordo di riconciliazione tra l’Organizzazione per la Palestina Libera dominata allora dalla fazione di Fatah del Presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas e il gruppo terroristico (con sede a Gaza) Hamas, intenzionate a porre fine a sette anni di divisioni interne. Un annuncio accolto da Netanyahu con queste parole: Abbas ha preferito Hamas alla pace.

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Da sinistra a destra il palestinese capo delegazione per Fatah Azzam al-Ahmad, il primo ministro di Hamas nella striscia di Gaza Ismail Haniyeh e il deputato di Hamas Moussa Abu Marzouk in posadi fronte agli obiettivi dei fotografi il 23 Aprile 2014 a Gaza dopo che i leader della West Bank e della striscia hanno acconsentito a formare un governo di unità nazionale entro 5 settimane. Credits to: AFP/Said Khatib

Il 2 giugno Abbas annunciò la formazione di un governo di unità nazionale.

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Il Primo Ministro Rami Hamdallah, a destra con il Presidente Mahmoud Abbas alla cerimonia d’insediamento tenutasi a Ramallah il 2 giugno 2014. Credit to: Majdi Mohammed/Associated Press

Il 12 giugno 2014 tre giovani israeliani furono rapiti e uccisi nella West Bank. Le autorità di Tel Aviv iniziarono quindi le operazioni di ricerca che portarono al ritrovamento dei corpi dei ragazzi il 30 giugno. Il 2 luglio venne ucciso un sedicenne palestinese, in quello che sembrò un gesto di vendetta.

La situazione degenerò velocemente. Il 18 luglio l’Egitto per conto degli stati arabi, la Repubblica islamica dell’Iran per conto dei paesi non allineati, il Niger in rappresentanza dei paesi africani, il Pakistan in rappresentanza dell’Organizzazione per la cooperazione islamica e l’osservatore permanente per la Palestina, richiesero con l’appoggio di altri 17 stati membri una seduta speciale del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a seguito delle violenze divampate nei territori occupati.

La stessa si tenne a Ginevra il 23 luglio 2014 e portò all’adozione di una risoluzione S-21/1 (scaricabile qui) che autorizzò un’inchiesta sulle violazioni alla legislazione umanitaria occorse durante il conflitto nei territori palestinesi occupati inclusa Gerusalemme est e la Striscia di Gaza.

L’indagine si concluse con la pubblicazione di un rapporto il 23 giugno 2015 che attesta come entrambe le parti belligeranti abbiano commesso crimini di guerra e come l’utilizzo della forza da parte dell’esercito israeliano sia stato sproporzionato rispetto alla minaccia. Il documento (scaricabile qui) sottolinea l’impatto che il conflitto ha avuto sui civili palestinesi e israeliani; critica Israele per non aver ridotto i bombardamenti aerei man mano che le vittime aumentavano, per il tipo di armi impiegate e per la dubbia efficacia delle comunicazioni intrattenute tra l’esercito e quei palestinesi che furono avvisati (dell’arrivo di una bomba) e costretti a evacuare immediatamente l’area. Lo stesso documento critica la resistenza palestinese per aver alimentato un clima di terrore nella popolazione israeliana con il lancio di oltre 6.600 tra missili e colpi di mortaio.

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L’interno di un’abitazione israeliana colpita da un missile palestinese durante. credit to: getty Images

I dati riportati sino ad ora provengono da questo rapporto, che in 183 pagine sottolinea tra l’altro come l’esercito israeliano sia responsabile di non aver fatto tutto il necessario per prevenire o quantomeno limitare le vittime civili durante le operazioni militari così come i combattenti palestinesi siano responsabili oltre che dell’uccisione di sospetti collaborazionisti, del lancio di oltre 6.600 tra missili e colpi di mortaio e di esplicite esortazioni alla violenza contro obiettivi civili israeliani. Le autorità palestinesi fallirono nell’assicurare alla giustizia coloro che (dalla loro parte) si macchiarono di crimini di guerra.

Israele si rifiutò di collaborare sin da subito alle indagini, arrivando a vietare l’ingresso degli ispettori delle Nazioni Unite nei territori occupati. Secondo Netanyahu l’intera inchiesta era pregiudizievole come dimostrato dal conflitto d’interessi a carico di William Schabas (a capo delle indagini della Commissione), che lavorò in precedenza per l’organizzazione per la Palestina Libera.

Venne redatto per conto del governo israeliano un secondo rapporto divulgato il 14 giugno 2015 (pochi giorni prima che venisse pubblicato quello della commissione Onu) che attesta come le azioni dell’esercito durante la guerra di Gaza furono legittime e condotte entro i limiti della legge. Il documento rivede al ribasso i numeri delle vittime palestinesi, 2.125 ne identifica 936 come terroristi 761 come civili e il resto come ignoti.

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credit to: Menahem Kahana/AFP]

Dall’analisi dei dati forniti dalle associazioni presenti sulla striscia e raccolti dal New York Times, nel periodo che intercorre tra il 6 e il 31 luglio 2014, tra i 1.431 nomi presi in esame, c’è una prevalenza di vittime tra i maschi dai 20 ai 29 anni, (teoricamente in età da combattimento), che rappresentano il 34% dei morti, ma soltanto il 7% della popolazione della Striscia.

Il problema è sempre quello, come identificare i combattenti? Tra le file di Hamas ci sono certamente uomini armati e in divisa, ma anche politici, rappresentanti dell’ordine, impiegati, e chiunque sia in qualche modo affiliato all’organizzazione, poiché mosso dal desiderio di distruggere Israele, può essere considerato un combattente.

Mentre il Ministero della salute palestinese non categorizza le vittime tra combattenti e civili, e parla (nello stesso periodo) di 1.865 “martiri” di cui 34% tra anziani, donne e bambini (429 sotto i diciotto anni, 79 sopra i sessanta e 243 donne), le Nazioni Unite riferiscono un 72% di vittime civili tra le 1.814 registrate, mentre due organizzazioni con sede a Gaza, Al Mezan Center for Human Rights e Palestinian Center for Human Rights, correggono al rialzo le stime portando la percentuale delle vittime civili sopra l’80%.

Il conteggio delle vittime prima dello scoppio dell’operazione militare israeliana – via cintayati.wordpress.com

Nel gennaio del 2014 l’Autorità Palestinese interpellò la Corte Penale Internazionale dell’Aia invitandola ad aprire un’indagine circa la condotta d’Israele in merito ai crimini di guerra legati agli insediamenti illegali, e ai fatti occorsi a Gaza nell’estate del 2014. La situazione nei territori palestinesi occupati è da allora oggetto di esame preliminare del tribunale, come ricordato anche nell’ottobre 2018 dal procuratore della Corte Fatou Bensousa allarmato sia per le violenze perpetrate da entrambe le parti che per l’evacuazione forzata della comunità beduina di Khan al-Ahmar dalla West Bank: “It bears recalling, as a general matter, that extensive destruction of property without military necessity and population transfers in an occupied territory constitute war crimes under the Rome Statute.”

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Un ulteriore rapporto sulla Guerra di Gaza venne pubblicato il 28 febbraio del 2017 a seguito di un’inchiesta durata due anni e guidata da Joseph Shapira eletto alla Knesset nel 2012 come garante dello stato israeliano, ruolo poi rinnovato per sette mandati. Si legge nello stesso, come il governo (israeliano) abbia ignorato soluzioni diplomatiche alternative all’uso della forza, oltre a accorati allarmi riguardanti l’emergenza umanitaria che interessava la Striscia nei mesi precedenti al conflitto. Il gabinetto israeliano avrebbe peraltro evitato di informare in tempo utile il Consiglio di sicurezza della minaccia strategica costituita dai tunnel sotterranei scavati da Hamas.

La pratica del roof- knoking, una ipotesi.

Nel corso di questa sanguinosa escalation tra Israele e Hamas (&Co.) combattutasi nella striscia di Gaza, si è sentito parlare di “roof-knocking” letteralmente “bussare sul tetto”; ovvero colpire con un missile depotenziato il tetto di un edificio prima del bombardamento vero e proprio, con l’obiettivo di avvertire gli inquilini (operazione che, in alcuni casi, è preceduta da una telefonata).

Questa pratica, tra le più controverse adottate durante l’offensiva, è stata definita dall’esercito israeliano, ma anche da giornalisti e prosumers di tutto il mondo come umanitaria, in ragione del fatto che consentirebbe ai civili di abbandonare l’abitazione prima che la stessa, venga abbattuta. Secondo fonti ufficiali, l’esercito israeliano è bendisposto nei confronti di questo metodo di avvertimento, che è stato efficace nel prevenire incidenti mortali durante le operazioni militari condotte nell’estate del 2014.

Ma è proprio in merito all'(in)efficacia del roof-knocking che la Commissione Onu si è espressa. Nel sopracitato rapporto vengono riportati casi di persone che non capirono quello che stava succedendo, che rimasero colpite a morte mentre uscivano dall’edificio o una volta già in strada. Le ONG presenti sul territorio raccolsero le testimonianze di chi, sopravvissuto, ammetteva di non essere stato in grado di riconoscere l’avvertimento, dato che l’intero quartiere era soggetto a bombardamenti e risultava difficile distinguere i boati.

Le conclusioni del rapporto affermano che è impossibile per la Commissione verificare se la pratica del roof-knocking sia stata adottata assieme ad altre misure preventive, come le telefonate, ed ha avvertito che laddove il roof-knocking non sia stato accompagnato da altre forme di avvertimento, questo non sia risultato efficace.

Seri dubbi vengono espressi in merito al tempo trascorso tra il bombardamento d’avvertimento e quello vero e proprio, in diversi casi documentati dai tre ai cinque minuti, insufficienti per evacuare edifici in aree densamente popolate. Stando al numero delle vittime palestinesi, l’esercito israeliano non avrebbe fatto abbastanza (potencial failure) per assicurare i civili dalle operazioni militari, specialmente durante i primi giorni del conflitto quando i limiti della pratica del roof-knocking si resero evidenti poiché numerosi edifici vennero distrutti con dentro i loro abitanti.

L’ipotesi qui presentata è che la pratica del roof-knocking sia una forma di diplomazia della violenza e che gli scrupoli di Israele, per intendersi gli avvertimenti rivolti alla popolazione civile palestinese, rischino di diventare un’arma per la guerra asimmetrica consegnata nelle mani di Hamas, a causa di un paradosso strategico che prende il nome di madman theory.

Il mancato riconoscimento dell’adozione di una logica terroristica nelle azioni intraprese dallo Stato israeliano può essere ricondotto al fatto che nell’immaginario collettivo il terrorismo è associato ai gruppi irregolari, ovvero a quella pletora di soggetti non statuali che ricorrono alla minaccia e all’uso del terrore contro gli inermi; una descrizione che calza a pennello ad Hamas. Sennonché, prima di essere riscoperto dai movimenti rivoluzionari, dai gruppi organizzati e dai singoli individui, l’uso del terrore è stato teorizzato proprio dagli Stati, che nel corso del secondo conflitto mondiale lo impiegarono in tutti i principali teatri di guerra contro i non combattenti.

La matrice teorica del roof-knocking

La riflessione strategica degli anni Venti, fu caratterizzata dall’idea che il principale obiettivo della guerra fosse il morale della popolazione civile nemica. Questo perché con l’arrivo dell’aviazione si poteva sperimentare un tipo di belligeranza differente, indipendente dagli spazi, dai tempi e dai modi di conduzione della guerra precedenti.

Piuttosto che impiegare l’aviazione a supporto dell’esercito in terra e della marina in mare, tutti i principali teorici del potere aereo affermarono l’opportunità di colpire al di fuori del campo di battaglia, seppur con differenze significative tra quanti posero l’accento sul bombardamento contro i civili e quanti su quello rivolto ai “colli di bottiglia” dell’economia dell’avversario. La popolazione nemica non veniva colpita perché responsabile di qualcosa, ma perché causare sofferenze poteva minare in maniera irreversibile il sostegno alla volontà del governo, di seguitare con la guerra. I civili divennero uno strumento a disposizione dell’attaccante, il cui obiettivo era trasformare il conflitto in una catastrofe che spingesse le vittime a cercare salvezza nella pace.

Il terrorismo si rivela quindi, una forma caratteristica della guerra, che si serve di una violenza intesa a costringere il nemico piuttosto che indebolirlo militarmente, in una sorta di diplomazia della violenza che Thomas Schelling (uno dei massimi studiosi di strategia all’epoca della guerra fredda), definisce ben appunto terrorismo.

A differenza della violenza bruta – la cui efficacia si misura dalla capacità di sovrastare direttamente la volontà del nemico sino al suo annientamento – questa forma di costrizione, basa il suo successo sulla capacità di modificare gli interessi dell’avversario e con essi il suo comportamento: «Il potere di ferire è un potere negoziale. Sfruttarlo è diplomazia – diplomazia degradata – ma diplomazia».

Nella logica terroristica, non conta tanto la sofferenza inflitta, ma piuttosto quella latente e i bombardamenti a tappeto contro le città furono concepiti e praticati proprio come mezzo per indebolire o modificare la volontà dell’avversario. Ed è da questa idea che la Royal Air Force ricavò la dottrina del “moral bombing”, il bombardamento del morale.

Per il Leviatano il terrore è un metodo che mira a indebolire il nemico colpendo gli inermi ovvero i meno risoluti a continuare la guerra. Non a caso Hobbes descriveva il terrore quale mezzo a disposizione del potere coercitivo per assicurarsi l’obbedienza dei sudditi.

Per approfondire
A. Colombo, La guerra ineguale, pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Il Mulino, 2006, Bologna.

La pratica del roof-knocking come esempio di diplomazia della violenza

Nella pratica del roof-knocking è la telefonata a essere emblematica: “Ciao parli ebraico? Come va? Tutto bene? Le forze di sicurezza israeliane devono bombardare un edificio che si trova nella zona e stiamo prendendo le misure necessarie per evitare che ci siano civili nelle vicinanze, dato che in 5 minuti colpiremo l’obiettivo, avvisa tutti.”

Chi riceve questa telefonata deve prima di tutto capire la lingua dell’interlocutore, poi accettare il fatto che lo stesso, dopo essersi interessato sommariamente, comunichi con tutta calma, che l’edificio deve essere immediatamente evacuato perché entro 5 minuti l’aviazione israeliana lo bombarderà.

È opinione di chi scrive che debba essere definita diplomazia della violenza la scelta di costringere un attore che per definizione è passivo (civile) a recitare una parte in una rappresentazione, dove la disparità di risorse a disposizione del più forte è come di consueto nelle guerre asimmetriche, proporzionale alla capacità di resistere del più debole.

Si riporta di casi in cui le vittime dei bombardamenti, dopo aver ricevuto la telefonata, si andassero ad appostare sui tetti, sperando che l’aviazione, vedendo dei civili inermi, rimandasse o annullasse l’attacco. A volte ha funzionato, altre volte no.

Dal punto di vista dei palestinesi mettere il proprio corpo e la propria vita a scudo di tutto ciò che si possiede (la casa) è l’unica forma di deterrenza possibile quando il rapporto di forza è così abnorme. Una deterrenza estrema peraltro sfruttata barbaramente da Hamas, che spesso vieta ai civili di abbandonare le proprie case.

La pratica di trasformare, attraverso una telefonata, una vittima passiva in un attore attivo, che prima di morire è chiamato ad accettare la supremazia dell’avversario lungi dall’essere umanitaria è violenta. Viene spontaneo chiedersi se non sia sufficiente bombardare e basta (visto che l’ipotesi di evitare la violenza non è contemplata).

Se l’obiettivo è quello di indebolire il “governo” o meglio la tirannia di Hamas compromettendo il sostegno popolare allo stesso, l’eliminazione sistematica di palestinesi dovrebbe bastare, dato che se la gente continua a morire chi appoggerà Hamas? La questione qui non è prendere le parti di qualcuno, ma stabilire quale dei due attori coinvolti nel conflitto vada incontro alle conseguenze più estreme. E non è un segreto che i palestinesi siano le vittime più numerose della guerra.

I dati riportati dal grafico sono stati raccolti dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem che fornisce statistiche sulle vittime del conflitto a partire dal settembre del 2000 (Seconda Intifada). Il gruppo ha contato sino al 2014 8.166 decessi relativi alle ostilità di cui 7.065 palestinesi e 1.101 israeliani.

Una delle ragioni che può aiutare a spiegare questa sproporzione, che con il passare degli anni non si è ridotta, è che il tipo di guerra che nella storia ha visto il ricorso sistematico alla minaccia e all’utilizzo del terrore è stata proprio quella condotta contro le popolazioni senza Stato, nell’ambito delle conquiste coloniali. Spedizioni punitive più che scontri militari veri e propri, dato che quello che si cerca di conquistare è uno spazio vuoto dal punto di vista istituzionale. E lembi di terra assediati, governati spesso da fanatici e abitati da persone disperate non fanno uno Stato, a dispetto del lodevole tentativo delle Nazioni Unite di riconoscere la Palestina come tale.

Viene naturale domandarsi a questo punto quanti sforzi faccia effettivamente Israele nel prevenire l’uccisione di civili tenendo conto che nel farlo potrebbe pregiudicare l’efficacia delle sue azioni militari. Se Israele si preoccupasse di convincere l’opinione pubblica mondiale della sua “bontà” rinunciando a ogni attacco dove vi sia la certezza di vittime civili, darebbe un vantaggio strategico decisivo ad Hamas poiché non sarebbe più in grado di raggiungere i propri obiettivi militari, nel caso della guerra di Gaza la distruzione degli arsenali e dei tunnel sotterranei.

Questo paradosso strategico prende il nome di madman theory e viene utilizzato per convincere i palestinesi che Israele è disposta a tutto per vincere – anche uccidere civili – e allo stesso tempo persuadere l’opinione pubblica israeliana che le operazioni militari hanno riguardo per gli inermi; i volantini, le telefonate, le bombe d’avvertimento tutti metodi d’avvertimento molto pubblicizzati durante l’escalation del 2014.

di Eliza Ungaro