Due cacciatorpediniere della U.S Navy solcano lo stretto di Taiwan

U.S. Navy/MC3 Nathan Burke

A comunicarlo alla Reuters è il Capitano Charlie Brown, portavoce della Flotta Pacifica americana, che sottolinea come “il transito di navi tra il Mar Cinese Meridionale e il Mar Cinese Orientale attraverso lo Stretto di Taiwan non sia una novità per la marina, che ha condotto simili operazioni molte volte in passato”.

Ad essere impegnate nell’operazione due cacciatorpediniere classe Arleigh Burke, la Mustin e la Benfold, a cui viene affidato il compito di affermare la presenza americana nell’area in un momento in cui lo scontro commerciale con la Cina si fa sempre più duro. È trascorso più o meno un anno da quando la U.S Navy ha solcato le acque dello stretto l’ultima volta.

Questa nuova operazione di libera navigazione fa seguito ad una serie di esercitazioni militari condotte dall’aviazione e dalla marina cinese nei dintorni dell’isola, che hanno visto l’impiego di bombardieri e altri aerei (oltre che il supporto della portaerei cinese fatta operare direttamente dallo stretto di Taiwan) e sono state giudicate dal governo di Taipei come provocatorie. Il passaggio occorso nella giornata di sabato era stata annunciato anche dal Ministero della difesa di Taiwan in un comunicato “i militari stanno monitorando la situazione nella zona, e confidano nelle proprie capacità di mantenimento della stabilità regionale e di difesa degli interessi nazionali”.

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“Ci opponiamo con forza ad ogni azione che possa ledere l’interesse nazionale cinese. Noi non lo accetteremo”: così Liu Jievi, ex ambasciatore cinese alle Nazioni Unite commenta l’operazione navale, mentre secondo il Global Times, giornale legato all’establishment di Pechino, questo passaggio rappresenta una tattica psicologica adottata dagli Stati Uniti e tesa a innervosire il governo che secondo la testata, deve rispondere senza perdere la calma.

Nelle scorse settimane si era valutato il passaggio lungo lo stretto di Taiwan di una portaerei, ma il transito di una simile nave con il suo gruppo di attacco rischiava di esacerbare le tensioni con le autorità cinesi, e si è quindi preferito non percorrere questa via, scelta per l’ultima volta nel 2007 dal presidente George W. Bush.

E mentre queste operazioni vengono condotte perché ritenute necessarie per l’affermazione del diritto di passaggio inoffensivo, così come stabilito dalle norme internazionali, molti ufficiali non ritengono fondamentale allo scopo, l’impiego delle navi più preziose della Marina Militare.

Queste operazioni di “libertà di navigazione” trovano giustificazione nella volontà di Washington di affermare il diritto di libertà dei mari, che, finalizzato al mantenimento dell’apertura delle rotte commerciali, comporta la libertà di navigazione in acque internazionali di naviglio sia militare da trasporto.

Missioni tese a contrastare la crescente assertività cinese nell’area del Mar Cinese Meridionale, dove le rivendicazioni del dragone rosso si sovrappongono a quelle dei paesi vicini causando anche danni economici. Infatti rivendicando tutti gli spazi compresi nella 9 Dash Line, la marina militare di Pechino esercita un’influenza sempre maggiore nell’area, arrivando anche a interrompere esplorazioni petrolifere in zone economiche esclusive di Filippine e Vietnam, impedendo quindi a questi paesi di sviluppare risorse che stando al diritto internazionale sarebbero di loro appartenenza.

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In un’analisi pubblicata su Foreign Affairs si argomenta che più che sull’affermazione del principio di libera navigazione gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi nell’affermare il principio di “libertà dei mari” che prevede l’impegno a garantire ai paesi rivieraschi il libero utilizzo delle risorse presenti nelle proprie zone economiche esclusive.

Secondo gli analisti se gli Stati Uniti dovessero fallire nel garantire un supporto concreto ai propri alleati nell’area di fronte alle ingerenze cinesi, gli stessi alleati si vedrebbero costretti a scendere a compromessi con l’ingombrante vicino anche siglando accordi a proprio discapito, in quanto non in condizione di negoziarne di migliori. Una situazione che nel lungo periodo rischierebbe di alienare diversi consensi nell’area pacifica dove gli Stati Uniti potrebbero vedere ridotta la propria capacità d’ intervento.

Di: Andrea Cerabolini