Liberi di diventare schiavi? Il dramma degli yazidi

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Safin Hamed/AFP/Getty Images

A pochi mesi di distanza dall’esodo yazida, la tragica sorte di migliaia di donne catturate e ridotte in schiavitù dal sedicente Califfato sembra esser dimenticata dall’opinione pubblica occidentale, apparentemente disinteressata all’aumento del numero di schiavi, dichiarati e non, nel Mondo. Un’ipocrisia – rispetto all’importanza attribuita dall’etica occidentale alla libertà personale di ogni individuo – che i teorici dell’Isis potrebbero sfruttare come arma, aprendo un nuove fronte: la guerra etica.


Il 2015 non è cominciato nel migliore dei modi per l’autoproclamatosi Califfato. Respinti a Kobane, le forze dell’Isis si son viste rubare la scena sul palcoscenico del terrore, dal ritorno di Al-Qaeda, regista dei fatti di Charlie Hebdo

Persino il fronte mediatico, fiore all’occhiello dell’opera di diffusione, propaganda e arruolamento dei jihadisti, comincia a incontrare le prime difficoltà. Il mancato scalpore destato dall’annuncio della nuova moneta in circolo nei territori conquistati, il dinaro(nonostante l’enfasi dedicata all’importanza di essersi affrancati dal dominio finanziario del dollaro), il rapimento e l’esecuzione dei due ostaggi giapponesi, (oggetto più di dileggio da parte dell’opinione pubblica nipponica che di orrore) e l’esecuzione del pilota giordano bruciato vivo in una gabbia (colpevole di aver per primo“bruciato” dei civili sotto il fuoco delle bombe e destinato quindi ad essere punito con il fuoco stesso), oggetto di contestazione da parte di numerosi islamisti radicali solitamente impegnati a sostenere l’opera di propaganda dell’Isis, in quanto un altro Hadith vieterebbe, in qualunque caso, l’utilizzo del fuoco per punizione in quanto prerogativa riservata a Dio.

Il “Califfato” appare ora meno “formidabile” in quella partita per “il cuore e le menti” giocata online di fronte a miliardi di spettatori e l’annuncio di una nuova politica del pugno duro da parte dei governi occidentali verso gli account social dei vari militanti e simpatizzanti, (con Londra intenta a organizzare un reparto speciale dell’esercito dedicato esclusivamente alla lotta informatica contro l’Isis), sembra essere un ulteriore, durissimo, colpo inflitto ai noduli informatici che hanno da sempre costituito la linfa vitale al di fuori dei suoi territori.

Quali strade potrebbero seguire i jihadisti per rilanciarsi in una lotta mediatica determinante almeno tanto quanto quella condotta sui polverosi campi di battaglia iracheni e siriani? Una delle probabili direzioni potrebbe essere quella di puntare sugli aspetti di carattere etico che più sembrano disturbare l’opinione pubblica globale, soprattutto in Occidente (come l’enfasi data al rogo di migliaia di libri considerati “blasfemi” a pochi giorni dall’attentato a Charlie Hebdo). Se la platea mondiale ormai ha un pelo sullo stomaco tale da non impaurirsi alla vista dell’ennesima decapitazione è probabile che sia ancora suscettibile di fronte all’introduzione d’idee che paventino scenari ancora più terrificanti.

Tra queste, spicca la dichiarata reintroduzione della schiavitù, questione esplosa durante il drammatico esodo degli yazidi. Sono raccapriccianti le testimonianze di ragazze yazide rese schiave e violentate ripetutamente dai miliziani. Una faccenda affrontata da una parte dei media, intenti a pubblicare qualsiasi voce o contenuto disponibile, senza controllarne la veridicità, con toni ai limiti del morboso che hanno reso ancora più disgustosa la tragedia che avveniva in Iraq.

L’elemento tuttavia più disturbante è proprio la risposta mediatica da parte dell’Isis e dei suoi numerosi apologeti diffusi in ogni parte del Mondo. Pur rigettando le notizie più agghiaccianti legate a stupri ripetuti e, in alcuni casi, alla stessa idea dell’uso delle schiave in un’ottica sessuale (se non nella delirante versione della liceità di una sessualità consenziente tra la schiava e il suo padrone), la linea “ufficiale” del sedicente Califfato, ribadita successivamente dai suoi volontari avvocati, è l’aperta accettazione dell’uso della schiavitù per donne e bambini “catturati in guerra”.

Gli uffici stampa dell’Isis si sono presi la briga di mettere a punto un prontuario sulle corrette modalità nell’acquisizione e nel mantenimento degli schiavi.

Aldilà di interpretazioni particolari, la linea comune si rifà al fatto che tali regole non sono altro che le indicazioni date dal profeta Muhammad in persona e trascritte nel Corano o negli hadith.

Secondo i sostenitori Isis, la schiavitù jihadista (circoscritta a “casi particolari”), oltre che “sacra”, proprio perché definita così da Dio, è ben diversa da quella storicamente praticata dagli occidentali, crudele e totalizzante. L’assurda visione degli apologeti dell’Isis è quella di una schiavitù dal carattere umano e di parità sostanziale tra padroni e schiavi, visti come una specie di elemento aggiuntivo alla famiglia. Una visione edulcorata e assolutoria, che non si discosta di molto dalle posizioni degli schiavisti americani che nel diciannovesimo secolo difendevano l’istituzione della schiavitù negli Stati del Sud.

E mentre l’Occidente s’indigna, i sostenitori dell’Isis ricordano al mondo che esistono comunque schiavi di “fatto”, ovvero milioni di prostitute sfruttate, che non consentirebbero all’Occidente di fare la morale sulle schiave del “Califfato”. Una stoccata che tuttavia tradisce chi invece ha voluto sostenere una posizione che ammette la riduzione in schiavitù delle yazide, pur rigettando ogni forma di violenza sessuale.

La reintroduzione della schiavitù ad opera dell’Isis ha portato ad un ulteriore allontanamento col resto del mondo musulmano, concorde nell’affermare che i versetti sacri inerenti alla schiavitù sono legati al contesto storico dell’epoca (esattamente come né la Bibbia, né i Vangeli si esprimono apertamente contro la schiavitù) e nel ribadire che anche in passato era incoraggiato l’affrancamento in quanto “prova” del ripudio dell’Islam verso l’istituzione schiavista.

Obiezione tuttavia rimandata al mittente dagli jihadisti che si richiamano all’ultima grande istituzione politica musulmana sunnita – la sola considerata legittima – il Califfato. Nel pamphlet pubblicato dall’Isis, dedito a spiegare le ragioni sottostanti alla riduzione in schiavitù delle yazide “The Revival of Slavery: Before the Hour”, si legge il seguente passaggio:

salvo sporadici casi nelle Filippine e in Nigeria, è dai tempi del Califfato che non sono stati fatti schiavi.

Il ritorno alla schiavitù ha inoltre una valenza escatologica; secondo la macabra reinterpretazione dell’Isis di una predizione coranica, la nascita di jihadisti dal grembo delle concubine, indica l’inizio della fine dei tempi (ovvio il riferimento alle yazide catturate).

Non è solo l’ossessione per l’Istituzione politica del Califfato a spingere gli jihadisti a forzare indietro le lancette della storia, nella convinzione di contribuire agli ultimi, apocalittici, atti della civiltà umana.

Visioni escatologiche a parte, la reintroduzione della schiavitù da parte dell’Isis, è un’azione politica rivolta all’immediato e al prossimo futuro.

Aldilà delle minacciose mappe sui confini ultimi che dovrebbe possedere il loro nuovo califfato, è la volontà di scuotere dalle fondamenta, ogni principio etico dell’ avversario a rappresentare il vero schiaffo lanciato all’Occidente, dal guanto di sfida dell’Isis. E tra i pilastri della civiltà Occidentale, la libertà individuale è forse il principale, quello maggiormente riconosciuto nel resto del Mondo, come caratteristico dell’Occidente.

A dispetto di quello che tendiamo a pensare oggi, definire il concetto di libertà personale, non fu un compito facile per i grandi pensatori del passato, e il suo sviluppo nel tessuto culturale europeo non fu affatto immediato. Figlia di diverse anime culturali ed etiche, per molto tempo in Occidente non tutti sono stati beneficiari della libertà personale che oggi siamo soliti intendere, ossia come condizione contraria a uno stato di coercizione violenta ad opera altrui.

In un certo senso, tale concetto si è potuto modellare in maniera speculare rispetto alla condizione di schiavitù, condizione molto più antica e radicata nelle culture umane. Anche in seguito al suo sviluppo e alla sua ascesa, ci sono voluti secoli perché tale status si allargasse da una cerchia ristretta d’individui, a una condizione imprescindibile per ogni essere umano.

Nonostante il percorso travagliato di questo concetto (molto più recente di quanto siamo portati a credere), l’Occidente ha da subito fatto propria, l’idea dell’uomo come essere intrinsecamente libero, e nel suo percorso di espansione verso il Resto del Mondo non se n’è dimenticato.

Cessate le cannonate, spesso, le grandi navi coloniali imponevano, nei trattati di pace “ineguali” (che imponevano il dominio della potenza coloniale di turno sui locali), l’abolizione dei traffici schiavisti in loco, come avvenuto a Zanzibar e nei potentati del Golfo Persico per opera dei britannici.

Crudele ironia quella d’imporre la libertà personale per ogni nuovo “suddito” (almeno dal punto di vista legale) mentre si procedeva a una fattuale sottomissione politica e culturale. Questa sfacciata ipocrisia costituiva, tuttavia, un preciso indicatore di quanto, già ai tempi, tale valore fosse per l’Europa così importante da esser portato con sé ovunque, anche se più come un invisibile stendardo che come reale azione d’intenti.

Già a partire dal XIX Secolo, con l’affermarsi delle rivoluzioni liberali e dell’egemonia europea sul pianeta, l’idea della libertà personale, assumeva sempre più i connotati di un dogma, rafforzato dalla progressiva caduta delle ultime situazioni di dichiarata violazione alla regola (come la fine dello stato servile per gli afro-americani dopo la guerra civile americana, o l’affrancamento della servitù della gleba nella Russia zarista).

La profondità con la quale tale concetto entrò nella struttura sociale e culturale europea fu tale, che da quel momento in avanti, anche teorie nate col preciso intento di sfidare lo status quo, mantenevano, più o meno consapevolmente, l’obiettivo di preservare – se non aumentare – la sfera della libertà personale (come nel caso del socialismo nato soprattutto con l’idea di far evolvere e dar senso pratico alla libertà individuale concepita dalla società liberale borghese).

Oltre ad essere il più importante tra i valori che l’Occidente, soprattutto nel ventesimo secolo, ha cercato di diffondere nel Resto del Mondo in qualità di “valori universali” diffusi come patrimonio comune del genere umano, la libertà personale è stata, ed è tuttora, quella di maggior successo. Nessuno dei movimenti culturali nati come contrapposizione all’egemonia culturale occidentale ha mai voluto mettere in discussione il concetto di libertà personale, e tra questi, lo stesso islamismo politico radicale, nato assieme ai Fratelli Musulmani negli anni ’20, del quale l’Isis, costituisce oggi, una scheggia impazzita.

Proprio questo tentativo di far crollare un totem considerato da tempo come intoccabile, costituisce – ad oggi – il più ambizioso attacco sferrato dall’Isis; un attacco non rivolto a persone concrete, ma a concetti astratti, a cui ognuno è chiamato ad attribuire un significato.

In attesa di raggiungere Roma, l’Isis colpisce l’insieme di idee che secondo loro, “Roma” rappresenta (centro simbolico di una cultura che l’Isis considera irrimediabilmente come nemica). Ecco che allora il pilota giordano bruciato vivo, che a Roma probabilmente non c’è mai stato, che agli occhi degli jihadisti diventa un “romano”; nemico dichiarato di un progetto dove, prima ancora dei luoghi, sono le idee a essere oggetto di lotta e conquista.

La libertà personale, in quanto, elemento fondante della cultura occidentale, per di più assunto a valore universale, è un valore prezioso di quella “Roma” fatta d’idee. Una Roma importante tanto quella in pietra che milioni di turisti visitano ogni anno.

La naturale preoccupazione è che una volta rotto il tabù, altri movimenti, in differenti zone del Mondo, intravedano lo spazio per una dichiarata rottura o una ridiscussione dell’intrinseca presenza della libertà individuale, per ogni essere umano e in qualsiasi tessuto sociale in cui lui si trovi.

Nonostante l’illusione contemporanea che rende questo concetto immodificabile, la libertà personale è al contrario un concetto astratto che non si sviluppa da sé. Ciò che oggi noi intendiamo come assenza di una condizione di schiavitù, è qualcosa diffusasi secondo percorsi tortuosi e in un tempo relativamente recente se rapportato alla storia dell’umanità nel suo complesso; basti ricordare come l’ultimo bastione schiavista a cadere, fu la Mauritania nel vicinissimo 1981.

Se verranno a mancare le condizioni politiche e culturali che ne hanno decretato il successo, l’idea di un Mondo senza schiavi sarà destinata ad essere una delle tanti parentesi storiche racchiuse nelle cronache: non è solo la bontà “intrinseca” di un’idea a decretarne successo e longevità.

Accade spesso che sia proprio il successo di un’idea a decretarne la scomparsa. Più un’idea si espande, assumendo le vesti di un dogma e diventando così un passaggio obbligato in qualunque tipo di dialettica, maggiori sono i rischi che col tempo si svuoti di significato, diventando un guscio vuoto, (sapientemente manipolato al suo interno da ogni possibile oppositore, che essendo costretto a conoscerne ogni dettaglio, ha il vantaggio di apprenderne ogni punto critico) che alla fine si sgretola in polvere al soffio implacabile dei venti della storia.

Secondo le più recenti stime della Walk Free Foundation, viviamo in un Mondo di circa sette miliardi di uomini e donne liberi dal punto di vista formale a cui si affiancano trentacinque milioni di schiavi sostanziali in costante aumento. Numeri inaccettabili, poiché rendono l’immane tragedia delle schiave “dichiarate” dell’Isis, qualcosa di quantitativamente piccolo.

È inaccettabile il solo pensiero di dover fare qualunque tipo di calcolo basato sulla più cupa disperazione umana, piccoli o grandi che siano i numeri interessati.

Tra i tanti valori che l’Occidente ha cercato di infondere al Resto del Mondo, la libertà personale è forse il solo meritevole e, perciò, in grado, di poter esser condiviso dall’intera umanità.

In un’epoca dove l’incertezza e la confusione regnano sovrane se l’idea di un mondo senza più schiavi cade (collassando dall’interno, per colpa delle nostre stesse ipocrisie), dalle macerie si alzeranno orrori tali da desiderare che il ritorno alla schiavitù dell’Isis sia davvero il segno della fine dei tempi.

Yazidi in due parole

Popolo di lingua curda, praticano una religione sincretica che unisce elementi di Islam, Cristianesimo, antichi precetti religiosi indù, zoroastriani, ellenici e mesopotamici.

Venerano un unico Dio e sette angeli, primo tra tutti, Melek Ṭāʾūs, rappresentato come un pavone, che dopo esseri ribellato ha trovato redenzione e pentimento creando il Cosmo e spegnendo le fiamme dell’inferno con le proprie lacrime.

La figura di Melek, in qualche modo simile a quella del Lucifero biblico, ha fatto sì che secondo alcuni visioni integraliste cristiane e musulmane, gli yazidi fossero visti come una setta dedita all’adorazione del diavolo, incomprensione che ha causato loro diverse persecuzioni nella storia.

Anche l’Isis, che segue una rigidissima quanto discutibile interpretazione della Sunnah (tradizione) coranica, ritiene che gli yazidi siano adoratori del diavolo. Ciò li pone come mushrik(idolatri e politeisti), la cui sorte è ben diversa rispetto alle “genti del libro” (cristiani ed ebrei) i quali possono vivere in pace (ad oggi almeno formalmente), all’interno dei territori musulmani, come dhimmis, pagando una tassa particolare. Essendo l’idolatria peccato mortale per le più rigidi interpretazioni coraniche, uno yazida che finisce in mano all’Isis ha di fronte due sole vie: la conversione all’Islam o la morte, se uomo, o la riduzione in schiavitù, se donna o bambino.

Mirko Annunziata