Da Lula al dopo Temer

An anti-corruption protester holds a poster with Dilma Rousseff and Lula in prison stripes. The Free Brazil Movement, a rightwing pressure group, Photograph: Silvia Izquierdo/AP
Il 24 Gennaio 2018 tre giudici del Tribunale d’appello di Porto Alegre in Brasile hanno confermato la sentenza di condanna per corruzione e riciclaggio di denaro a Luiz Inacio Lula da Silva, (pronunciata da una corte minore nel luglio del 2017) e hanno aumentato la pena da 9 a 12 anni. Si riducono quindi le possibilità che si possa candidare alle elezioni presidenziali che si svolgeranno tra il 7 e il 28 ottobre di quest’anno, anche se i sondaggi lo danno come favorito.

Luiz Inácio Lula da Silva, ex sindacalista e co-fondatore del Partido dos Trabalhadores (Pt), esponente per eccellenza della sinistra populista brasiliana, è stato, durante i suoi mandati presidenziali (2002-2006 e 2006-2010), l’artefice dell’incredibile sviluppo economico-sociale che ha catapultato il Brasile sulla scena internazionale.

Lula ha posto fine alla cosiddetta “Politica de Estado”, termine usato per indicare il tradizionale approccio brasiliano alla politica estera, costituito quasi esclusivamente dal raggiungimento del massimo sviluppo interno, accompagnato dal sogno, mai inseguito nella pratica, di trasformarsi in potenza trainante dello sviluppo regionale.

L’”era Lula”, è stata inaugurata dal superamento del monopolio esercitato dal Itamaraty, il Ministero delle Relazioni Esterne brasiliano, in nome di una maggiore pluralizzazione della procedura decisionale in politica estera e al contempo di una presidenzializzazione della stessa. Tale ampiamento del numero di agenti competenti in politica estera, attuatosi sia col passaggio di responsabilità ad altri Ministeri e al Presidente, sia con l’ingresso di enti non statali nel policy making, è stato guidato dalla necessità imposta dalla globalizzazione di specializzazione del processo decisionale. L’era Lula inoltre, si è distinta per la chiara e precisa volontà del Brasile di porsi come attore di peso nella risoluzione delle controversie regionali e globali, attraverso l’instaurazione di rapporti Sud-Sud e Nord-Sud.

Luiz Inácio Lula da Silva parla a San Paolo, Brasile agli inizi di gennaio 2018. Credits to: Andre Penner/AP

Nell’orizzonte Sud-Sud, il ruolo del Brasile è stato fondamentale per il ripristino del processo di integrazione regionale e la creazione di una comune coscienza Sudamericana (e non Latinoamericana, termine fuorviante di origine europea che comprende tutte le ex-colonie nelle quali si parla una lingua neolatina, comprese quelle del Centro e del Nord America), azione facilitata da contingenze politiche favorevoli: 10 paesi sudamericani erano all’epoca guidati da governi di sinistra, capeggiati da leader che si appellavano alla specificità dell’identità sudamericana.

Inoltre, la prospettiva Sud-Sud si è concretizzata globalmente con l’avvicinamento alle problematiche mediorientali, culminato nel 2003 con l’iniziativa ASPA (Summit of South American-Arab Countries), promossa da 12 paesi sudamericani, e 22 paesi arabi e dai rappresentanti delle rispettive organizzazioni regionali, Lega Araba e Unione delle Nazioni Sudamericane, cui obbiettivo principale era favorire la cooperazione su temi di interesse comune alle due regioni.

I maggiori successi diplomatici dell’era Lula derivano però dalla posizione assunta dal Brasile nelle dinamiche del confronto Nord-Sud. Il Brasile infatti, ponendosi nello scacchiere internazionale come forza emergente anti-status quo e favorevole ad una redistribuzione più equa e giusta della ricchezza mondiale, è riuscito ad instaurare dialoghi alla pari con le altre potenze dello stesso rango, vedi IBSA (India e Sud-Africa) e BRICS, ottenendo ulteriore legittimazione dalla volontà di distaccarsi dalle direttive statunitensi ed europee.

La destituzione dell’erede designata da Lula, Dilma Roussef, successivamente all’impeachement per corruzione legato allo scandalo Lava Jato, ha avuto come conseguenza l’installazione a Palácio de Alvorada, del governo provvisorio guidato da Michael Temer, da subito distintosi per l’attuazione di politiche opposte a quelle dell’ex alleato di governo, tanto da spingere alcuni osservatori a parlare di “controrivoluzione neoliberista”.

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Oltre all’inserimento dell’austerità nel testo costituzionale, l’agenda politica di Temer per la riabilitazione economica del Brasile, è improntata ad una progressiva liberalizzazione, per la quale è necessaria in primo luogo una rivitalizzazione delle organizzazioni commerciali interne, con l’obbiettivo di ricreare un’unione doganale nella quale sia assente ogni forma di barriera al libero scambio. A questo proposito, sebbene la sospensione del Venezuela dal Mercosur sia stato un  punto di partenza, è opportuno che nascano nuovi accordi intra-regionali e che vengano rinvigoriti i negoziati di integrazione interregionali, primo fra tutti quello per la creazione di un’area di libero scambio con l’Unione Europea.

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La tensione legata all’esito delle prossime elezioni, strettamente connessa alle sfide che il Brasile si trova a dover affrontare, è alimentata anche dalla probabile incandidabilità di Lula. La paura che Bolsonaro, candidato dell’ultra-destra presentato dai media come estremista e populista, possa riportare il Brasile negli anni ’60 (lo stesso Bolsonaro ha in più occasioni elogiato la dittatura militare) è un’altra variabile di cui bisogna tenere conto. Imparare a gestire i flussi di rifugiati venezuelani che raggiungono il nord del paese attraverso una strategia di lungo termine e adattarsi ad un nuovo mondo asia-centrico sono questioni scottanti che Temer e il suo ministro degli esteri José Serra lasceranno in eredità ai loro successori. Eredità di certo non felice, ma dalla quale è senz’altro possibile ripartire per un Paese che svolge un ruolo cruciale per l’intera regione.

Di: Riccardo Stifani