Morsi: l’ex presidente egiziano non sarà giustiziato

EPA/Khaled Elfiqi
La Corte di Cassazione egiziana ha revocato la condanna a morte dell’ex Presidente egiziano Morsi, evitando ulteriori tensioni che potrebbero compromettere il processo di stabilizzazione dell’Egitto.

Non sempre piove sul bagnato. Martedì 22 Novembre se n’è accorto anche l’Egitto, quando la Corte di Cassazione ha annullato l’ergastolo per l’ex-Presidente Mohamed Morsi in relazione al processo “spionaggio per Hamas” che lo vedeva accusato di cospirazione al terrorismo internazionale. In precedenza, il 15 novembre la Corte di Cassazione aveva deciso che il processo di condanna a morte di Mohamed Morsi non era da considerarsi valido e dunque l’ex-Presidente non sarà giustiziato come previsto.

Per chi se la fosse persa, la vita di Mohammed Morsi è piuttosto interessante da raccontare: ingegnere chimico, parlamentare dal 2000 al 2005 per i Fratelli Musulmani, diventa il primo presidente democraticamente eletto nella storia dell’Egitto nel giugno 2012, dopo che le rivolte di piazza Tahrir avevano interrotto 30 anni di regime autoritario di Hosni Mubarak. Forte dei 13,2 milioni di voti presi grazie al movimento islamista dei Fratelli Musulmani, il programma di Morsi prevedeva di fondare la ricostruzione di un Egitto dilaniato dagli scontri su una costituzione ispirata alla Sharia e, allo stesso tempo, dare più importanza al ruolo della donna. Le posizioni troppo radicali per una certa parte della popolazione e, soprattutto, la crisi economica in cui il paese era piombato dopo il crollo degli introiti del turismo (seconda voce del PIL duramente colpita dal periodo di violenze), generarono un malcontento strisciante che si concluse nel luglio 2013 con un colpo di stato militare del generale Al-Sisi, ancora oggi al potere. Morsi venne messo agli arresti domiciliari con una prima accusa di spionaggio e istigazione alla violenza e, successivamente, una seconda accusa per l’evasione dal carcere di Wadi al-Natrūn durante le rivolte del 2011 che avevano deposto Mubarak. Un modo, neanche troppo sottile, di eliminarlo dalla scena politica con motivazioni pretestuose. Condannato quindi a morte nel maggio 2015, Morsi non sarà giustiziato e il processo è da rifare. Una prima piccola vittoria dopo anni di lotte e processi di massa sommari in cui la parte al potere ha punito duramente gli sconfitti.

L'ex presidente egiziano Mohammed Morsi saluta i presenti durante un'udienza al Tribunale del Cairo. Credits: AHMED OMAR / AP
L’ex presidente egiziano Mohammed Morsi saluta i presenti durante una delle ultime udienze al Tribunale del Cairo. Credits: AHMED OMAR / AP

Al di là delle considerazioni di merito sulle azioni di Morsi e della sua condanna, il fatto che l’ex-presidente legittimo dell’Egitto e rappresentante dell’ala musulmana radicale di un paese dilaniato dalle divisioni interne non debba essere ucciso sulla pubblica piazza, dà il diritto di sperare. Ogni buon leader sa che esecuzioni sommarie e violenza “a freddo” non fanno altro che esasperare le parti in lotta. Per ogni atto punitivo inflitto al vinto, gli anni che separano il paese da una vera riconciliazione si moltiplicano. “Errare è umano, perdonare è divino” affermava il poeta inglese Alexander Pope e chi ha scelto questa strada in situazioni post-conflittuali ha riscosso dividendi enormi e la storia ne è testimone. Lo sa l’Europa: quello che differenzia il primo dopoguerra europeo dal secondo è lo spirito punitivo del trattato di Versailles che non risolse il conflitto ma ne gettò ampie basi per un successivo. Ugualmente, Nelson Mandela avrebbe avuto tutto il diritto di sfogarsi contro i vinti per decenni, se non secoli, di soprusi degli afrikaner sul popolo nero, ma non lo fece e diede invece vita a un processo di riorganizzazione dello stato a partire da una riconciliazione del Sudafrica.

La storia dei conflitti dell’uomo è fatta di rappresaglie per torti subiti (ovviamente non sono mai l’unica ragione di una guerra ma ne rappresentano il carburante indispensabile): dalla diatriba israelo-palestinese al genocidio in Ruanda, dalle stragi in Cambogia alla disputa territoriale indo-pakistana del Kashmir, dal conflitto nella Repubblica Centrafricana al conflitto in Colombia. La corte di cassazione egiziana ha gettato acqua sul fuoco, congelando (in attesa di sviluppi futuri) l’ennesima punizione al vinto. Considerando che in questo caso il vinto era il presidente legittimo egiziano, icona di una parte enorme della popolazione in un paese che è oggi una polveriera pronta a esplodere, possiamo dire che da quel lato del mondo arrivi finalmente una buona notizia.

di Davide Vavassori