Naufragi mediterranei

naufragi mediterraneo
3419. Non è una qualche data astrale o una sequenza matematica. Non è un codice segreto né un nuovo numero della smorfia napoletana. Più semplicemente e tristemente, 3419 è il numero dei migranti morti nel Mediterraneo nel corso del 2014.

Prendendo per buona la definizione di guerra formulata dalla Uppsala Universitet, per cui essa sarebbe un conflitto armato che annovera tra le sue caratteristiche anche quella di registrare almeno 1000 morti in un anno solare, possiamo affermare che, per numero di vittime, nel corso del 2014 il Mediterraneo è stato teatro di almeno tre guerre.

Una triste parabola quella del fu Mare Nostrum: da culla della civiltà a tomba della speranza, da centro del mondo conosciuto a violenta frontiera del (presunto) mondo civilizzato. Come è quando è potuto accadere tutto ciò?

  1. Del come.

I fondali dei nostri mari pullulano di relitti navali. Legni e acciai spezzati, straziati e storpiati da tempeste, maremoti, battaglie, siluramenti, speronamenti e anche qualche incidente. Non si scopre certo oggi che andare per mare è pericoloso. Diversamente, il morire durante una migrazione per annegamento, ipotermia, asfissia da sovraffollamento del bastimento o soffocamento da monossido di carbonio, questo si, è un fenomeno molto recente. Aldilà delle cause contingenti, dell’episodio specifico, questo massacro è in fin dei conti riconducibile al tentativo europeo di fermare la Storia. La storia dell’Uomo, della sua evoluzione e del suo sviluppo è infatti caratterizzata da una costante e massiccia, talvolta drammatica, migrazione. L’homo sapiens lascia l’Africa per colonizzare il Pianeta, le popolazioni Indoeuropee si disperdono nell’Eurasia, i popoli delle steppe dell’Asia centrale calano in Europa spingendo quelli ivi stanziati a migrare verso il bacino del Mediterraneo. Nel corso dei Millenni, lo spostamento delle persone, delle culture e delle idee non è un’anomalia, ma la prassi. Così come è prassi che all’interno della stessa unità politica convivano popoli, nazionalità e religioni differenti. E’ quindi antistorica, per non dire demenziale, la pretesa, tutta Occidentale e Novecentesca, di arrestare i flussi migratori, respingere i migranti, instaurare utopistici ed improbabili blocchi navali, segregare i popoli e le nazioni. Da qualche tempo, il Mediterraneo è divenuto simbolo di questa pretesa assumendo il ruolo di confine del Primo Mondo, di frontiera dell’emisfero boreale. Oltre di lui sunt leones. Nel 2013, probabilmente unica azione degna di nota del Governo Letta, il nostro Paese ha cercato di superare questa miope e demagogica impostazione varando una nuova strategia per la salvaguardia della vita in mare e per il contrasto al traffico di esseri umani: l’operazione “Mare Nostrum”. In circa dodici mesi di attività, “Mare Nostrum” ha permesso di soccorrere più di centocinquantamila persone, arrestare circa 366 scafisti, sequestrare 3 “navi madre” dei mercanti di uomini. Tuttavia, i costi elevati (9,5 milioni di euro al mese) e la necessità di una risposta comunitaria alla sfida migratoria hanno portato alla sua soppressione ed alla nascita di “Triton”: un’operazione che si spinge a fatica aldilà delle acque territoriali italiane, non ha tra i suoi fini quello di assicurare soccorso in mare e, per dirla con le parole pronunciate l’11 febbraio 2015 dalla portavoce di Frontex Izabella Cooper, «non è mai stata concepita per sostituire Mare Nostrum. Noi agiamo all’interno del mandato datoci dall’Europa: finché il nostro mandato resta offrire assistenza tecnica agli stati membri sul pattugliamento delle frontiere non ci si può aspettare di più». Certo non il figlio di Poseidone cui il nome ambizioso fa riferimento, dunque, e la differenza è facilmente riscontrabile anche a livello numerico attraverso una semplice comparazione: i migranti morti nei primi tre mesi del 2015 sono 470; nello stesso periodo del 2014 erano invece stati 15.

  1. Del quando.

E’ possibile individuare un momento preciso in cui il Mediterraneo diviene la tomba della speranza? Con una forte ma ragionevole dose di semplificazione e l’aiuto di Alessandro Leogrande, vicedirettore del mensile Lo straniero ed autore del libro Il naufragio. Morte nel Mediterraneo, con cui ha vinto il Premio Ryszard Kapuściński e il Premio Paolo Volponi, crediamo si possa identificare questo momento nel fatale speronamento della Kater i Rades. Il 28 marzo 1997, venerdì santo, una piccola motovedetta albanese carica di immigrati viene speronata ed affondata dalla corvetta Sibilla della Marina Militare italiana nelle acque del canale d’Otranto. Ottantuno vittime, 31 delle quali con meno di sedici anni. Questo è il momento che possiamo prendere come simbolo del cambiamento. Qui ha piena attuazione la politica del contenimento degli espatri clandestini, la pratica delle operazioni di dissuasione, dell’harassment, delle “azioni cinematiche di disturbo”. Una storia brutta, che non è solo una storia, ma qualcosa di più. Come ci spiega Leogrande, infatti, «La strage della Kater i Rades è un pò uno spartiacque, per tanti motivi. Tante questioni, tante frasi che sentiamo oggi e che abbiamo sentito ripetere in questi vent’anni, dal becero “rimandiamoli a casa” o “buttiamoli a mare” ad espressioni come blocco navale, respingimento in alto mare, controllo delle frontiere, hanno la propria origine e la propria prima applicazione proprio nei rapporti Italia-Albania. Quindi, ben prima che la frontiera dell’Italia e dell’Europa diventi il Mediterraneo meridionale ed il canale di Sicilia. Ed è proprio nel ’97, con la seconda ondata migratoria albanese, che un Governo italiano decide, per la prima volta, di adottare una politica di respingimento».

 Per approfondire: Leogrande Alessandro; Il naufragio. Morte nel Mediterraneo, Feltrinelli, Milano, 2011.