Solleva perplessità la scelta di Papa Bergoglio in visita in Asia di non parlare direttamente delle sorti dei Rohinya né in Myanmar né in Bangladesh. Realismo politico?
Durante il suo viaggio apostolico in Asia, il Pontefice si è unito al mutismo di Aung San Su Kyi nel parlare direttamente dei Rohingya. Alla fine quella parola tanto temuta non è stata proferita da Papa Francesco in Myanmar durante il suo viaggio nel paese tra il 27 e il 29 novembre. Su consiglio del Cardinale di Yangon, la capitale del Myanmar, il Papa non ha mai parlato direttamente dei Rohingya, la minoranza musulmana presente nella regione sud-occidentale del Rakhine (o Arakan) e da tempo coinvolta in un violento conflitto con il governo centrale che molte agenzie governative definiscono come una vera e propria “pulizia etnica”.
Una crisi politica e umanitaria che secondo molti avrebbe dovuto portare Jorge Bergoglio ad avere più coraggio, ma dal punto di vista del Cardinale, Charles Maung Bo, il solo utilizzo della parola Rohingya sarebbe stato considerato da parte dell’opinione pubblica dell’etnia maggioritaria Bamar come una presa di posizione del Pontefice a favore di un popolo considerato ribelle e ostile. Motivazioni spiegate dalla visione della società birmana che vede i Rohingya come corpus estraneo e invasore rispetto al resto del paese (al punto che i Rohingya non possiedono nemmeno la cittadinanza dello stato presso cui risiedono).
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Alla prudenza suggerita dall’alto prelato concorrono anche i timori che anche una presa di posizione da parte della piccola comunità cristiana locale contro il sentore della maggioranza buddista possa portare i cristiani birmani a essere colpiti dalle misure di crudeltà draconiane, dal lavoro coatto all’impossibilità di lasciare liberamente il paese, a cui i Rohingya sono attualmente soggetti; violazioni dei diritti umani che hanno la firma dell’esercito, il cui potere all’interno della giovane e fragile democrazia birmana è ancora oggi centrale.
Una comunione d’interessi, tra l’opinione pubblica e la giunta militare, nel considerare i Rohingya come una grave minaccia al paese tanto forte da rendere impossibile anche a Aung San Su Kyi, Premio Nobel per la Pace e attuale ministro degli Esteri del nuovo governo democratico, di agire e parlare contro le violenze e le persecuzioni a cui sono soggetti i Rohingya e che le sta comportando diverse critiche a livello internazionale basate sull’idea che non si tratti tanto di un deficit di potere quanto più di una consapevole mancata presa di posizione a favore della minoranza musulmana da parte della storica paladina per la democrazia e per i diritti del popolo birmano.
Durante i colloqui privati tra Aung San Su Kyi e Papa Francesco la questione Rohingya è stata declinata in un generico richiamo alla concordia e alla convivenza tra le molteplici comunità etniche e religiose del paese, un appello che il Pontefice ha rivolto alle migliaia di birmani che hanno assistito dal vivo al suo discorso. Paradossalmente, l’unica persona che durante il viaggio pastorale in Myanmar ha parlato espressamente di Rohingya sembra esser stato il generale birmano Min Aung Hlaing, uomo forte del comparto militare che durante il suo incontro con il Papa ci ha tenuto a rassicurare Bergoglio che non ci sono discriminazioni a danno dei Rohingya da parte del governo centrale (affermazione riportata dallo stesso generale sul suo profilo Twitter subito dopo l’incontro con Bergoglio).
Nemmeno in Bangladesh il Papa in un primo momento ha ritenuto opportuno nominare esplicitamente i Rohingya, sebbene non siano mancati gli elogi rivolti al paese per i suoi sforzi nell’accogliere centinaia di migliaia di non meglio specificati “rifugiati”. Una strategia che ha portato a diverse critiche da parte di chi si sarebbe aspettato, da un Pontefice considerato attento agli emarginati e ai discriminati, una presa di posizione decisa, che avrebbe aumentato la pressione internazionale nei confronti del governo birmano e forse pregiudicato le sporadiche missioni cattoliche presenti nel paese, così libere di agire senza temere ritorsioni da parte delle autorità militari birmane. Forse, proprio per evitare un fuoco incrociato di critiche, il Papa ha deciso in un ultimo momento di incontrare alcuni profughi Rohingya in Bangladesh e persino fare il loro nome nel corso di un incontro inter religioso, ben lontano da personalità politiche
Ma perché tanta attenzione nel non urtare la sensibilità verso un potere che esercita una discriminazione tanto feroce? Il vantaggio sarebbe per la Chiesa di Roma entrare in profondità nello scacchiere dell’Asia Sud Orientale, un teatro in cui per ragioni soprattutto di scarsa diffusione del culto cattolico non è mai stata particolarmente presente con l’eccezione delle Filippine e dei territori colonizzati a lungo dai portoghesi (i primi, quasi 500 anni fa, a portare il cattolicesimo nel territorio dell’attuale Myanmar) come Timor Est. Le speranze da parte del Vaticano sono che con il consolidarsi della democrazia e la fine definitiva delle limitazioni dei militari sulle missioni cattoliche anche il Myanmar possa essere oggetto di quell’espansione del cattolicesimo in Asia che passa perlopiù inosservata in Occidente ma che da tempo il Vaticano monitora con molto interesse. Una prospettiva che senza dubbio avrà condotto Papa Francesco ad entrare in Myanmar in punta di piedi evitando di scuotere il vespaio ma che nel lungo periodo potrebbe rivelarsi un boomerang proprio per la piccola comunità cattolica birmana che intende proteggere e far prosperare.
Secondo un esponente delle chiese protestanti locali, Patrick Loo Tone, nella società a prevalenza buddista del Myanmar le differenze tra cattolici e protestanti sono sostanzialmente impercettibili. E se i cattolici infatti sono solo l’uno per cento, i cristiani nel complesso ammontano al 6% della popolazione birmana; due-tre punti percentuali in più dei musulmani Rohingya considerati una minaccia nazionale. Come per i Rohingya, di etnia bengalese e di lingua indoeuropea, i cristiani birmani tendono a differenziarsi dalla maggioranza Bamar anche sotto il profilo etnico, in quanto appartengono prevalentemente a gruppi etnici quali Kachin, Chin e Kayin, situati nel Nord montuoso del paese, storicamente riottosi al controllo politico da parte dei Bamar.
Basterebbe quindi che lo stesso vento di paranoia riguardo il sovvertimento dell’ordine buddista in Myanmar che al momento soffia contro i Rohingya cambi di direzione e punti contro i cristiani per rovinare i piani del Vaticano. Il rischio è che un probabile incremento delle missioni cattoliche nel paese venga percepito come ingerenza straniera, nella stessa misura in cui i Rohingya sono considerati un’ingerenza da parte del vicino Bangladesh (date le somiglianze etniche e religiose, per i nazionalisti birmani i Rohingya sono visti come bengalesi invasori). Bergoglio, nel decidere di accettare di non pronunciare neanche il termine Rohingya, potrebbe aver contribuito a sostenere quel clima di paranoia e chiusura che affligge la società birmana e che un giorno potrebbe abbattersi sui cristiani.