Il mondo secondo Donald

Mancano poco più di due mesi al giorno del giuramento del nuovo Presidente degli Stati Uniti, eppure è già possibile fare qualche ipotesi. Cosa aspettarsi dalla politica estera di Trump?

Lentamente si affievoliscono le luci dei riflettori puntati sul quella che sembrerebbe essere stata la più costosa campagna elettorale della storia degli Usa (6,6 miliardi di dollari), e per lo staff della Casa Bianca è ora di preparare il terreno per l’arrivo nel nuovo inquilino. Per un Paese che, da oltre 60 anni, basa la sua grand strategy sull’interventismo globale (declinandolo in molteplici dottrine), l’insediamento di un presidente che si è avvalso di una forte retorica isolazionista per conquistare i cuori degli americani è certamente una ragione per considerare la politica estera uno degli aspetti prioritari dei quali discutere.

Mentre i media propongono analisi e previsioni su quali saranno le prime mosse di Trump una volta giunto alla Casa Bianca, noi di Zeppelin proviamo ad avanzare alcune ipotesi circa i probabili policy shift che  potrebbero caratterizzare il passaggio dalla vecchia alla nuova Amministrazione.

EUROPA E NATO

Partiamo col dire che la vittoria elettorale di Donald Trump porterà a un incremento della pressione sugli alleati europei relativamente al tema delle spese per la difesa. Questo non deve sorprendere. Sebbene con enfasi differente, già Barak Obama durante il suo mandato aveva più volte sollecitato i colleghi del Vecchio Continente a rispettare il parametro di spesa del 2% del Pil previsto dagli accordi. Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca c’è da attendersi – sempre che le parole usate in campagna elettorale trovino applicazione – una più vigorosa spinta verso la condivisione dei costi (oltre che dei benefici) della difesa Nato; una visione che rischia di mettere alla prova la solidarietà transatlantica al di là degli aspetti meramente legati alla sicurezza.

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Spese militari per paesi dell’Alleanza in percentuale su PIL. Credits: NATO

Per noi europei, continuamente alla ricerca di risorse per sostenere il welfare, questo è un tema poco gradito. Nell’Europa a 27, la quota destinata alle spese militari ha subito pesanti tagli negli utlimi sei anni, toccando una media del 1,4% nel 2015. Ma se si escludono Stati Uniti e Gran Bretagna dalla sfera dei finanziatori della Nato, la restante parte conta per appena il 21% sul budget totale dell’alleanza. Evidentemente troppo poco, in un momento così delicato, come ammonisce in una nota Roland Freudenstein, direttore del Wilfried Martens Centre for European Studies di Bruxelles:

Stronger European defence structures within NATO are now more necessary than ever. Striving for a soft Brexit, and strong structures of co-operation with Great Britain, becomes even more important now, although the challenges are formidable”

Un primo segnale che potrebbe arrivare da Washington riguarda la European Reassurance Initiative, un fondo di 3,4 miliardi di dollari in nuovi aiuti per la difesa degli alleati che potrebbe essere erogato solo a condizione che questi ultimi rispettino l’impegno di portare al 2% le spese per la difesa. Parallelamente, gli Usa potrebbero decidere di non co-finanziare, o tirarsi indietro dall’operazione di riassortimento della flotta di AWACS (Sistema di Allarme e Controllo Aviotrasportato) che garantisce la sorveglianza aerea per tutte le funzioni C3 (Comando, Controllo e Comunicazioni) a vantaggio sia delle forze coinvolte nella difesa aerea che delle forze tattiche terrestri dispiegate sul territorio europeo.

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Velivolo AWACS della flotta Nato. Credits: NATO Archives

Trump punta molto sull’impegno di Francia e Germania, ma all’Europa servirà tempo per soddisfare le richieste di Washington. Per tale ragione (e non solo) è probabile, sebbene non scontato, che il nuovo Presidente americano tenterà di allentare le tensioni con la Russia sull’Europa orientale. Una parziale, o totale, rimozioni delle sanzioni occidentali su Mosca (che Trump ha sempre osteggiato) infatti, potrebbe persuadere Putin ad assumere un atteggiamento più “responsabile” nei confronti dei vicini ad ovest almeno fino al summit Nato del 2017 in programma in Belgio.

MEDIO ORIENTE E NORD AFRICA

Il dominio dei mari è alla base della potenza statunitense. E come ogni talassocrazia che si rispetti, al di là della retorica politica, sembra improbabile che Washington possa perseguire una politica puramente isolazionista, specie nei casi in cui questa si scontra con la necessità di garantire la libertà nei mari e il flusso di merci e idrocarburi lungo le principali rotte navali. Questo è ancora più vero se si parla degli stretti di Hormuz e Bab el-Mandeb, la cui importanza lega indissolubilmente gli Stati Uniti alla geopolitica del Medio Oriente. Tuttavia non è da escludere che sotto l’Amministrazione Trump, le relazioni degli Stati Uniti con i governi apertamente islamici come quelli di Iran, Qatar, Arabia Saudita e Turchia, possano peggiorare.

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Flusso del traffico marittimo globale. Credits: US National Center for Ecological Analysis and Synthesis

Almeno nel breve periodo, è probabile che Trump dia priorità all’eliminazione definitiva del sedicente Stato islamico e alla preservazione dell’ordine statale pre-esistente, piuttosto che concentrarsi su questioni relative ai diritti umani e alla democrazia. Per tale ragione c’è da aspettarsi che Washington faccia alcuni passi verso Mosca, riconoscendo alla Russia una certa comunità di intenti circa la stabilizzazione dell’area, la lotta al terrorismo e il contenimento di un Iran sempre più agguerrito.

La partita con Teheran è certo tra le più insidiose. Il neo Presidente americano non ama la Repubblica Islamica e ha più volte ventilato l’applicazione di un nuovo regime di sanzioni volto a colpire gli asset finanziari delle Guardie della Rivoluzione (Irgc). Ma in questo modo, il rischio di far saltare l’accordo su nucleare è molto alto, e ciò avrebbe l’effetto di esacerbare ulteriormente quei conflitti aperti nei quali l’Iran combatte con i propri proxies (Yemen, Siria, Iraq, Libano).

Lo stesso vale per l’Arabia Saudita, monarchia verso la quale Trump si è spesso pronunciato con toni fortemente negativi. Se da un lato è improbabile aspettarsi che i sauditi – come spesso hanno minacciato di fare – ritirino i propri capitali dalle banche statunitensi, dall’altro a risentire del raffreddamento dei rapporti con il vecchio zio Sam potrebbe essere la stretta cooperazione nel settore dell’intelligence. Se ciò dovesse accadere, Trump potrebbe bloccare l’assistenza militare ai Saud nella guerra in Yemen, o persino spingere in sede Onu per l’approvazioni di sanzioni contro l’Arabia Saudita per le ripetute violazioni dei diritti umani dentro e fuori dal Paese. Ciò potrebbe determinare una drammatico scadimento delle relazioni tra Washington e Riyad.

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Un elicottero americano UH-60 Black Hawk dell’esercito saudita abbattuto in Yemen. Credits: AP

Diversa, e più complessa, è la questione relativa al conflitto in corso in Siria ed Iraq. Qui gli attori sono molteplici, tutti con una propria agenda. Russia ed Iran non sono d’accordo sul futuro di Damasco, mentre la Turchia è preoccupata dal rafforzarsi delle posizioni curde a nord di Raqqa e Mosul. L’atteggiamento statunitense non lascia presagire un maggiore impegno nella diatriba. È probabile che Trump, almeno nei primi mesi della sua presidenza, lasci mano libera ai russi in Siria per concentrarsi sul sostegno alle truppe curde e irachene nella battaglia contro l’Isis. Una strategia di questo tipo, unita alla riluttanza di Trump ad interfacciarsi con il presidente Erdogan, sempre più vicino ai sauditi, potrebbe spingere la Turchia ad un atteggiamento più assertivo.

Infine la strategia di Trump non potrà tralasciare l’Egitto del presidente al-Sisi. In rotta con l’Arabia Saudita per la divergenza di idee sul futuro della Siria, impegnato nel sostegno del generale Haftar in Libia e sempre più vicino alla Russia, l’ex Capo di Stato Maggiore egiziano è l’uomo da corteggiare, simbolo di una leadership vigorosa e secolarista della quale Washington ha un gran bisogno in Medio Oriente (sempre a patto che ci si prodighi nella incombente crisi idrica dovuta allo diminuzione dei volumi del Nilo).

SUD-EST ASIATICO

La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti è stata accolta con reazioni contrastanti dai governi del Sud-Est asiatico. Durante la sua campagna elettorale, il neo Presidente americano aveva annunciato che avrebbe posto meno enfasi sugli affari orientali, esortando gli alleati ad assumersi maggiori responsabilità in termini di difesa, ma non è tutto. Il revisionismo trumpiano applicato al “pivot to Asia” di Obama non si limiterebbe a considerazioni strategico-militari, ma potrebbe anche implicare un ripensamento dei suoi corollari, tra cui la Trans-Pacific Partnership (Tpp) attraverso la quale l’ex Presidente ha puntellato – non senza difficoltà – la leadership statunitense nel Pacifico, e in modo particolare nel Sud-Est asiatico.

In Vietnam, la notizia della vittoria del repubblicano ha generato preoccupazione che, quasi sicuramente, corrisponderà ad uno shift in politica estera dovuta al fatto che l’assenza degli Usa esporrà il Paese in misura maggiore all’assertività cinese, specialmente nelle porzioni contestate del Mar Cinese Meridionale. Al contrario, nelle Filippine, dove comunque l’espansione di Pechino è vista con sospetto, il presidente Rodrigo Duterte ha accolto la vittoria di Trump con tono conciliante dopo la levata di scudi contro il presidente Obama, reo di aver criticato alcune delle controverse politiche “anti-droga” del “Punitore”.

Se quindi, la politica di bilanciamento promossa dalla precedentemente Amministrazione americana sarà messa in discussione, c’è da aspettarsi che cambino anche i termini della cooperazione militare con ciascuno dei paesi coinvolti nella precedente strategia.

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La politica di bilanciamento di Obama. Credits: Dipartimento della Difesa Usa

Secondo Tim Huxley, direttore esecutivo dell’International Institute for Strategic Studies (Asia) di Singapore:

 If Hilary Clinton had been elected she would have not only continued the rebalance but perhaps rather turbo-charged it. We could have expected a much tougher policy on China in the South China Sea. A big question [about Trump] will be whether what he said in his campaign will carry through to policy, and I suspect it may do to some extent.”

È infine possibile cogliere un’ultimo elemento di probabile cambiamento nell’approccio americano alle relazioni con il Sud-Est asiatico. Negli ultimi anni, l’Amministrazione Obama era riuscita promuovere sensibilmente la cultura dei diritti umani all’interno di Paesi quali Indonesia, Malesia e Thailandia, usando la leva delle forniture militari, in ottica di bilanciamento e protezione dall’influenza cinese.

In cambio dell’introduzione di una serie di garanzie costituzionali infatti, anche paesi come il Vietnam sono riusciti a garantirsi l’accesso al mercato degli armamenti “made in Usa” usando come pretesto la necessità di incrementare le proprie difese marittime. Questo ha consentito a Washington di diventare il secondo più grande esportatore di armi (dopo la Russia) nel Sud-Est asiatico e garantirsi un mercato il cui valore è stimato per 8 miliardi di dollari l’anno. Con l’arrivo di Trump (e del suo fumoso “pragmatismo”), questa good practice potrebbe essere sostituita da un atteggiamento meno intransigente rispetto alle violazioni della Asean Human Rights Declaration, con un conseguente allentamento delle restrizioni alla vendita di armamenti nella regione.

di Paolo Iancale