Quanto ci costa rinunciare a Schengen?

rinunciare a Schengen
Credits: Srdjan Zivulovic - Reuters
Di Leonardo Stiz
La libertà di circolazione delle persone tra gli stati membri è stata uno degli avanzamenti più significativi dell’Unione Europea. Quello che è un pilastro fondante di questa comunità, tuttavia, viene oggi messo in discussione da alcuni stati per motivi di sicurezza. Ma le conseguenze della rinuncia a tali libertà, al di là delle questioni di principio, sono pericolose anche per ragioni molto più concrete. Quanto ci costa rinunciare a Schengen?

L’Accordo di Schengen fu firmato nell’omonima città lussemburghese nel 1985 tra Germania, Francia e Benelux. Le condizioni applicative sono state definite nella Convenzione di Schengen cinque anni dopo, alla quale aderirono via via altri paesi europei, fino alla sua incorporazione in seno all’UE avvenuta nel 1999 con il Trattato di Amsterdam. Da quel momento i contenuti dell’accordo sono diventati uno dei tratti maggiormente identificativi dell’Europa: abolizione dei controlli alle frontiere e piena libertà di circolazione per le persone tra gli stati membri. Oggi sei Stati europei (Francia, Germania, Croazia, Svezia, Danimarca e Austria) hanno temporaneamente sospeso il trattato di Schengen per motivi legati alla sicurezza, e a Bruxelles l’ombra di una sospensione permanente dell’accordo sembra destare preoccupazioni concrete. Al di là della pesante perdita in termini identitari che questo comporterebbe per l’Europa, tale svolta avrebbe conseguenze drammatiche sul piano economico e sui rapporti commerciali tra gli stati membri.

A calcolare i danni economici provocati da un’eventuale addio a Schengen ci ha pensato innanzitutto il think-tank governativo francese France Strategie, che stima complessivamente la perdita di circa 100 miliardi di euro l’anno. Gli scambi commerciali infra UE diminuirebbero in una misura calcolata tra il 10% e il 20%, il che equivarrebbe ad una tassa del 3% su tutti i beni trasportati, con un effetto pesantissimo sugli investimenti esteri dei paesi membri (28 miliardi in meno per la Germania, 13 per l’Italia). Il conto più salato lo pagherebbero i paesi più piccoli, (come la Slovacchia) maggiormente dipendenti dal commercio con i paesi comunitari, (70% dell’economia di Bratislava). I problemi si riscontrerebbero a tutti i livelli: i tir che trasportano le merci dovrebbero fermarsi per i controlli necessari ad ogni frontiera. Jean Claude Junker ha detto che ogni ora di ritardo per un tir equivale a una perdita di circa 55 euro, cifra che, moltiplicata per i circa 60 milioni di veicoli che attraversano almeno una frontiera ogni anno, si trasforma in un costo complessivo che supera i 3 miliardi di euro solo per i tempi di attesa: un freno destinato a pesare molto sulla crescita continentale.

Credits: The Independent

Un altro aspetto da considerare sono i costi per gli Stati. Per esempio, la Danimarca spende 150.000 euro al giorno per i controlli sul ponte che porta a Malmo, in Svezia. In un articolo uscito su Repubblica, si prevede che anche la sola ricollocazione di due agenti (il minimo sindacale) in ognuno dei 3100 posti di transito tra le frontiere dell’area Schengen costerebbe almeno 300 milioni all’anno, cifra che sarebbe in ogni caso sensibilmente maggiore viste le dotazioni richieste alle frontiere più trafficate, con ricadute pesanti sugli Stati con un elevato numero di paesi confinanti (la sola Germania ne ha nove), o con frontiere sensibili (come quelle che si affacciano sull’Europa dell’est e sulla Svizzera). Per non parlare poi dei danni relativi ai quasi due milioni di lavoratori “transfrontalieri”, che lavorano in uno Stato e risiedono in un altro, e alle persone che trascorrono qualche notte all’estero per motivi di business e non: si stima che l’addio a Schengen costerebbe fino a 5 miliardi di euro per queste categorie. Insomma, la medicina in questo caso potrebbe essere assai peggiore del male. E’ molto probabile infatti che l’onere totale che si soffrirebbe a livello comunitario risulti di gran lunga superiore ai costi di attuazione di una efficiente politica gestoria della questione migranti, nonché di controllo e investigazione sui foreign fighters, che per di più sono spesso già schedati.