Come sta andando la guerra in Yemen

Attacco aereo su un deposito di armi su una montagna che sovrasta la capitale dello Yemen, Sana'a. Credit to: Khaled Abdullah/Reuters
Attacco aereo su un deposito di armi su una montagna che sovrasta la capitale dello Yemen, Sana'a. Credit to: Khaled Abdullah/Reuters
Prosegue il conflitto in Yemen, tra la Coalizione a guida saudita, l’Iran, i ribelli Houti e Al-Qaeda, a spese della popolazione civile che vive una catastrofe umanitaria. Ma a che punto siamo?

Nel complicato scacchiere mediorientale, è in corso una guerra in larga parte trascurata dai media, ma cruciale per comprendere i rapporti di forza esistenti nella regione: la guerra in Yemen. Come avevamo visto qui, questo conflitto si inquadra all’interno della disputa geopolitica regionale tra Arabia Saudita (sunnita) e Iran (sciita).

Quando nel 2011 la Primavera Araba raggiunse lo Yemen, l’allora Presidente Saleh rispose, come altri suoi omologhi, reprimendo nel sangue le manifestazioni. Per fermare le violenze, il Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) propose un piano, appoggiato dall’ONU, che prevedeva le dimissioni di Saleh in cambio della sua immunità giudiziaria e della preservazione dell’apparato statale e dei servizi di sicurezza. Non solo: a Saleh fu concesso di restare nello Yemen, cosa che gli permise di continuare l’attività politica e di organizzare le forze armate a lui fedeli, indebolendo automaticamente il governo formatosi dopo di lui (presieduto dal Presidente Hadi, riconosciuto dalla comunità internazionale) e ostacolando i lavori della Conferenza di Dialogo Nazionale (che ha fallito i suoi propositi di riconciliazione a causa sia dell’inadeguatezza della sua politica, sia degli scontri interni e dei diversi interessi delle parti in causa).

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Nel 2014 i ribelli Houti, sostenuti con rifornimenti di armi e denaro, addestrati dall’Iran e spalleggiati dalle milizie fedeli a Saleh, hanno deposto con un colpo di stato il Presidente Hadi, occupando la capitale Sana’a. Per restaurare il governo del Presidente Hadi e arrestare l’avanzata degli Houti, il 26 marzo 2015 l’Arabia Saudita ha dato il via a un intervento militare in Yemen (operazione Decisive Storm, su richiesta del deposto governo di Hadi), guidando una coalizione di Paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Kuwait, Qatar, Giordania, Egitto, Marocco) a cui si è aggiunto il Sudan. Questi attori non sono gli unici coinvolti: forte è la presenza di al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), nel sud del Paese, e in parte anche dell’ISIS.

Zone di controllo in Yemen al 21/01/2016. Credit to: Reuters
Zone di controllo in Yemen al 21/01/2016. Credit to: Reuters

Dall’inizio dell’intervento militare saudita i bombardamenti della Coalizione non si sono mai fermati e stanno causando una catastrofe umanitaria; secondo Amensty International, sarebbero 1.4 milioni gli sfollati e circa l’80% della popolazione (25 milioni) necessiterebbe di assistenza. Secondo l’Alto commissariato ONU per i diritti umani le vittime civili sono circa 2.800. Infatti, sebbene l’obiettivo della Coalizione a guida saudita siano le milizie Houti e i loro depositi di armi, trovandosi questi in territori abitati, sono numerosi i casi documentati di strutture civili colpite dai raid aerei, così come sono documentati i crimini commessi dalle milizie Houti e dai sostenitori di Saleh. Per citarne alcuni, Medici Senza Frontiere denuncia attacchi indiscriminati contro i suoi ospedali da parte degli aerei della Coalizione, Human Rights Watch denuncia l’uso della Coalizione di munizioni a grappolo e l’uso di mine anti-uomo da parte degli Houti. Secondo HRW e come riportato dall’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani, gli Houti impiegherebbero artiglieria pesante e mortai contro la popolazione civile e più volte avrebbero ostacolato l’accesso di cibo e medicine ai quartieri non direttamente controllati da loro, come avvenuto a ottobre a Taiz, quando confiscarono un carico di medicine dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il 26 gennaio scorso una commissione dell’ONU ha pertanto chiesto al Consiglio di Sicurezza di aprire un’inchiesta sulle violazioni del diritto internazionale in Yemen. Sono peraltro già in atto contro gli Houti e le forze di Saleh sanzioni e un embargo sulle armi da parte dell’ONU, entrambe sancite dalla risoluzione S/RES/2216 (scadono il 26 febbraio 2016 ma saranno con ogni probabilità estese di un altro anno).

Strutture mediche di MSF colpite in Yemen tra ottobre 2015 e gennaio 2016. Credit to: MSF
Strutture mediche di MSF colpite in Yemen tra ottobre 2015 e gennaio 2016. Credit to: MSF

Per capire però cosa sta accadendo nello Yemen, occorre considerare che quello in corso è uno scontro regionale per il controllo strategico e politico del territorio. Dal punto di vista strategico, l’obiettivo primario della Coalizione è garantire il controllo dello stretto di Bab el-Mandeb, da cui passano ogni giorno circa 4 milioni di barili di petrolio diretti in Occidente. La sua chiusura renderebbe di fatto inutile il Canale di Suez, il che spiega anche l’intervento egiziano.

Dal punto di vista politico, la priorità saudita è arrestare l’espansione iraniana nella regione, che negli ultimi anni ha esteso la sua influenza. Il Generale iraniano Mohammad Bagherzadeh ha dichiarato: “I nostri confini [..] ora si estendono dallo Yemen al Mediterraneo”. Lo stesso sostegno militare agli Houti risale, secondo un rapporto ONU, al 2009. Da non sottovalutare anche il ruolo giocato dalla Russia, l’unica astenuta al Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione S/RES/2216 che invoca, tra l’altro, il ritiro delle milizie sciite degli Houti dai territori conquistati a cominciare dalla capitale Sana’a, la riconsegna delle armi e delle scorte missilistiche sottratte alle forze governative, la fine degli attacchi contro i civili e contro il governo legittimo. Mosca, pur non essendo direttamente coinvolta in Yemen, ha tuttavia condannato l’intervento militare saudita e non ha mai nascosto le sue simpatie per le milizie Houti. Ha inoltre ricevuto una delegazione del partito di Saleh, il quale si è anche recato più volte all’ambasciata russa di Sana’a, nella speranza di ottenere un maggiore sostegno.

Raid aereo su Sana'a, 11/05/2015. Credit to: Ibrahem Qasim
Raid aereo su Sana’a, 11/05/2015. Credit to: Ibrahem Qasim

Tuttavia, dal punto di vista militare, nessuno ha finora avuto la meglio: il 15 dicembre 2015 si sono aperti dei colloqui di pace in Svizzera, che si sono però rivelati un fallimento. I raid su Taiz e Sana’a contro gli Houti hanno raggiunto un nuovo picco in queste settimane, così come continuano i lanci di missili SCUD da parte degli Houti verso il territorio saudita; il 7 gennaio le truppe governative hanno riconquistato il porto di Midi, sul Mar Rosso, usato dagli Houti per spostare armi verso il nord. Nonostante ciò, gli Houti tengono saldamente il nord del Paese. A sud al Qaeda avanza lungo la costa meridionale avvicinandosi ad Aden e al suo golfo, crocevia di merci e petrolio. È ad Aden che si trova il deposto governo del Presidente Hadi, le cui forze armate sono impegnate nella controffensiva, coadiuvate dagli Apache e dai droni americani che, pochi giorni fa, hanno ucciso uno dei principali leader di al Qaeda, Jalal Baliedy, sospettato di aver intessuto un’alleanza con ISIS, che nel sud dello Yemen ha delle cellule in espansione.

Il 7 gennaio l’Iran ha accusato l’Arabia Saudita di aver colpito la sua ambasciata a Sana’a, accusa respinta da Ryadh che sostiene di aver centrato invece un obiettivo Houti nei pressi dell’ambasciata. La sede diplomatica iraniana è rimasta intatta, ma schegge provenienti dalla vicina esplosione avrebbero ferito alcune guardie. Questo episodio segue di pochi giorni l’esecuzione in Arabia Saudita del noto leader religioso sciita Nimr al-Nimr, cosa che ha portato all’assalto da parte di militanti sciiti dell’ambasciata saudita in Iran, con la conseguente sospensione dei rapporti diplomatici tra i due Paesi e il boicottaggio commerciale iraniano sui prodotti sauditi.

Il tutto mentre sul fronte siriano l’Arabia Saudita si è detta pronta a intervenire con truppe di terra nella lotta all’ISIS (che secondo Ryadh passa per la rimozione di Assad) e il dispiegamento di caccia nella base turca di Incirlik. In questo scenario, qualunque soluzione appare lontana.

di Samantha Falciatori