Ve lo ricordate il Sud Sudan?

The Sudan People's Liberation Army (SPLA) soldiers stand at attention at a containment site outside Juba on April 14, 2016. The soldiers at the site are the Tiger Battalion of the presidential guard consisting of a total of 700 soldiers. The site is about 30 km outside of Juba as per the transitional security arrangements of the South Sudan peace agreement. The demilitarisation of Juba is an important part of the peace agreement of the cessation of hostilities signed in August 2015 and seen as a way forward to forming the transitional government of national unity. This has also been a sticking point before the return of Rebel leader Riek Machar who is due to be sworn in as the country's Vice President. / AFP / cds / CHARLES LOMODONG (Photo credit should read CHARLES LOMODONG/AFP/Getty Images)
Si era detto che quanto accaduto in Ruanda non sarebbe dovuto mai più accadere: ora c’è il serio rischio che possa ripetersi un terribile genocidio in Sud Sudan. Serve un appello alla comunità internazionale per evitarlo.

Noi di Zeppelin ci siamo occupati diverse volte del Sud Sudan e del conflitto civile di cui questo (nuovo) Paese è vittima da ormai tre anni. Abbiamo messo in evidenza i motivi dei cruenti scontri che si verificano dal 2013 e parlato delle due personalità che si contendono il potere – ovvero Salva Kiir e Riek Machar, rispettivamente Presidente e Vicepresidente di quello che si può definire a tutti gli effetti un “nuovo stato fallito”. Abbiamo anche sottolineato che esistono profonde differenze etniche (in Sud Sudan ci sono 60 clan diversi, che vengono strumentalizzate ad arte dalle parti in conflitto) e allo stesso modo abbiamo ripreso le rivelazioni e le contraddizioni emerse dal report di The Sentry, l’organizzazione creata e sostenuta da George Clooney e John Prendergast, nel quale si parla delle enormi ricchezze che Kiir, Machar (e le relative famiglie), hanno accumulato nel corso del conflitto e quasi totalmente portato all’estero.

La comunità internazionale sembra non essere molto interessata alla questione: volta lo sguardo dall’altra parte e non si mobilita neanche quando è l’ONU, la principale istituzione internazionale, a richiamarla.

A metà novembre, Adama Nieng, consigliere speciale dell’ONU per la prevenzione del crimine di genocidio ha avvertito il Consiglio di Sicurezza che in Sud Sudan si stavano manifestando “tutti quei segnali di odio etnico ed uccisione indiscriminata di civili che possono condurre ad un genocidio”. Una delegazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Uniti per i diritti dell’uomo si è recata in alcune località del nord del Paese per incontrare i rappresentanti del governo, ed ha redatto un rapporto allarmante sull’evoluzione della situazione, in particolare nella regione di Central Equatoria.

Il capo delegazione dell’ONU ha paragonato quanto sta accadendo adesso in Sud Sudan a quanto è accaduto nel 1994 in Ruanda, ammonendo la comunità internazionale e invitandola ad intervenire per evitare il ripetersi delle terribili atrocità avvenute più di venti anni fa nell’altro Paese africano. Al termine di difficili negoziati, l’ONU ha deciso di estendere il mandato della propria missione UNMISS, che dovrebbe passare da 13mila a 17mila soldati impegnati, fino al 15 dicembre del 2017. Inoltre sono stati intensificati i pattugliamenti nei dintorni dei Punti di Protezione dei Civili (POC), in passato accusati di scarsa affidabilità.

Naturalmente il Governo sud sudanese, per bocca del suo Presidente Salva Kiir, ha negato ogni tipo di accusa, benché contraddetto dai fatti: dall’inizio del conflitto civile nel 2013 almeno 1 milione di persone ha abbandonato il Paese, mentre si stima che almeno un terzo dei suoi 12 milioni di abitanti abbia bisogno di un accesso urgente all’alimentazione.

Celebrazioni nella capitale Juba per l’indipendenza del Paese, celebrata nel 2011. Giorni che sembrano molti lontani – credits: Reuters/Thomas Mukoya

Il presidente Salva Kiir, messo alle strette dai paesi vicini, ha pronunciato un discorso alla tv, nel quale ha chiesto alla popolazione di essere perdonato per eventuali errori commessi, mentre alle forze di opposizione ha intimato di riprendere il dialogo di pace interrotto, ripartendo dagli accordi disattesi del 2015 e includendo tutti gli attori possibili.

È proprio dagli accordi dell’Agosto 2015 che la situazione è precipitata verso il baratro, costringendo uno dei due firmatari, Riek Machar, a fuggire dal Paese per sfuggire a morte certa. Costretto dagli eventi a stare lontano dal Sud Sudan, l’ex Vicepresidente negli ultimi mesi si è spostato da Addis Abeba a Khartoum, per finire a Pretoria, in Sud Africa, alla ricerca di supporto esterno. Negli ultimi giorni si sono rincorse le voci, benché smentite, che Machar sia stato posto agli arresti domiciliari nella capitale amministrativa sudafricana, per impedirgli di interferire con le future decisioni politiche.

In questo marasma politico, le violenze commesse dalle due principali etnie del Paese i Dinka e i Nuer ricordano, in maniera inequivocabile, le medesime atrocità commesse In Ruanda dagli appartenenti all’etnia Hutu nei confronti dei Tutsi (e per certi versi quello che è successo in Burundi).

In quei terribili cento giorni di Aprile del 1994, in Ruanda, non vi erano eventi concomitanti che potessero distogliere l’attenzione della comunità internazionale e, in un certo senso, “giustificarne” la disattenzione. Adesso, l’attenzione del mondo è tutta concentrata sul conflitto siriano, sulla drammatica situazione della popolazione civile ad Aleppo, sulle minacce del terrorismo di marca jihadista, sulla politica estera in fieri del nuovo presidente americano Donald Trump e sulle difficoltà dell’Unione europea: di conseguenza, del Sud Sudan ci si interessa poco.

In passato, però, si erano fatte delle promesse. Si era detto che quanto accaduto in Ruanda non sarebbe dovuto mai più accadere. Lo avevamo giurato, nuovamente; quando nelle nostre case erano arrivate, tremende, le immagini del massacro di Srebrenica; stiamo nuovamente disattendendo il nostro giuramento, proprio in questi giorni, ad Aleppo.

Per una volta, proviamo a mantenere le promesse. Facciamo che tutto ciò non accada, ancora, in Sud Sudan.

di Danilo Giordano