A che punto siamo con il TTIP

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di Isabella Querci
Il TTIP è il “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, cioè l’accordo commerciale internazionale oggetto di negoziazione tra Unione Europea e Stati Uniti, destinato a regolare i futuri rapporti economici tra due delle aree più sviluppate al mondo. Dopo 10 anni di preparazione, nel 2013 è iniziata la fase negoziale. A che punto siamo e di cosa parliamo?

L’Unione, nell’esercizio delle proprie competenze, ha già concluso in passato decine di trattati di questo tipo, e un’altra decina è attualmente sui tavoli dei negoziatori: perché, allora, il TTIP è così spesso oggetto di attenzione? Una prima risposta può essere trovata nell’oggetto dell’accordo. In primo luogo, il Trattato coinvolgerebbe 820 milioni di cittadini di quei paesi, (Usa e Ue), che assieme si dividono quasi il 50% del PIL mondiale. Con il TTIP si vuole creare una cornice giuridica di libero commercio tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, ovvero abbattere e uniformare gran parte delle barriere tecniche e normative per lo scambio di merci, servizi e investimenti. La battaglia ideologica che si consuma in questo contesto non è una novità: è quella che vede storicamente contrapposti il rifiuto di fare “mercimonio della cosa pubblica” – versus – la promessa di creazione di posti di lavoro, l’aumentata possibilità di scelta per i consumatori e la crescita economica. L’accordo in discussione, ad esempio, aprirebbe alla possibilità per aziende americane di partecipare agli appalti pubblici in Europa (e viceversa). Una convenzione di portata amplissima quale il TTIP avrà quindi importanti effetti generali.

L’Unione Europea, che si adopera per “un’economia sociale di mercato fortemente competitiva” (art.3.3 del Trattato Sull’Ue), ha uniformato le politiche economiche dei suoi Stati membri, riducendo progressivamente le possibilità di interventi statali nell’economia. Alla luce del principio di mutua fiducia e mutuo riconoscimento, il prodotto, servizio, titolo etc originario di uno Stato membro dell’Unione deve poter circolare liberamente in tutti gli altri, senza controlli sistematici da parte degli Stati destinatari – vista l’omogeneizzazione degli standard normativi – e, pertanto, senza che questi ultimi possano adottare misure “protettive” per il proprio mercato interno o limitative per l’importazione dei prodotti stranieri. Una libertà che permette, a chi lo desideri, di comprare pomodori olandesi, coltivati in serra, a novembre. I vantaggi del mercato liberalizzato esistono e sono allettanti: l’Europa ci ha regalato benessere, una mobilità unica su scala globale e un intero catalogo di norme protettive (pensiamo solo al Codice del Consumo) che prima non conoscevamo e che, giocando la partita internazionale come solo Stato nazionale, non avremmo mai conosciuto.

Non di meno, il TTIP solleva importanti preoccupazioni. Di seguito cercheremo di analizzarne alcune, in attesa del prossimo round negoziale, il dodicesimo, che dovrebbe tenersi tra gennaio e febbraio 2015. Alcuni commentatori individuano come possibile data di adozione del testo definitivo la metà del 2016 ma, a livello di fonti ufficiali, non è possibile reperire una data prefissata.

[ecko_alert color=”gray”]Il meccanismo di soluzione delle controversie[/ecko_alert]

Sulla base di accordi internazionali, la società che investe in uno Stato può citarlo in giudizio, se questi modifica la propria legislazione e quindi le condizioni in base al quale l’impresa opera sul territorio: un esempio molto noto è quello del tabacco. Philip Morris ha citato in giudizio l’Uruguay dopo che questi aveva loro imposto di imprimere sui pacchetti di sigarette messaggi che ne disincentivassero il consumo. Non a caso, uno degli aspetti del TTIP che più ha turbato le coscienze di alcuni cittadini europei è l’Investor-State Dispute Settlement (ISDS), un ipotizzato meccanismo di soluzione delle controversie tra, appunto, investitori e Stati. Questa opzione è stata interpretata come una sottrazione allo Stato della sua potestà legislativa e, quindi, lesiva della sua sovranità statale. Se lo Stato fosse esposto a responsabilità per i danni che crea alle imprese con la propria legislazione, si dice, esso avrebbe potuto scontare decisioni a favore di compagnie straniere.

credit: cirexpresslogistics.com
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In luglio, il Parlamento europeo ha sancito, in una delle consultazioni periodiche con il Consiglio sul TTIP, che l’ISDS non s’ha da fare. La principale preoccupazione, con riferimento all’istituzione di una corte di questo tipo, è destata dalla composizione arbitrale della stessa, ovvero della possibilità di demandare a soggetti nominati (e pagati) dalle parti la composizione della controversia. In conseguenza, nell’ambito del round negoziale del 12 novembre la Commissione Europea ha proposto la sostituzione della camera arbitrale con una Corte permanente, composta da giudici professionali, detta Investment Court System (ICS). Il testo della proposta, particolarmente articolato è pubblico, e prevede un sistema di appello delle decisioni dell’ICS, pubblicità obbligatoria di queste ultime e la massima trasparenza sui criteri adottati dai giudici, oltre che il diritto per i terzi interessati di intervenire formalmente nella procedura. Probabilmente la parte più interessante della proposta riguarda la regolamentazione dei casi in cui all’investitore è concessa la possibilità di ricorrere alla Corte: non ogni intervento lesivo dell’investimento, infatti, potrà dar àdito a un procedimento per accertare la responsabilità dello Stato o dell’Unione (a seconda del settore di specifica competenza) ma saranno oggetto di valutazione da parte dell’ICS solo provvedimenti discriminatori, di esproprio senza adeguata compensazione o in caso di diniego di giustizia, come già accade nelle giurisdizioni nazionali.

[ecko_alert color=”gray”]I servizi di pubblica utilità[/ecko_alert]

Secondo alcune interpretazioni della “legge del mercato”, un servizio che non assicura un guadagno a chi lo offre deve essere modificato o cessato. Altrettanto, però, alcuni servizi operano in cronica perdita, come la sanità, l’istruzione (come già detto, esclusi ma sostanzialmente riguardati dall’accordo), i trasporti in determinate aree, che pertanto dovrebbero essere ridimensionati. Un punto di vista magistrale (e partigiano) sulle pesanti ricadute di una tale impostazione lo ha dato Jean Ziegler:

uno Stato che smantella volontariamente i suoi servizi pubblici più essenziali e trasferisce al settore privato i compiti che rispondono a un interesse collettivo, sottomettendoli così alla legge della massimizzazione del profitto, costituisce uno Stato fallimentare (La privatizzazione del mondo, Marco Tropea Editore, 2014).

Se, da un lato, il concordare – o meno – con Ziegler è una questione di fede individuale, non si deve dimenticare che sia nel sistema dell’Unione sia in quello del TTIP sono previste importanti deroghe alla liberalizzazione di questi servizi. Infatti, in un contesto come quello dell’Unione, dove gli aiuti di Stato sono regolati, e dove vige il principio del “trattamento nazionale”, non mancano i correttivi, qualificati come “aiuti a carattere sociale”, in caso di calamità, con riguardo a zone e attività meno sviluppate, e così via (per gli appassionati dei dettagli, vedere qui). Lo stesso vale per il TTIP. Altrettanto, l’esistenza di una possibilità di deroga (già esistente nelle legislazioni nazionali) pone alcuni quesiti che andranno risolti caso per caso, tenendo a mente che una eventuale privatizzazione su larga scala delegittima l’imposizione fiscale per il mantenimento del servizio pubblico e accentua il divario sociale tra chi può accedere al “trattamento privato” e chi invece rimane costretto a rivolgersi alla comunità per il soddisfacimento dei propri bisogni.

Uno studio particolarmente completo sull’impatto del TTIP sui servizi di pubblica utilità è disponibile online.

[ecko_alert color=”gray”]Industrie specifiche, particolarità geografiche e piccole imprese[/ecko_alert]

Il TTIP riguarda anche un ampio numero di settori produttivi, i cui risultati dovrebbero essere oggetto di immissione reciproca nei mercati europeo e statunitense e di comune regolamentazione tra le parti: chimicocosmeticoingegneristicostrumentazione ad uso medicopesticiditecnologie d’informazionefarmaceuticotessile e dei mezzi di trasporto. Uno dei timori più diffusi è che la qualità minima richiesta dalle norme tecniche sul prodotto verrà abbassata, lasciando circolare beni di consumo dai bassi standard di salubrità e sicurezza, nell’ottica di far sì che sia il mercato a premiare i migliori rapporti tra costo e qualità. Questo potrebbe essere l’aspetto più critico del sistema TTIP: aprendo il mercato europeo alle imprese e ai prodotti “made in the US”, gran parte degli equivalenti europei rischierà di incorrere in importanti perdite. L’Unione ha proposto un sistema di protezione delle indicazioni di origine geografica ma, sul punto, la distanza tra i negoziatori è ancora grande. D’altra parte, se si creasse un sistema in grado di proteggere i prodotti tipici, sarebbe un’ottima occasione per l’Europa, e soprattutto per l’Italia, visto che darebbe la possibilità di proteggere giuridicamente i prodotti italiani da quelli “Italian sounding” provenienti da tutto il mondo.

Un’altra, ancorché correlata, questione è quella della sicurezza alimentare, un tema particolarmente caro all’Unione, soprattutto in tema di OGM, sul quale gli Stati Uniti sono decisamente meno sensibili. Sul punto, l’opinione pubblica ha avanzato pressioni notevoli, catalizzate da aspetti come la possibilità di commercializzare in Europa carni bovine trattate chimicamente o alimenti agricoli geneticamente modificati. Allo stato attuale dei negoziati l’Europa dovrà cambiare il proprio approccio agli OGM (cosa che probabilmente avrebbe dovuto fare comunque in futuro). Sul punto, i negoziati sono ancora in corso e una fitta serie di consultazioni con gli stakeholder, pubblici e privati, è attualmente in calendario, oltre a una serie di strumenti di interpello alla popolazione, tramite i social network.

In un sistema in cui è la “legge del mercato” a determinare chi prospera e chi invece soccombe, aumenta il rischio di perdere la particolarità (geografica, artigianale, in tecniche di lavorazione…), o di assistere a un generale abbattimento qualitativo della produzione.

Sicuramente, ed è noto, l’eccellenza italiana è apprezzata, e ci sono settori in cui la nostra competitività non ha eguali, pensiamo all’agroalimentare o alla moda, che dovremmo essere in grado di esportare efficacemente tramite strutture e infrastrutture adeguate su scala decisamente più ampia. Anche a questo, in effetti, servono i trattati sul commercio internazionale come il TTIP che, pertanto, potrebbe creare opportunità per il nostro paese.

[ecko_alert color=”gray”]C’è sempre una soluzione (o una speranza)[/ecko_alert]

Come ha rilevato Jean Ziegler, vivere consapevolmente e praticare l’auto responsabilità sono strumenti molto potenti. Una volta in vigore la “legge del mercato” l’ultima parola spetta a chi acquista e, in questo, il consumatore (consapevole) si può riappropriare del suo diritto all’autodeterminazione e può contribuire a determinare la sorte ultima delle inevitabili pianificazioni globali.