Ascesa e declino delle grandi potenze

“Ascesa e declino delle grandi potenze” compie trent’anni nella sua edizione italiana e resta un classico delle relazioni internazionali, indispensabile per capire l’avvicendarsi storico delle grandi potenze europee, oltre che per comprendere la fine della centralità europea e l’inevitabile spostamento del baricentro della politica internazionale verso altre aree del sistema mondo, sud est asiatico e Cina soprattutto.


Il libro “Ascesa e declino delle grandi potenze” dello storico britannico Paul Kennedy, pubblicato nel 1987 e nel 1989 nella sua edizione italiana, è stato tra i testi di maggior successo all’interno dello studio delle relazioni internazionali e della storia delle relazioni internazionali, in particolare per quanto riguarda lo studio delle relazioni tra le grandi potenze e come esse abbiano influenzato l’equilibrio di potenza nel sistema internazionale dal sedicesimo secolo fino all’equilibrio bipolare tra le superpotenze statunitense e sovietica.

Tramite l’analisi storica del comportamento militare delle grandi potenze mondiali, dagli Asburgo fino alle cinque maggiori potenze degli anni ottanta del novecento, Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina Giappone ed Europa, l’autore tenta di descrivere i motivi che portano al declino relativo delle varie potenze successivo al loro tentativo di lotta per l’egemonia. Per analizzare tale comportamento l’autore delinea una tesi sviluppata sostanzialmente in tre punti principali.

In primo luogo, la considerazione che la forza relativa delle potenze dominanti in un dato sistema internazionale non sia mai costante, a causa principalmente dell’ineguale tasso di crescita delle diverse società che contraddistinguono il sistema e del progresso tecnologico, anch’esso non uguale da attore ad attore e che pertanto favorisce determinate società più di altre in modo non omogeneo. In secondo luogo, viene riconosciuta l’importanza della potenza militare per sostenere sia lo status di grande potenza sia la pretesa di competere per l’egemonia del sistema internazionale. Il potere militare, tuttavia, risulta rischioso e potenzialmente fatale per le sorti di una grande potenza; destinando infatti una eccessiva percentuale della propria ricchezza per mezzi e scopi militari, si può arrivare ad un indebolimento della potenza nazionale nel suo complesso. Ne deriva quindi il terzo punto della tesi investigata dall’autore, secondo cui qualora uno stato si estenda eccessivamente, tramite conquiste militari, può incorrere nel rischio che i benefici di tale allargamento territoriale siano inferiori ai costi sostenuti per mantenerlo, una ipotesi in linea con alcuni significativi studi sul mutamento del sistema internazionale.

In questo senso, quindi, è possibile secondo l’autore individuare una serie di conseguenze analitiche da queste tre ipotesi iniziali. La prima è che esista una relazione causale tra i cambiamenti degli equilibri economici e la posizione delle potenze nel sistema internazionale.

Cambiamenti economici, come lo spostamento dei flussi commerciali da un area marittima ad una oceanica, possono quindi favorire una potenza piuttosto che un altra, spostando gli equilibri di potere a vantaggio di alcune nazioni e a scapito di altre. La seconda conseguenza che l’autore fa derivare dalle proprie ipotesi iniziali è che esista una connessione tra l’ascesa ed il declino economico di una nazione e la conseguente ascesa e declino del proprio potere militare. In quest’ottica, l’autore dà alla propria ricerca un taglio riconducibile ai filoni realisti dello studio della teoria delle relazioni internazionali, considerando quindi come primari fattori materiali come la crescita economica in relazione allo sviluppo del proprio potere relativo nella gerarchia sistemica, e tralasciando dunque altri fattori, culturali ed ideologici, ripresi invece da altri filoni della teoria internazionalistica.

Proprio per quanto riguarda la considerazione che il potere, sia economico che militare, sia centrale nella comprensione dell’equilibrio internazionale, viene individuata la terza conseguenza dalle ipotesi iniziali, vale a dire una concezione non assoluta del potere ma relativa alla presenza o al grado di vicinanza di altre potenze; ne deriva che una nazione che aspiri alla lotta per l’egemonia del sistema internazionale deve valutare il proprio potere in senso non assoluto, ma relativo al grado di potenza economica e militare dei propri rivali.

In ultimo l’autore sostiene, coerentemente con la propria visione dei conflitti internazionali improntata sulla quantificazione del potere materiale, che nelle guerre di coalizione fra potenze la vittoria è tendenzialmente più probabile per le coalizioni al cui interno vi sia una somma risorse più elevata, in grado quindi di consentire ai membri di tale coalizione una capacità di azione maggiore rispetto agli avversari.

Un ultimo aspetto interessante è la definizione di ciò che il libro si propone di descrivere, e quindi ciò che questo lavoro non sostiene. In primo luogo l’autore, coerentemente con la propria formazione di storico più che di teorico delle relazioni internazionali, non intende costruire una teoria che spieghi le molteplici tipologie di relazione fra le grandi potenze dei vari sistemi internazionali, rinunciando quindi ad una visione normativa del comportamento degli attori. All’interno di questo volume non si riscontra quindi né la costruzione di una teoria che leghi lo scoppio di conflitti ai cicli egemonici, né una teoria generale delle cause della deflagrazione della guerra. Inoltre, la ricerca svolta dall’autore non si occupa dichiaratamente della natura politica dei regimi interni e degli imperi e dei grandi stati nazionali che durante l’arco temporale analizzato si sono avvicendati nella lotta per l’egemonia sistemica, altro punto che alcune teorie delle relazioni internazionali di seconda immagine invece si propongono di considerare per spiegare i comportamenti degli attori. Ne consegue quindi che non vi sia all’interno di questo lavoro alcuna considerazione qualitativa riguardo la costruzione di una teoria che definisca quale tipo di regime politico sia migliore rispetto ad altri nella conduzione dei conflitti internazionali, e quindi quale tipo di società sia preferibile per una potenza che aspiri all’egemonia del sistema internazionale.

Ciò di cui si occupa questo libro è dunque un’analisi empirica delle relazioni fra grandi potenze, cercando di individuare attraverso lo studio delle capabilities materiali i motivi dell’emergere di una o più polity all’interno del dato sistema internazionale, contestualizzando le caratteristiche storiche degli attori prevalenti e descrivendo quindi perché le potenze emergenti hanno di volta in volta tentato di raggiungere l’egemonia ed i contingenti motivi per cui tale tentativo sia fallito.

Alla considerazione delle caratteristiche degli attori dominanti nei vari sistemi internazionali dal sedicesimo secolo agli anni ottanta del novecento è dedicata l’analisi centrale del libro. In particolare, il primo e l’ultimo capitolo risultano di grande interesse. Il primo capitolo è infatti dedicato ad una comparazione dei principali imperi che nel cinquecento occupano le posizioni dominanti della gerarchia internazionale, la Cina dell’impero Ming, l’impero ottomano, l’impero Moghul, il regno di Moscovia, il Giappone imperiale e l’Europa frammentata nel suo complesso.

I principali imperi nel mondo del 1500

In questo capitolo, è di grande interesse la tesi che l’autore sostiene per descrivere i motivi che, contro intuitivamente, hanno portato il continente europeo a primeggiare in questo secolo e a dominare il sistema internazionale nei secoli successivi. È difatti la grande frammentazione politica delle polity europee a permettere la creazione di una spirale di progresso tecnologico, economico e militare impossibile per gli altri imperi dominanti, maggiormente chiusi alla crescita tecnologica e militare per via della loro relativa unità politica e, dunque, meno propensi alla competizione a cui sono invece costretti gli attori di un sistema frammentato.

Tale frammentazione europea impedisce quindi la creazione di un impero unitario, sia per la particolare conformazione geografica del continente europeo sia per l’incapacità di tutti gli attori continentali di avere le risorse necessarie a dominare gli altri. Queste caratteristiche spingono gli attori europei ad una intensificazione degli scambi commerciali, favoriti dalla grande diversificazione delle merci, a sua volta favorita dalla grande varietà dei climi europei, diffondendo così un più raffinato sistema bancario e creditizio. Aumentando il commercio, aumenta anche la propensione alla crescita tecnologica, soprattutto navale, nonché la propensione al progresso militare in campo marittimo dovuto alla competizione fra gli attori, consentendo al continente europeo di gettare le basi per il dominio sul sistema internazionale nei successivi secoli. I successivi capitoli vedono invece l’analisi delle lotte delle varie potenze all’interno del continente europeo per l’egemonia sia continentale, sia globale. In primo luogo, l’autore analizza il tentativo degli Asburgo di dominare il continente, un tentativo inizialmente giustificato dalla forza relativa di tale attore, che può contare su una disposizione di potere sufficiente per tentare il raggiungimento dell’egemonia continentale, unendo le forze materiali derivanti dai possedimenti sia spagnoli che del Sacro Romano Impero. Tale tentativo viene però contrastato sia dalla Francia, sia dal Papato, sia dei Principi tedeschi, configurando così una situazione di bilanciamento di potere tipica dell’equilibrio di potenza, bilanciamento che si converte nello scoppio della guerra dei trent’anni, fomentata anche da motivi religiosi, la cui fine segna la definitiva sconfitta degli Asburgo e la loro rinuncia all’egemonia continentale.

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Le dominazioni asburgiche in Europa, una delle grandi potenze in lotta per l’egemonia del continente, all’epoca di Carlo V

Con l’affermazione dello stato nazione in Europa, aumenta la capacità degli attori di migliorare le proprie risorse economiche e militari, capacità questa favorita dalla maggiore efficienza della forma statale nel riscuotere tributi necessari ad accrescere il proprio potere relativo. In questa particolare fase della lotta continentale, sono Francia ed Inghilterra a contendersi l’egemonia. È proprio questa lotta secolare per l’egemonia a favorire l’avvento di nuovi attori, in primo luogo la potenza statunitense, le cui risorse economiche risultano, all’inizio del novecento, incomparabilmente maggiori rispetto alle potenze europee, che vedono nei due conflitti mondiali la perdita definitiva della possibilità di dominare il sistema internazionale in favore delle superpotenze continentali, Stati Uniti ed Unione sovietica. Tuttavia, anche il dominio delle due superpotenze inizia, negli anni settanta, un processo di relativo declino; tale processo è dovuto principalmente alla necessità per le due superpotenze di dover acquisire un’ottica globale, e dunque di occuparsi dei propri interessi su scala globale, oltre che all’aumento vertiginoso delle spese militari per sostenere la competizione nucleare. Tale declino viene inoltre accentuato dalla ripresa degli stati europei e dall’aumento della loro competitività in ottica internazionale grazie alla formazione della Comunità Economica Europea, all’aumento della produzione da parte dei paesi del terzo mondo, e dalla ascesa di nuove potenze, in primo luogo Cina e Giappone. Sotto quest’ottica, l’ultimo capitolo del libro si occupa proprio di formulare alcune previsioni riguardo l’andamento futuro dell’equilibrio internazionale. L’autore individua le debolezze e i punti di forza delle cinque maggiori potenze dell’epoca, Stati Uniti, Unione sovietica, Europa, Cina e Giappone, tentando di individuare quali possibili scenari possano configurarsi negli anni novanta in considerazione delle capacità di ognuna di esse.

Questa analisi risulta la più interessante del libro, e riflette la prima qualità di questo volume, vale a dire la grande capacità predittiva che il lavoro dell’autore riesce ad avere all’interno dell’ultimo capitolo, capacità che ha reso tale lavoro uno dei più importanti volumi sullo studio delle relazioni fra grandi potenze anche dopo la fine della guerra fredda. In primo luogo, l’autore riconosce con grande lucidità quanto il declino delle due superpotenze sia differente, molto più consistente quello dell’Unione sovietica, strozzata da inefficienze produttive dovute anche a fattori politici dovuti prevalentemente al proprio regime interno; dal lato del declino statunitense, viene riconosciuto dall’autore che il declino sia effettivamente presente, ma rispetto al proprio avversario tale declino sia meno grave, e dovuto prevalentemente alla sovra esposizione della superpotenza americana a molteplici impegni su scala globale, mentre l’economia statunitense versa in condizioni migliori di quella sovietica, mantenendo difatti un grado maggiore di efficienza ed essendo principalmente minacciata dalle economie emergenti sulla produzione di alta tecnologia, minaccia che viene prevalentemente dalla potenza giapponese.

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Il budget destinato alla spesa militare statunitense resta incomparabilmente il più elevato al mondo. U.S. Department of Defense, 2019

In secondo luogo, altro grande pregio del libro è la capacità di riconoscere la potenza cinese, e non quella giapponese, come la più propensa a svilupparsi a livelli tali da poter competere in futuro per l’egemonia. Difatti, l’autore riconosce con meritevole anticipo la maggiore possibilità della Cina a diventare una grande potenza completa rispetto sia a Giappone, le cui risorse geografiche e di popolazione non sono sufficienti, sia all’Unione europea, eccessivamente divisa al suo interno per poter diventare un’effettiva grande potenza militare.

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[Foto: Getty Img.]

Tale considerazione rappresenta uno dei pregi maggiori di questo lavoro, in considerazione delle analisi sviluppate immediatamente dopo la fine del bipolarismo, che vedevano nel Giappone e nell’Unione europea i più probabili competitori della superpotenza statunitense. Dal punto di vista dei punti deboli del volume, è da sottolineare una sottostima significativa di fattori differenti dalle capacità materiali a disposizione delle grandi potenze, in primo luogo i fattori culturali ed ideologici, considerati invece essenziali in altri studi classici delle relazioni internazionali contemporanee, in primo luogo nella riflessione di Raymond Aron sulla distinzione dei sistemi internazionali in omogenei ed eterogenei.

Tuttavia va riconosciuta all’autore, come accennato precedentemente, la volontà di non costruire una formulazione teorica delle relazioni fra potenze egemoni, ma piuttosto di analizzare tali relazioni tenendo conto solo di determinate caratteristiche, maggiormente rilevabili, che descrivessero il processo di ascesa e declino in relazione alle capacità economiche degli attori. Secondo questa modalità di ricerca, quindi, è pienamente giustificabile la scelta di considerare solo le risorse di potenza materiali a disposizione degli attori, ed è quindi comprensibile la decisione di non allargare la ricerca considerando anche fattori non calcolabili.

“Ascesa e declino delle grandi potenze” resta un classico delle relazioni internazionali, indispensabile per capire l’avvicendarsi storico delle grandi potenze europee e per capire la fine della centralità europea e l’inevitabile spostamento del baricentro della politica internazionale verso altre aree del sistema mondo, sud est asiatico e zone cinese soprattutto.

di Federico Maiocchi