Come cambia l’U.S. Army

Staff Sgt Aaron Allmon Ringraziamenti:1st Combat Camera Dep.

Prendere in considerazione una discussione riguardante l’Esercito degli Stati Uniti richiede di approfondire una serie di tematiche che lo hanno coinvolto dai primi anni 2000, nonché tenere in considerazione gli ulteriori mutamenti che già da qualche anno lo vedono protagonista. Ciò da una molteplicità di punti di vista, sebbene questi possano essere principalmente racchiusi all’interno degli ambiti organizzativi, operativi e tecnologici.


L’U.S. Army risulta essere tra i quattro primari servizi armati “a stelle e strisce” il più corposo dal punto di vista numerico, contando infatti all’incirca 476.000 soldati appartenenti alle forze attive, ossia i soldati in servizio permanente.

A questi si devono aggiungere altri due grandi gruppi: la Riserva dell’Esercito, la cui composizione si sostanzia in soggetti che hanno firmato un contratto che li impegna con compiti part-time per un week-end al mese e due settimane annuali (benché potrebbero essere posti in servizio attivo in caso di esigenza, es. un conflitto) e la Guardia Nazionale. Quest’ultima ha una storia e struttura particolare, dato che agisce nel duplice ruolo di forza federale quando richiamata dal Presidente attraverso il suo Segretario alla Difesa, in particolare in caso di emergenza nazionale o di conflitto, oppure di milizia statale agli ordini dei governatori.

Soldati americani in addestramento – Credits Sgt. Richard Wrigley

Infatti, la loro origine risale addirittura alla Guerra Rivoluzionaria contro il Regno Unito, momento dopo il quale è rimasta la forza primaria da impiegare nel caso i territori statunitensi subissero un’invasione da parte di una potenza straniera o utile in situazioni di gravi problematiche statali (emergenza naturali come uragani/tornado oppure seri disordini dell’ordine pubblico). Non a caso, le unità della Guardia Nazionale (di cui esiste anche la versione aerea, facente parte dell’USAF) sono comandate nei singoli stati da cosiddetti Aiutanti Generali, il responsabile ultimo all’interno della catena di comando militare. La loro composizione si basa anch’essa su soldati part-time, sottratti alla loro vita e impieghi civili per un certo numero di giorni all’anno.

In ogni caso il totale numerico degli appartenenti alla Riserva si attesta attorno alle 200.000 unità, quasi esclusivamente incentrate nelle funzioni di CSS (Combat Service Support), ovvero di logistica, mentre la Guardia ha poco più di 340.000 membri rientranti in tutte e tre le categorie esistenti: forze di manovra; CS (Combat Support), cioè aviazione, artiglieria, etc.; e CSS. Di conseguenza, l’Esercito degli Stati Uniti raggiunge una cifra globale pari a poco più di un milione di uomini e donne.

Corsa ad ostacoli durante la U.S. Army Europe Expert Field Medical Badge examination in Germania (2012) – Credits: Visual Information Specialist Gertrud Zach

ORGANIZZAZIONE

La caratteristica principale che accompagna il suddetto servizio da una quindicina di anni è il suo mutamento strutturale; un compito di per sé già piuttosto complicato da attuare. Ma in che risiede tale mutamento?

Sostanzialmente alla fine degli Anni ’90 il Pentagono decise che a fronte dei mutati equilibri geopolitici e della sostanziale scomparsa di avversari di pari livello, l’organizzazione che aveva retto la principale forza terrestre delle Forze Armate nel corso del dopoguerra e sino alla caduta dell’Unione Sovietica dovesse essere modificata. In particolar modo si decise di abbandonare il tradizionale ordine divisione-centrico, basato sul fatto che in caso di dispiegamento oltremare le unità subordinate lo avrebbero dovuto compiere sotto il comando delle rispettive divisioni di appartenenza, in quanto ognuna era organizzata in maniera specifica.

Come è facilmente comprensibile, di fronte ai “nuovi” conflitti nei quali la flessibilità e la scalabilità delle unità sarebbero state i punti chiave, ben difficilmente il modello sino a quel momento adottato si sarebbe rivelato il migliore. Nonché, come il duplice intervento in Afghanistan e Iraq dimostrò, spesso le unità sub-divisionali sarebbero state contemporaneamente impiegate in diversi teatri operativi.

Divisioni U.S. Army (www.army.mil)

Di qui la necessità di muovere verso il concetto di “Brigade Combat Team”, un modello attraverso il quale l’Esercito cercò di replicare le formazioni di spedizione tipiche del Corpo dei Marines e dell’Aviazione. Ognuna di esse avrebbe avuto un numero di soldati compreso tra i 3.000 e i 4.000 e sarebbe stata dotata di organizzazione specifica a seconda della tipologia; ciò in quanto furono costituite brigate corazzate (ABCT) tipicamente comprendenti carri armati e veicoli da combattimento pesanti;  brigate di fanteria (IBCT) nelle quale inserire fanterie leggera, d’assalto aereo e aviotrasportata, e brigate Stryker (SBCT), il cui pezzo centrale sarebbe stato il veicolo da combattimento su ruote recante il suddetto nome, uno dei mezzi più recenti e ritenuto adatto a operare nei contesti urbani nei quali la mobilità dei mezzi pesanti sarebbe stata fortemente ridotta.

Nonostante la diversità nel loro “ruolo primario”, le tre tipologie sarebbero state in grado di operare come team ad armi combinate (in quanto comprendevano tutte un mix di forze diverse al loro interno) e di essere comandate da quartier generali divisionali che non avrebbero più fatto riferimento a una precisa specializzazione. Sostanzialmente si sarebbe ottenuta una maggiore flessibilità e un capacità di operare in maniera interforze anche all’interno del servizio medesimo (ricordando che il concetto di azione interforze è il mantra del Pentagono sin dai primi anni ’80).

Esempio di struttura di una BCT (Brigade Combat Team) – Credits: Wikiwam

Un ulteriore beneficio derivante dalla nuova impostazione lo si trova nella possibilità di modificare più facilmente la composizione di base delle unità a seconda delle mutate esigenze strategiche; un esempio lo si ha avuto con la decisione del Dipartimento della Difesa dell’autunno 2018 di convertire una brigata Stryker in un’unità di fanteria e di una di tal tipo in quella corazzata. Ovviamente, come il lettore potrà ben comprendere, tali trasformazioni non avvengono con la facilità e rapidità prevista sul piano teorico ma con un percorso della durata di qualche anno, in seguito alla necessità di addestrare i soldati all’impiego dei nuovi mezzi e alle tattiche, tecniche e procedure (TTP) tipiche dei nuovi strumenti ottenuti.

E questo discorso ci conduce alla discussione di quali siano gli scenari primari a cui il Pentagono si sta preparando, benché come un vecchio adagio suggerisce “i generali si preparano sempre per la guerra che hanno combattuto e non per quella che dovranno combattere”. Tenendo sempre in considerazione che a dispetto delle dichiarazioni del Presidente Trump l’impegno degli Stati Uniti nel contesto mediorientale e afghano non terminerà tanto facilmente, i punti d’impiego di un numero consistente di unità terrestri lo si troverebbe in due luoghi: l’Europa e la penisola coreana.

Partendo nella trattazione da quest’ultima, va sottolineato come le forze degli Stati Uniti in Corea (del Sud) facciano principalmente riferimento all’Esercito; non a caso qui è stanziata la 2a Divisione di fanteria meccanizzata, posta a garanzia dell’alleato contro le possibili azioni di Pyongyang e del suo regime. Come sottolineato anche nei momenti di più forte crisi, le ostilità in questa zona del globo sarebbero sicuramente assai diverse rispetto a quelle a cui l’opinione pubblica mondiale si è abituata negli ultimi 70 anni, in quanto in grado di causare distruzioni materiali e umane incredibili.


Un soldato dell’esercito americano lavora su un carro armato M1A2 durante un esercitazione militare congiunta tra gli Stati Uniti e la Corea del Sud a Paju. Credits: AP Photo / Ahn Young-joon

Ciò per una serie di ragioni, in primis dovute alla numerosità delle forze armate della Corea del Nord (1,5 milioni di uomini circa), alla lotta del regime per la sopravvivenza e al fatto che anche il Sud ne uscirebbe assai provato. Basti pensare che la sua capitale, Seul, giace a solo 60 km dal confine ed è sotto la minaccia certa di migliaia di pezzi d’artiglieria nemica: un fatto piuttosto sconveniente per una metropoli che con i sobborghi conta 10 milioni di abitanti. Lo stesso U.S. Army si troverebbe a dover combattere su di un territorio piuttosto complesso dal punto di vista geografico e logistico, perlomeno se confrontato con i piatti territori della Mesopotamia.

L’altro punto focale d’interesse è indubbiamente l’Europa orientale. Qui la presenza statunitense è cresciuta notevolmente a partire dalla crisi del 2014 coinvolgente Russia e Ucraina, comportando un ritorno nel continente anche di quelle unità corazzate che proprio qualche anno prima erano state riportate negli Stati Uniti.

Soldati statunitensi arrivano a Zagan, in Polonia, come parte dello spiegamento della NATO in risposta allo scontro della Russia con l’Ucraina e all’annessione della Crimea. Credits: Anna Krasko / Agencja Gazeta via Reuters

In particolar modo i principali cambiamenti che stanno avvenendo riguardano la creazione di una serie di depositi all’interno dei quali stoccare gli equipaggiamenti da impiegare prontamente nel caso di scoppio di una crisi maggiore tra le forze NATO e russe, nonché una serie di rotazioni della durate generalmente di sei-nove mesi negli Stati del fianco orientale con compiti di dissuasione e rassicurazione (paesi baltici in primis).

Non a caso gli Stati Uniti guidano un gruppo da battaglia multi-nazionale dispiegato in Polonia, oltre ad aver rafforzato il contingente presente in Germania anche con le prime unità per la difesa anti-aerea sin dai tempi della Guerra Fredda. Inoltre, a fronte di quanto emerso con l’esame dei concetti operativi espressi nel contesto del conflitto russo-ucraino, si è deciso di aggiornare a una versione più letale i mezzi attualmente presenti e dispiegati permanentemente sul suolo europeo, in special modo quelli del 2° Reggimento di cavalleria corazzata.

Stryker aggiornato con nuovo cannone da 30 mm. Credits: Sgt. Sara Stalvey, U.S. Army

 

PRIORITA’ FUTURE

Proprio con l’obiettivo di approfondire quanto appena detto riguardante l’aggiornamento dei mezzi presenti all’interno dell’inventario dell’Esercito (a propria volta fattore capace di condurre a mutamenti nell’impiego delle forze), è importante parlare del U.S. Futures Command.

La genesi di questo nuova struttura all’interno dell’organizzazione dell’Esercito “a stelle e strisce” trova origine dalla percepita debolezza da parte dei vertici del Pentagono dell’investimento nelle tecnologie utili in caso di conflitto con avversari di pari grado, proprio in quanto per una quindicina di anni ci si era dedicati quasi esclusivamente a operazioni contro-insurrezionali e contro-terroristiche, di fronte a nemici in grado di infliggere danni ma non certo di causare gravi problemi alla società statunitense. Necessario quindi mettere in campo dei correttivi sia sotto il punto di vista teorico che materiale, non dimenticando nemmeno l’esigenza di velocizzare il processo.

Con una struttura snella composta principalmente di civili e sito (volutamente al di fuori delle tradizionali basi) nella città di Austin, Texas, il suddetto comando si articola lungo sei cosiddetti CFT (Cross Functional Team), ossia gruppi di lavoro ognuno dedicato alle sei priorità evidenziate dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e suoi collaboratori. Esse, in ordine di importanza, sono:

  1. Fuoco di precisione a lungo raggio
  2. Veicolo da combattimento di prossima generazione
  3. Capacità di trasporto verticale del futuro
  4. Rete di spedizione mobile
  5. Difesa aerea e missilistica
  6. Letalità del soldato
Esperimenti di comunicazione radio bicanale per il coordinamento dei CFT. Credits: DVIDS

Parlare brevemente di ognuno di questi punti consente di avere un’ottica sui cambiamenti previsti. Sicuramente la prima priorità emerge in quanto nei conflitti del futuro, soprattutto se avverranno con avversari paritari, la tradizionale libertà di operare da parte dell’USAF e delle altre unità aeree sarà messa a rischio, portando come conseguenze la ridotta possibilità di offrire la protezione ora assicurata alle formazione terrestri. Ecco perché, quindi, l’artiglieria dovrà ritrovare il suo ruolo principale come strumento in grado di supportare da terra l’avanzata delle formazioni alleate. Non a caso, l’enfasi è posta sulla creazione e messa in campo di sistemi a raggio d’azione maggiore (sino a un centinaio di km), anche in virtù dell’uso di missili superficie-superficie e proiettili dotati di razzi.

I nuovi veicoli da combattimenti, invece, si concentrano principalmente sulla necessità di rendere più potenti i nuovi mezzi, come già sottolineato sopra, e incrementarne la protezione. Inoltre si prevede la sostituzione degli M113 (atti al trasporto della fanteria sul campo di battaglia specialmente lontano dal fronte) risalenti nel design e concezione alla guerra in Vietnam, non sufficientemente protetti per situazioni di conflitti nei quali il nemico opera ovunque, nonché l’introduzione di un possibile carro armato leggero di cui dotare la fanteria leggera, utile per la difesa o l’avanzata in caso di assenza di altre unità di supporto.

Prototipo Bell V-280 (Photo courtesy of Bell)

La terza priorità e la sua pomposa definizione trovano espressione, semplicemente, in una parola: elicotteri. In questo ambito l’obiettivo più importante è riuscire a progettare dei velivoli capaci di adempiere a diversi ruoli, spazianti dalla ricognizione al trasporto, passando per l’attacco, sebbene oggi la priorità sia posta sulle prime due menzionate. Questo, in particolar modo, in quanto è necessario essere dotati di mezzi aventi una maggiore autonomia e capacità di trasporto (sia di materiali che di uomini), oltre alla reintroduzione della tradizionale funzione della ricognizione armata che si è persa dopo il ritiro dal servizio dell’OH-58 Kiowa Warrior nel 2013.

Per ciò che attiene agli ultimi tre CFT si ha il focus sulla creazione di una rete per le comunicazioni aggiornata e capace di resistere anche ai contesti di guerra elettronica nuovamente centrali (competenze che dopo la caduta dell’URSS gli Stati Uniti hanno dismesso dal loro bagaglio tecnico); su strumenti per la difesa aerea a breve-raggio, utili in un contesto nei quali la minaccia dei missili da crociera, dei velivoli e dei droni avversari cresce sempre di più (come proprio il conflitto ucraino e le operazioni a Mosul hanno dimostrato); e sull’introduzione di una dotazione personale che migliori l’efficacia delle armi e la consapevolezza del singolo soldato (fucili di nuova generazione e visori per la visione notturna in primis).

I droni Predator sono diventati ormai simbolo di una rivoluzione. La tecnologia in evoluzione consentire di sfruttare minacce a basso costo – ma altamente credibili – contro ogni nemico. Credits: iStock / Everlite

CONCLUSIONI

Quanto descritto nei paragrafi precedenti permette quindi di comprendere come le sfide di fronte alle quali si trova l’Esercito degli Stati Uniti sono molteplici, e non derivano esclusivamente dagli avversari che esso potrebbe trovarsi ad affrontare. Infatti, anche la sola fase di ricerca e sviluppo, nonché di introduzione dei nuovi mezzi, richiederà un notevole sforzo, che si sostanzierà sia sul versante economico che su quello dello studio delle nuove TTP. Ciò, proprio in ragione del fatto che possedere mezzi tecnologicamente più avanzati non offre la garanzia che essi risultino automaticamente vincenti sui cambi di battaglia.

Considerando, poi, che la sfide derivanti dai comportamenti russi e cinesi, per non parlare delle minacce minori ma ugualmente preoccupanti localizzate in particolar modo nel quadrante mediorientale, continuano a sussistere (indifferenti alle problematiche statunitensi), è facilmente comprensibile come al Pentagono la fretta di concretizzare i notevoli mutamenti coinvolgenti l’U.S. Army permettano un margine di errore piuttosto ristretto. Non ha aiutato certamente la lunga assenza di un Segretario alla Difesa, posto rimasto vacante per il periodo più esteso nella storia degli Stati Uniti; fatto verificatosi dopo le improvvise dimissioni di James Mattis.

In ogni caso, pur considerando come ogni periodo storico sia differente dai precedenti, è bene ricordare come il servizio interessato non stia affrontando una riorganizzazione di tale portata per la prima volta, sebbene a causa della sua vastità e impatto essa è paragonata da più parti alla “rinascita” avvenuta negli anni ’80 in seguito all’introduzione di diversi nuovi mezzi e revisioni operative derivanti dalla crisi del decennio precedenti post-Vietnam.