7 cose da sapere sul Medio Oriente

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credits: Wissm al-Okili/Reuters

Parte del mondo guarda con sempre maggiore apprensione agli sviluppi regionali del cosiddetto MENA (Middle-East/North-Africa). Un’area del pianeta affetta da una endemica (diremmo storica) e contagiosa instabilità i cui drivers sono sia interni che esterni. Una sorta di intreccio di criticità che risulta complesso da descrivere nel suo insieme. Ecco quindi, che l’analisi delle vicende del Grande Medio Oriente implica uno sforzo di semplificazione, che peraltro non sempre risulta possibile. Questo spinge spesso – e non a torto – chi ne parla a concentrarsi sulle relazioni bi/multilaterali degli attori che ne fanno parte, sul confronto inter-etnico e settario, sulla cronaca dei conflitti in corso. Ma cosa accadrebbe se invertissimo il paradigma?

Ribaltando il punto di vista, ci si dovrebbe concentrare sulle 7 cose da sapere sul Medio Oriente, nel tentativo di analizzare i “movimenti tellurici” della geografia MENA da un punto di vista sistemico per provare a farsi un’idea di alcuni scenari con i quali i players regionali potrebbero trovarsi a fare i conti nei prossimi mesi/anni. Sebbene sia aleatorio fare previsioni attendibili, si può tentare di credere alla massima Theodor Hook datata 1825, “the best way to predict the future is to invent it”.

Ecco le 7 cose da sapere sul Medio Oriente:

  1. il sistema statale sta entrando in una crisi irreversibile
  2. i conflitti settari e le proxy wars sono in rapidissima espansione
  3. la questione del nucleare Iraniano è lungi dall’essere risolta
  4. diseguaglianza e disoccupazione sono in espansione
  5. le risorse idriche sono sempre più scarse
  6. il costo dei beni alimentari è in forte incremento
  7. parte delle riserve energetiche sono in rapido esaurimento

È facile comprendere come questi elementi siano correlati tra loro. Per capire meglio tale interrelazione, bisogna spiegarli in maniera isolata.

cose da sapere sul Medio Oriente
Credits: Luci Guiterrez – Wall Street Journal

1. La crisi dello Stato Nazione

Se ne parla da prima del 2010, anno che ci ricorda l’avvio delle Primavere Arabe, ma la tendenza è tutt’altro che mutata. Il sistema di confini decretato dall’accordo Skyes-Picot, e implementato con la Convenzione di Losanna (1924), mostra oggi con chiarezza quanto fosse artificiosa la suddivisione delle comunità arabo-islamiche entro certe frontiere precise. I secoli di convivenza e storia comune che hanno reso il variegato tessuto sociale mediorientale coeso e relativamente omogeneo, non sono stati scalfiti dal nazionalismo di matrice coloniale, continuando a generare – in particolar modo in Iran, Arabia Saudita e Turchia – quell’aspirazione transnazionale tipica del panarabismo e dell’ideale ummah islamica. Al tempo stesso, il fragile modello di Stato-nazione affermatosi in Medioriente, seppur con l’imporsi di differenti (ma in vero, simili) regimi dittatoriali, ha contribuito al rafforzamento dell’orgoglio nazionale nei Paesi emersi attraverso la decolonizzazione. Attualmente però, lo Stato va indebolendosi non riuscendo a garantire protezione dalla minacce esterne –  in Paesi chiave come Siria e Iraq, di fatto, non esiste nemmeno più un’autorità – né tantomeno una condivisione della ricchezza interna – il divario tra ricchi e poveri è cresciuto enormemente negli ultimi 10 anni, in particolare in Egitto, Arabia Saudita e negli Emirati. Tutto ciò ha generato diffusi fenomeni di disgregazione e alimenta tendenze centrifughe testimoniate dalla ricomparsa e dal rafforzamento dei legami etnici, tribali e religiosi a scapito del sentimento di appartenenza nazionale. Questa dinamica è determinante per la comprensione di quanto accade oggi e rientra senz’altro nelle cose da sapere sul Medio Oriente.

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Distribuzione settaria in Medio Oriente – credits: Financial Times – The Big Read

2. Settarismo e proxy wars

A seguito del rovesciamento di alcuni degli storici regimi nazionali e della drastica riduzione dell’overstretching statunitense nell’area, il vaso di Pandora è stato scoperchiato. Da questo fuoriescono potenti correnti del caos che si irradiano ben oltre la regione, e che di fatto mettono a nudo il chiassoso nomos mediorientale: una spaventosa febbre di violenza che un po ricorda lo Stato di Natura hobbesiano del “tutti contro tutti”. In verità, ciò che accade in Medioriente può essere riassunto in una acerrima lotta per il potere tra i quattro attori potenzialmente egemoni, ovvero Iran, Arabia Saudita, Turchia e Israele (anche se probabilmente nessuno di essi ha il profilo per essere la potenza regionale dominante), i quali si combattono per proxy wars sfruttando il proprio ascendente per mobilitare tribù e fazioni a loro volta in lotta tra loro. Arabi contro curdi, sciiti contro sunniti, cristiani contro musulmani, libanesi contro siriani, arabi contro persiani. Molteplici i teatri di scontro. Sul fronte siriano l’Arabia Saudita – nonché buona parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) con Qatar e Emirati in prima linea, ed Ankara a dare man forte nelle retrovie – gioca praticamente a certe scoperte con l’obiettivo di neutralizzare al-Assad e le forze che lo supportano sfruttando qualsiasi esponente dell’islamismo sunnita radicale (ISIS, Al Nusra e persino il Free Syrian Army) che sia pronto a combattere per indebolire l’Iran sciita, sponsor diretto di Nasrallah e Hamas. Nello Yemen la contesa è tra Houthi (sciiti del ramo zaydita supportati dell’Iran), e il presidente deposto Hadi, sostenuto dal CCG guidato da Sauditi, ai quali si possono aggiungere al-Qaeda e i salafiti che usano il brand ISIS per contendersi le regioni più a nord. Ma è l’Iraq (o quel che ne resta) il vero occhio del ciclone: un territorio diviso in 3 macro-fazioni in lotta. A nord, il “califfo” è alle prese con i peshmerga curdi supportati dai sauditi (che vedono l’Iraq l’ennesimo scacchiere sul quale respingere l’avanzata iraniana) e addestrati dalla Turchia (che spera di ricostruire un proprio millet sunnita), mentre ad ovest la rete persiano-sciita composta dal “governo” iracheno e dai gruppi paramilitari del al-Hasd al-Sabi si è di fatto sostituita alla guardia nazionale e combatte il Daesh nella prospettiva di garantirsi uno Stato sciita cuscinetto. A completare il quadro c’è Israele che segue con crescente apprensione la situazione in Libano, ma soprattutto i negoziati dei 5+1 con Teheran. Tel Aviv sente che il riscatto sul piano internazionale del suo arcinemico porti in sé una minaccia esistenziale (non solo sotto il profilo nucleare) e, pur di arginare la marea iraniana, fa – strana – coppia con Rihad e progetta nuovi muri, mentre si gode l’inesorabile frammentazione dei vicini rivali. In questo marasma è difficile immaginare quale possa essere il principio ordinatore capace di porre fine al caotico turbinio degli scontri settari. Volendo tracciare un paragone storico, l’attuale Medioriente assomiglia all’Europa pre-westfaliana in cerca di un equilibrio di potere.

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Missile iraniano a lungo raggio Shabab3
credits: SHAIEGAN/AFP/Getty Images

3. Un Iran nucleare?

Parte della soluzione al caos mediorientale è senz’altro a Teheran. Il paese resta al centro delle dinamiche di potere del sistema regionale e la sua rete di influenza percorre tutta la “cintura di resistenza” sciita attraverso l’asse Damasco-Baghdad-Teheran, e trasversalmente Beirut-Gaza-Sana’a. Con un territorio quasi sei volte più esteso di quello italiano,  una popolazione di 75 milioni di persone (seconda solo all’Egitto nell’area MENA), con un indice di sviluppo relativamente elevato e una classe media ben educata, nonché la capacità di disporre di tecnologie discretamente avanzate sia sotto il profilo civile che militare, l’Iran avrebbe tutte le carte in regola per svolgere il ruolo di guida del mondo islamico (ed è ciò che cerca di fare dal 1979). Ma un lungo isolamento diplomatico, le sanzioni della comunità internazionale e la concorrenza spietata di Israele e Arabia Saudita sono enormi ostacoli per un Paese che ha necessità di svecchiare il proprio apparato industriale, aprire all’esterno il fiume di idrocarburi che possiede e concentrarsi sul proprio sviluppo interno. Il programma nucleare, avviato dagli statunitensi nel 1957, potrebbe consentire a Teheran di raggiungere la piena efficienza energetica e garantirsi il deterrente contro ogni minaccia esterna. La svolta potrebbe essere arrivata lo scorso 16 Gennaio, quando l’Iran ha raggiunto un accordo con i paesi del 5+1 cioè Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più la Germania attraverso i quali sono in via di graduale eliminazione le sanzioni su scambi di gas e petrolio, sul trasporto di merci per via aerea e sulle transazioni finanziarie. Al contempo sono rientrarti in gioco diversi asset economici iraniani il cui valore potenziale è di diversi miliardi di dollari. Questa “boccata di ossigeno” per Teheran arriva in un momento nel quale la comunità internazionale ha un disperato bisogno di avere attori razionali (e volenterosi) al tavolo delle trattative per provare ad avviare un processo di pace in Siria, combattere ISIS, mediare il confronto Russia-Turchia e contenere i tentativi di egemonia regionale dei casa Saud. Ma al di là dei controlli concessi agli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), ciò che ha realmente permesso il raggiungimento di un’intesa sul nucleare iraniano è stata la promessa di Rohani di ridurre di 2/3 il numero centrifughe per l’arricchimento dell’uranio (lasciandone attive circa 6.100) e modificare il reattore ad acqua pesante di Arak – capace di produrre quantità di plutonio sufficienti a confezionare una bomba. Questa scelta ha avuto l’effetto di spingere definitivamente Washington a verso la chiusura dell’accordo che, in ogni caso, lascia inalterato per altri 5 anni l’embargo sulle armi previsto dal Consiglio di sicurezza ONU, così come il divieto sullo sviluppo di missili valido ancora per ancora 8 anni. Sarà dunque impossibile da verificare l’ipotesi per cui un Iran con l’atomica avrebbe avuto l’effetto di dissuadere certi “avventurismi militari” e ridurre la violenza nei conflitti regionali (si pensi al caso India vs Pakistan), o forse no?

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Credits: Middle East Monitor

4. Disuguaglianza e disoccupazione

Due terzi della popolazione mediorientale ha meno di 30 anni ed è alla disperata ricerca di lavoro e identità; questo non potrà che alimentare i tumulti nella regione ancora per diversi anni. Le economie non stanno creando posti di lavoro abbastanza velocemente per accoglierli, le strutture di governance non si stanno sufficientemente aprendo per includerli come cittadini, e la loro ricerca di identità ha stimolato la nascita di movimenti disparati a favore della democratica azione civica, del nazionalismo radicale, e dei sogni messianici di una rinascita del Califfato. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha registrato un tasso di disoccupazione giovanile in Medio Oriente più che doppio rispetto alla media mondiale e, in assoluto il più alto al mondo, raggiungendo 27,2 per cento in Medio Oriente e oltre 29 per cento in Nord Africa. Questo anche fronte di un’economia che stenta a ripartire: il Fondo Monetario Internazionale prevede che la crescita economica media dei Paesi arabi sarà inferiore al 4% nel 2015, così come per i Paesi del Golfo che non supereranno il 4,4%. Mentre i dati della Banca Mondiale segnalano una crescita media debole, partita con un 2,8% nel 2014 che potrebbe arrivare a 3,8% nel 2015, ancora significativamente al di sotto del 4,6% registrato nel 2010, prima dell’inizio della Primavera Araba. Se già in questo modo il quadro non fosse abbastanza preoccupante, va aggiunto che la maggior parte di questa crescita è andata – e continua ad andare – a beneficio dei pochissimi che detengono la gran parte della ricchezza derivanti in modo particolare dalla vendita degli idrocarburi del Golfo e del Levante sulle piazze internazionali. La forte sperequazione, unita ai mancati investimenti nell’educazione pubblica (non è il caso della maggior parte degli Emirati) blocca di fatto gli “ascensori sociali”.

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Contadino a Dayala – Baghdad
Credit: Reuters

5. Risorse idriche in esaurimento

Con il 6% della popolazione mondiale, il mondo arabo-islamico ha a disposizione soltanto l’1% delle risorse idriche rinnovabili, e questo limite naturale rientra tra le cose da sapere sul Medio Oriente. I 3 grandi fiumi della regione – il Nilo, il Tigri e l’Eufrate – non soltanto nascono al di fuori della stessa, ma stanno rapidamente prosciugandosi a causa delle necessità agricole di un popolazione sempre più numerosa. Sono tanti gli studi che rintracciano proprio nella reiterata siccità una delle cause dello scoppio della guerra civile in Siria, dovuta all’emigrazione in massa di un milione e mezzo di contadini spostatisi dalle aride campagne verso i centri metropolitani più grandi. La drammatica scarsità d’acqua ne fa lievitare i costi, facendo crescere proporzionalmente il prezzo degli alimenti, paralizzando il settore industriale ed incrementando, in ultima istanza, la pressione socioeconomica. Allo stesso modo, la rarità dell’oro blu diventa un moltiplicatore di minacce. Le dighe e le riserve diventano obiettivi militari e le organizzazione terroristiche le usano come vere e proprie armi di distruzione di massa: il controllo dell’acqua agevola il controllo della popolazione.

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Credits: Middle East Monitor

6. Sale il prezzo del cibo

L’incremento del prezzo del cibo è un altro driver del caos mediorientale. Il grano, come altri cereali che crescono in molte regioni – contribuendo a coprire parte del fabbisogno alimentare globale – rischia di essere esposto nel prossimo futuro ad alta volatilità dei prezzi a causa della produzione discontinua che si verifica in aree in cui disponibilità d’acqua e clima non sono più ottimali. Paesi importatori prevalentemente poveri come l’Egitto potrebbero risentire fortemente dell’impatto di un repentino innalzamento del costo degli alimenti basilari. Lo studio presentato da Chatman House sul tema, dimostra come Algeria, Egitto, Yemen, Siria, Iraq e Giordania siano particolarmente esposti al pericolo di un aumento vertiginoso dei prezzi, considerando i dati sulla dipendenza da importazione alimentari, la quota di reddito pro-capite spesa mediamente per il cibo, e la prevalenza della denutrizione. Sebbene alcuni dei Paesi MENA con maggiori risorse finanziare stiano cercando di accaparrarsi, attraverso la pratica del land grabbing, le fertili aree dell’Africa centrale e del sud-est asiatico, le prospettive a lungo termine di una maggiore e più efficiente produzione agricola su larga scala sono lungi dall’essere comprovate.

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Credits: www.officeboots.net

7. Risorse energetiche

Può sembrare strano parlare di problemi energetici in un’area che di per sé detiene i due terzi delle riserve petrolifere ed un terzo del gas sfruttabile al mondo, ma anche se un quarto del greggio commerciato sul pianeta proviene dall’area MENA, la volatilità dei prezzi del greggio costituisce una minaccia allo sviluppo dei paesi più poveri nei prossimi anni. Nei paesi importatori come Egitto, Tunisia, Giordania e Marocco, il prezzo del petrolio ha pesato in modo determinante sul debito e sui disavanzi. Allo stesso tempo, l’esportazione di idrocarburi dei Paesi produttori ha portato ad una precoce de-industrializzazione ed un conseguente asservimento delle politiche economiche ai mercati mondiali. Forti squilibri interni sono stati prodotti da queste dinamiche tra cui l’opposizione allo sviluppo agricolo e l’abbandono di regioni periferiche (quelle stesse che oggi rivendicano una ridistribuzione della ricchezza). Anche in Arabia Saudita e negli Emirati, il valore del petrolio resta la componente determinante per avviare i programmi di welfare per cui la cittadinanza è ormai disposta a lottare con la forza. Situazione tutt’altro che rosea, considerando che per compensare il prezzo basso del barile, la produzione deve salire vertiginosamente, con la conseguenza che i Sauditi potrebbero trovarsi a diventare importatori netti di greggio già dal 2035. Sarà forse il gas a permettere ai Paesi del Golfo di garantirsi l’energia elettrica di cui hanno tremendamente bisogno per scopi primari (ad esempio per i dissalatori – visto che le riserve di acqua fossile si stanno esaurendo troppo velocemente ed il sovrasfruttamento non ne consente la naturale “ricarica”). Meno problematica, sul versante opposto, sembra invece la situazione di Iran e Turchia. Il primo, rientrato a pieno titolo nel novero dei grandi esportatori (con Europa e Cina pronti ad acquistare in gran quantità ove diversificare la fornitura) e, la seconda, che ha l’obiettivo di affermarsi definitivamente come hub energetico dei flussi che transitano da Caucaso e Medio Oriente verso l’Europa).

[quest’articolo è stato aggiornato il 3/02/2016)