Il golpe in Mali e il risiko del Sahel

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Il recente colpo di stato in Mali è l’ennesimo guizzo di una regione attraversata da numerose tensioni profonde, da complessi giochi di potere e da molti interessi incrociati.


La decolonizzazione mai davvero completa in Sahel ha lasciato strascichi di ingerenze, corruzione e una diffusa instabilità politica di cui hanno potuto approfittare svariati gruppi separatisti e jihadisti che mantengono un livello di conflitto piuttosto elevato e costante, gruppi che sono anche in lotta tra loro.

Mappa dei gruppi terroristici e della presenza straniera in Mali. Per la sua versione interattiva cliccate qui. – credits: Andrew Lebovich, European Council on Foreign Relations

Il Mali è un esempio evidente di queste dinamiche: indipendente dal 1960, governato da una dittatura fino agli anni Novanta, è sempre rimasto legato a doppio filo alla Francia, che è intervenuta militarmente ancora recentemente nel 2013, scosso dalla lotta separatista dei Tuareg e da una presenza sempre più preoccupante di gruppi jihadisti.

L’insicurezza e la corruzione sono stati le ragioni principali per cui i militari si sono mossi contro Ibrahim Boubacar Keita, Presidente della Repubblica del Mali.

Il colpo di stato avvenuto il 18 agosto, pur relativamente indolore, ha comunque innalzato l’attenzione tra i vicini e la preoccupazione della società civile con cui i militari ora stanno cercando un dialogo arrivando a una proposta di compromesso di un periodo di transizione di 18 mesi.

Soldati burkinabé durante un’esercitazione militare fuori Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, nel marzo 2019 – credits: Ruth Maclean / The Guardian

Parallelamente, la Francia non manifesta entusiasmi né si scompone e continua a mantenere le sue forze sul territorio. La notevole presenza di forze armate francesi, giustificate in numerose maniere, sono in effetti una continuazione dell’eredità coloniale, con cui la Francia continua a intervenire in maniera tutt’altro che discreta tutelando in primis i suoi interessi nella zona.

Vale la pena notare come, nel febbraio del 2020, i paesi africani del Sahel (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger) abbiano discusso ad Addis Abeba alcune nuove politiche riguardo alla lotta al terrorismo e alla collaborazione con altri paesi, mettendo in discussione quanto sembrava essere uscito dagli accordi di Pau di gennaio e più in generale i rapporti con l’intrigante “amico” francese.

Inaugurazione del 33° vertice dell’Unione africana il 9 febbraio 2020 ad Addis Abeba – credits: AP

Nel contempo la Francia non è sola: sempre in nome della lotta al terrorismo e del controllo dei flussi migratori subsahariani, molti paesi partecipano al risiko del Sahel. L’Italia in particolare ha cercato di mettere piede militarmente nella zona seguendo la grande ossessione politica degli ultimi anni: il controllo dei flussi migratori.

Gli USA invece sembrano sempre più intenzionati a ridurre il loro impegno in Africa Occidentale lasciando sempre più spazio ad altri attori, pronti a mettere in discussione la posizione di vantaggio della Francia, come la Cina, la Russia e la Turchia.

Infine, la già difficile situazione della regione rischia di essere peggiorata dal cambiamento climatico, che avendo conseguenze disastrose su risorse idriche e alimentari, aumenta le possibilità di conflitti violenti e migrazioni forzate.

In un contesto così instabile le organizzazioni terroristiche possono avanzare ed occupare posizioni politiche. Il colonialismo non è mai davvero finito e le dinamiche complesse ancora esistenti tra paesi africani e potenze coloniali lo dimostrano.

di Federico de Salvo

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