L’accordo europeo sui “lavoratori distaccati”

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A seguito di una lunga negoziazione, i Ministri del lavoro dei 28 Stati membri dell’Unione europea hanno trovato un accordo per una riforma dedicata ai lavoratori distaccati all’estero, disciplinata al momento da una direttiva del 1996. La necessità di aggiornare la legislazione comunitaria è stata avanzata dai paesi più sviluppati, sulla base dei mutamenti intercorsi nel mercato del lavoro europeo negli ultimi 20 anni.

Cosa si intende per lavoratori distaccati?

Secondo la definizione fornita dalla direttiva del 1996:

Per lavoratore distaccato si intende il lavoratore che, per un periodo limitato, svolge il proprio lavoro nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel cui territorio lavora abitualmente

Vi è una profonda differenza fra la figura del lavoratore distaccato e quella di un cittadino europeo migrato in un altro Stato dell’Unione al fine di cercare un impiego. Infatti, se quest’ultimo usufruisce delle stesse condizioni lavorative, sociali e fiscali dei cittadini dello Stato in cui risiede, i “lavoratori distaccati” sono trasferiti dall’impresa per un limitato periodo di tempo in un Paese terzo rispetto a quello in cui sono stati assunti, e non entrano a far parte del mercato del lavoro del Paese che li ospita.

Al fine di evitare casi di social dumping, la direttiva del 1996 prevedeva che il lavoratore distaccato dovesse essere anche esso titolare di una serie di diritti garantiti ai lavoratori dello Stato in cui si trova a lavora, come delle “tariffe salariali minime” o la “durata minima delle ferie annuali”.

Perché tale direttiva è così importante?

Quando veniva implementata la direttiva, tuttavia, il mercato del lavoro europeo era profondamente diverso da quello attuale, dato che ancora non entrati a far parte dell’Unione europea diversi Stati dell’ex blocco socialista. Dal 2004 con l’allargamento dell’Unione a diversi Paesi dell’Europa orientale, la direttiva del 1996 ha iniziato a essere regolarmente accusata di favorire il dumping sociale.

[toggle title=”Cosa significa dumping sociale”]
“Espressione con cui viene indicata la pratica di alcune imprese (soprattutto multinazionali) di localizzare la propria attività in aree in cui possono beneficiare di disposizioni meno restrittive in materia di lavoro o in cui il costo del lavoro è inferiore. In questo modo i minori costi per l’impresa possono essere trasferiti sul prezzo finale del bene che risulta più concorrenziale.” Dizionario giuridico Simone
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Secondo Francia e Germania, infatti, le clausole presenti nell’atto legislativo del 1996 non erano più sufficienti a tutelare i lavoratori. Il costo del lavoro fra Paesi come la Francia e la Romania continua a rimanere troppo elevato, nonostante il datore di lavoro paghi al proprio dipendente il salario minimo francese. Questo divario è dato dalla differenza del livello dei contributi sociali. Se nello Stato transalpino il livello dei contributi sociali raggiunge il 45%, mentre in Romania esso è pari al 13%.

La figura del lavoratore distaccato è stata al centro dell’ultimo dibattito elettorale francese, sebbene essi costituiscano solo l’1% della manodopera del Continente. Tuttavia, è necessario notare come la Francia ospiti ben 300mila lavoratori distaccati, seconda solo alla Germania, che ne ospita 418 mila. Allo stesso tempo sia Berlino che Parigi esportano dei lavoratori negli altri Stati membri. La differenza risiede nel fatto che i due principali attori dell’Unione europea difficilmente possono essere accusati di dumping sociale, dato che i lavoratori di questi Paesi solitamente non hanno dei salari inferiori a quelli dello Stato in cui si trovano temporaneamente a svolgere le loro mansioni.

Lo scorso agosto il Presidente francese Macron era arrivato perfino ad affermare che le pratiche di dumping sociale permesse dalla direttiva 1996 fossero un pericolo per la stabilità dell’Unione europea. La sua posizione era supportata da Berlino e Vienna: Austria, Germania e Francia erano unite anche nell’intenzione di porre il limite massimo dell’impiego di un lavoratore distaccato ad un anno, al contrario di quanto previsto dalla proposta della Commissione, che fissava questo limite a due anni. È innegabile, dunque, che l’attuazione di una proposta di riforma della direttiva segni il successo misurabile di Macron a livello europeo, anche se dure critiche sono arrivate dagli imprenditori, attraverso la  voce di Business Europe, l’organizzazione che riunisce 41 associazioni nazionali di rappresentanza delle imprese, provenienti da 35 paesi (i 27 paesi membri dell’UE e gli otto paesi candidati all’adesione o membri dello Spazio Economico europeo).

L’accordo raggiunto prevede inoltre l’applicazione dello stesso salario fra i lavoratori distaccati e quelli nazionali che svolgono la medesima mansione sullo stesso luogo di lavoro; inoltre, come desiderato dal Presidente francese, un lavoratore distaccato non potrà essere impiegato per più di dodici mesi, con la possibilità di estendere tale utilizzo una tantum per ulteriori sei mesi.

La direttiva prevede un periodo transitorio di quattro anni prima dell’entrata in vigore del nuovo accordo. Infine, i Paesi dell’Est Europa, aiutati in questo da Spagna e Portogallo, hanno ottenuto che la direttiva del 1996 continuasse a rimanere in vigore per il settore dei trasporti.

La proposta di modifica della direttiva del 1996, tuttavia, non è stata approvata all’unanimità dal Consiglio europeo: Polonia, Ungheria, Lituania e Lettonia hanno espresso la loro contrarietà rispetto a tale atto. Il Ministro del lavoro ungherese ha affermato che il testo approvato risulta troppo “ambiguo e suscettibile di troppe interpretazioni differenti”, mentre la Polonia ha definito “protezionistica” la proposta di riforma della direttiva adottata dal Consiglio.

di Antonio Schiavano

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