L’insostenibile leggerezza di EXPO

Credits: Inexhibit, 2015
Ci siamo già dimenticati di Expo? Certamente prima o poi si ritornerà a discutere dell’eredità che l’Esposizione lascia al paese e a stilare bilanci. Nel decretarne il successo, tuttavia, non basta fare il computo dei soldi incassati dai biglietti venduti, com’è stato fatto sin dall’avvio della manifestazione.

Partiamo dal principio. Expo nasce nel 1851, a Londra, come occasione per poter mostrare al grande pubblico i prodigi scientifici e tecnologici dell’epoca. Erano i tempi dell’industrializzazione e dell’ottimismo verso il progresso dell’umanità e l’Esposizione Universale fu concepita come una vera e propria vetrina sul mondo del futuro più prossimo. Da vent’anni la formula dell’Expo ha raggiunto lo zenit di una lunga crisi. L’idea di una sola, enorme, esposizione, dove poter mostrare le meraviglie del presente e del futuro, è un concetto intimamente legato all’ottimismo positivista di fine Ottocento e poco adatto all’interconnessione del villaggio globale. I grandi eventi sportivi mondiali, grazie alla diretta televisiva, garantiscono miliardi di spettatori contro i milioni di Expo, mentre le fiere mondiali “di settore” si dimostrano sempre più capaci di catturare l’attenzione dei “target di riferimento” e degli investitori.

Una delle prime domande per stabilire la riuscita del nostro Expo potrebbe essere: l’Esposizione del 2015 è riuscita ad invertire il trend di una manifestazione che di “Universale” ha sempre meno?

Purtroppo di Expo, fuori dai confini nazionali, si è parlato poco, molto poco. E di quel poco forse sarebbe stato meglio non parlare dato che l’ultimo evento Expo che ha ottenuto una qualche risonanza nei media mondiali è stato il Guinness World Record per la baguette più lunga del mondo, un evento organizzato dalla Ferrero che ha prontamente farcito lo sfilatone lungo più di un km di Nutella. Il tema del cibo è stato trattato da buona parte dei paesi ospitati sotto il profilo dei risultati culinari raggiunti nel corso della storia; sono invece state messo un po’ all’angolo le strategie per affrontare un futuro dove le risorse saranno sempre più scarse a fronte di una domanda di derrate alimentari sempre più pressanti. (Con qualche ammirevole eccezione, da ammettere, come i campi “verticali” di Stati Uniti e Israele o il dilemma sulla scarsità delle risorse nel padiglione svizzero con le sue “colonne di cibo” disponibile a discrezione del visitatore, con la condizione che sarebbe poi stato rimpiazzato).

credits: www.expo2015.org, Knafo Klimor Architects
credits: www.expo2015.org / Knafo Klimor Architects

L’Italia del tema di Expo ha dato sì l’esempio, ma in peggio. Con uno spazio concepito più come una fortezza (e circondato da fossati di file letteralmente chilometriche), il nostro paese ha speso tutti e sette i piani del suo palazzo a decantare le sue virtù, in particolar modo culinarie, più che a raccontare di come il nostro paese intende affrontare le grandi problematiche alimentari del XXI Secolo. “Prendere per la gola” per attirare l’attenzione del Mondo sulla manifestazione non è bastato: dei 21 milioni di visitatori uno studio della Ca’ Foscari ne stima non più di quattro (Sala ha proclamato tra i sei e i sette, mentre la Coldiretti ne aspettava otto): di questi, la gran parte si compone di svizzeri, francesi e tedeschi, più vicini a Milano di molti connazionali. Un evento più regionale, che universale dunque, in grado di catturare l’attenzione perlopiù di chi fosse abbastanza vicino da “potersi fare un giro.”

Una rara (il precedente Expo italiano risale al 1906) occasione persa per l’Italia di poter mostrare al mondo qualcosa se non di proprio rivoluzionario, perlomeno ambizioso. Cibo e buona cucina sono due concetti che ai nostri occhi (italiani) possono apparire sinonimi, ma non a quelli di centinaia di milioni di persone malnutrite. Per paura di non esser tacciato come flop, Expo ha puntato ai trend del momento, alla cucina gourmet, ai ristoranti più o meno carissimi, agli chef televisivi e ai truck food di presunta qualità. Andando al cuore delle questioni alimentari l’Expo ha visto un’Italia chiusa e diffidente verso il resto del mondo e l’innovazione tecnologica, visceralmente attaccata alle proprie eccellenze alimentari, che ha proiettato sul visitatore le proprie paranoie sul made in Italy invidiato e copiato dal resto del Mondo in quanto “Santo Graal” capace di risolvere ogni problema di natura alimentare.

L’ossessione, condivisa equamente tra “expoentusiasti” e “noexpo”, di contare febbrilmente ogni obolo proveniente da Expo ha condannato l’Italia al fallimento sui temi dove poteva, e doveva, esprimersi. Non è cinismo ritenere che la “Carta di Milano”, pur pregna di buoni propositi, nei fatti sarà ben poca cosa di fronte a problematiche quali la difficoltà nell’aumentare la produzione agricola rispetto all’aumento demografico, l’impatto dell’inquinamento sulla produzione agricola (e l’impatto della produzione agricola sull’inquinamento), oltre alle strategie che l’uomo, soprattutto grazie alla ricerca scientifica, (anche per mezzo dei discussi OGM, vedasi il potenziale di colture quali il “Golden Rice” contro la denutrizione) dovrà studiare per creare un futuro alimentare sostenibile.

Il nostro paese si è piccato di “nutrire il pianeta”, ma in Expo si è comportato come una novella Maria Antonietta, che di fronte alle richieste di sfruttare il grande evento per discutere su come produrre nuovi pani per le nuove bocche che affollano il Mondo, si è affrettata a celebrare la fragranza e la bontà delle sue eccellenti, ma limitate brioches.