Pandemia: cosa si è mosso in Europa?

A biohazard warning sign is placed on a coffin of a person who died of the coronavirus disease (COVID-19), at a mortuary near the city of Charleroi, Belgium April 7, 2020. REUTERS/Yves Herman - RC2LZF9BPJN8
Gli effetti della pandemia causeranno una recessione grave dell’economia europea. Le decisioni dei prossimi mesi potrebbero cambiare l’architettura istituzionale dell’Europa, oltre al destino dei singoli Stati. Non è sorprendente che i negoziati siano difficili: le decisioni prese, i limiti della governance europea e gli spiragli per un cambiamento.

Nessuno avrebbe immaginato pochi mesi orsono che una pandemia avrebbe, tra le altre cose, messo a rischio il futuro dell’Unione europea. Eppure è quello che alcuni hanno temuto, o sperato, di fronte ai tentativi di chiusura delle frontiere e di blocco delle esportazioni di dispositivi sanitari da parte di alcuni Stati, compresa l’Italia, alle prime incertezze nel coordinamento delle risposte da parte delle Istituzioni europee.

Tuttavia, pur con qualche ritardo ed incertezza burocratica, le Istituzioni hanno successivamente reagito con vigore ed anche a livello inter-governativo sono state prese decisioni importanti. Gli effetti della crisi sanitaria saranno comunque pesantissimi sull’economia europea ed è su questo che si gioca probabilmente il nostro futuro.

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Le decisioni prese

In sede di Eurogruppo il 9 aprile, dopo estenuanti trattative, i ministri delle finanze della zona euro hanno raggiunto delle conclusioni che comprendono quattro strumenti (o modalità di utilizzo di strumenti esistenti) innovativi ed importanti:

  1. L’istituzione di un fondo pan-europeo di garanzia della BEI (Banca europea per gli investimenti) di 25 miliardi di euro che permetterà finanziamenti per 200 miliardi a favore delle piccole e medie imprese;
  2. L’attivazione di una nuova linea di credito all’interno del MES (Meccanismo europeo di stabilità) per finanziare spese legate direttamente e indirettamente alla cura e prevenzione del Covid-19, attivabile su richiesta di qualunque paese senza condizionalità in misura pari al 2% del proprio PIL 2019;
  3. L’istituzione di Sure (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency), nuovo strumento gestito dalla Commissione destinato a prestiti temporanei a condizioni favorevoli, fino a un massimo di 100 miliardi di euro, da utilizzare dagli Stati membri per finanziare i rispettivi meccanismi di cassa integrazione (o equivalenti);
  4. L’impegno a lavorare su un Recovery Fund, temporaneo e mirato, che permetta di fornire finanziamenti attraverso il bilancio Ue a programmi per il rilancio dell’economia – un’anticipazione di quelli che potrebbero essere i famigerati eurobond.

Si tratta di misure che complessivamente pesano per circa 500 miliardi di euro e che vanno ad aggiungersi alla sospensione del Patto di stabilità, alla messa a disposizione dei residui dei Fondi strutturali, alle azioni per oltre mille miliardi di euro messe in campo complessivamente dalla Banca centrale europea. Interventi decisivi, che hanno evitato il collasso dei mercati (soprattutto la dimostrata volontà della BCE di fare l’impossibile per proteggere l’euro) e contribuiranno a consolidare la stabilità non solo della zona euro ma dell’intera Unione, contrastando il pericolo di un fatale tutti contro tutti.

Il Ministro dell’economia e delle finanze italiano Roberto Gualtieri durante l’Eurogruppo del 9 aprile 2020 – credits: ansa.it

Tuttavia, pur nell’imprevedibilità della portata della crisi economica che ci aspetta, già da ora l’opinione di molti economisti è che tali misure, pur importanti quanto a livello di mobilizzazione finanziaria e dimostrazione della volontà di coesione dell’Europa, non saranno sufficienti nel medio-lungo termine. Altre azioni dovranno dunque essere intraprese, sia a livello di singoli Stati sia a livello comunitario.

I limiti della governance europea e i mitici eurobond

Se è vero che è mancata quella immediata e unitaria dimostrazione di solidarietà che avrebbe fatto percepire da subito ai cittadini dei Paesi più colpiti la vicinanza e la capacità di risposta dell’Europa, bisogna riconoscere che questo dipende dal fatto che l’Ue non è uno stato federale, con un Governo e un Parlamento federali, che possano assumere immediatamente decisioni a nome di tutti i cittadini d’Europa, bensì un complesso sistema di governance all’interno del quale, in alcune materie, le decisioni devono essere prese all’unanimità da parte dei governi degli Stati membri.

La metropolitana di Monaco di Baviera – credits: Laetitia Vancon / The New York Times

Partendo da questo riconoscimento della realtà, non stupisce che l’enormità delle decisioni prese abbia richiesto discussioni anche prolungate per conciliare le diverse opinioni, sensibilità, ragioni storiche e politiche. Non appaia esagerato parlare di enormità, quando in pochi giorni si è deciso di sospendere il Patto di stabilità senza che una sola voce si sia levata a contestare (chi lo avrebbe immaginato solo pochi mesi fa?) e di accantonare le severe norme europee in materia di aiuti di stato alle imprese, o di immettere liquidità monetaria sul mercato a livelli mai visti. Per non parlare delle ipotesi di mutualizzazione del debito, che pur osteggiate da alcuni paesi virtuosi, sono sul tavolo delle trattative.

Su quest’ultimo punto in particolare è utile soffermarsi, in quanto sia nella dialettica politica che nell’informazione si tende spesso a fare confusione. Con il termine eurobond ci si riferisce (o si dovrebbe) ad emissioni di debito pubblico a livello europeo; in questo senso, gli eurobond in qualche misura esistono già, ovvero esistono emissioni comuni di debito garantite da capitale versato dai Paesi europei a specifici istituti (il MES, la BEI, così sarà per il Sure) che possono essere usati per scopi specifici per aiutare singoli paesi in difficoltà.

La Rambla di Barcellona – credits: Maria Contreras Coll / The New York Times

Il vantaggio di titoli garantiti a livello europeo è evidentemente che grazie alla garanzia degli accantonamenti degli istituti emittenti (MES e BEI ad esempio) questi spuntano sul mercato i massimi livelli di rating, sono considerati poco rischiosi e dunque possono essere offerti a basso interesse, di conseguenza il costo in interessi per ripagarli è limitato – l’Italia paga circa 70 miliardi di euro di interessi sul debito ogni anno, cifra destinata a salire con l’inevitabile esplosione ulteriore del debito pubblico (più della Germania: è questo il vero spread).

Naturalmente questo è un grande vantaggio per alcuni paesi (tra gli altri l’Italia), che mediamente spunterebbero interessi più alti, non lo è per altri (ad esempio la Germania), che grazie alla robustezza della propria economia e all’ordine dei propri conti pubblici sono in grado di accedere ad interessi inferiori. È bene tenere sempre a mente questa differenza di posizioni di partenza per comprendere il dibattito in materia di eurobond: there ain’t no such thing as a free lunch.

Quello che non esiste sono dei veri titoli pubblici europei, emessi da un’Istituzione europea, paragonabili per capirci ai BTP italiani, che siano utilizzabili non per scopi specifici o per aiutare un Paese in difficoltà, ma per finanziare spese comuni a livello europeo.

Piazza di Spagna, Roma – credits: Alessandro Penso / The New York Times

Non esistono per due motivi. Il primo motivo, istituzionale e pratico, è che il presupposto per averli è che siano emessi da una entità politica che gestisce un proprio bilancio pubblico e una propria politica fiscale. Come sappiamo, l’Ue non ha competenze di politica fiscale. Il secondo motivo, politico, è che gli Stati membri, o almeno alcuni di essi, non vogliono che si arrivi tramite l’emissione di veri titoli pubblici europei a dover pagare anche per i debiti altrui o ad avere un bilancio dell’Ue in disavanzo.

Dalla crisi un possibile cambiamento radicale dell’Unione?

Ebbene, il complesso delle decisioni assunte e in fase di discussione per far fronte alla recessione economica che conseguirà alla diffusione del coronavirus contiene in nuce elementi che potrebbero cambiare radicalmente l’Unione.

Non solo il tabù del rispetto del Patto di stabilità, e con esso l’insieme delle norme e degli orientamenti economico-politici che reggono l’Unione da Maastricht in poi, è stato infranto. Non solo si discute pubblicamente di ipotesi concrete di accrescere sensibilmente il bilancio europeo, laddove fino a ieri si giocava al ribasso dello stesso. Si giunge ad ipotizzare come scenario di lavoro da approfondire l’emissione di eurobond (pudicamente ribattezzati “recovery bonds”) anche se limitati all’emergenza in corso.

In questo senso il punto 4 menzionato sopra con riferimento alle conclusioni dell’Eurogruppo – il consesso dei Ministri dell’economia e delle finanze europei – rappresenta lo spiraglio attraverso il quale si intravvede la speranza, da parte degli uni, o il terrore, da parte degli altri, di un’istituzionalizzazione dell’uso generalizzato di strumenti comuni di debito.

Infatti, una volta passato il concetto che si possa fare debito comune per una specifica azione, non è difficile ipotizzare che il principio possa essere adottato o imposto per altre spese: ad esempio, non avrebbe senso finanziare attraverso titoli pubblici europei la ricerca scientifica? Perché non la difesa? E così via, di spesa in spesa, fino alla generalizzazione dell’uso di titoli pubblici per finanziare spese comuni, anche in disavanzo. È questo lo scenario che alcuni temono ed altri auspicano.

Debito comune vuol dire infatti economia comune. Dunque gestione economica condivisa, dunque cessione di sovranità in materia di politica fiscale dagli Stati nazionali alle Istituzioni europee.

Se veramente si arrivasse a questo, con le dovute procedure e tempi (lunghi, dovendosi cambiare i Trattati) o con scorciatoie più o meno dirette, si sanerebbe d’altro canto la zoppia del sistema euro attuale, che si regge su una politica monetaria comune affiancata da politiche fiscali nazionali. In un certo senso, sarebbe il rovesciamento dell’architettura esistente: delegare potere di politica economica alle Istituzioni dell’Ue sarebbe un salto verso la creazione di una realtà autenticamente federale.

È comprensibile, al di là dello schematismo paesi virtuosi/paesi inefficienti, che decisioni di tale portata, impensabili fino ad oggi e fortemente divisive sia per ragioni economiche che di principio, non possano che comportare negoziati difficilissimi. I prossimi mesi ci diranno presumibilmente se e come questa strada verrà intrapresa.

di Paolo Pellegrini