Il Patto delle città libere di Visegrad

(Credit: @karacsonygergely/Facebook)

Il 16 dicembre scorso i sindaci di Praga, Budapest, Bratislava e Varsavia hanno voluto dare la massima pubblicità all’accordo di collaborazione stretto tra le loro quattro città, inaugurando formalmente a Budapest il primo summit del “Patto delle città libere”. Ma di che cosa si tratta e perché queste città hanno stretto questo accordo?


Zdenek Hrib, Gergely Karácsony, Matús Vallo, Rafal Trzaskowski , rispettivamente i sindaci delle città di Praga, Budapest, Bratislava e Varsavia, sono i promotori dell’accordo, firmato a metà dicembre 2019, chiamato “Patto delle città libere”.

Questa collaborazione sarà relativa a campi e problematiche che sono comuni a tutte le grandi capitali europee, quali la lotta contro i cambiamenti climatici, le politiche abitative e sociali e la vivibilità in generale delle città. Ma la sovrastruttura tutta politica del patto si manifesta nell’intento di “promuovere i valori europei di democrazia, apertura e libertà”.

I primi cittadini delle capitali di Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia, tutti eletti in movimenti politici in opposizione ai rispettivi governi, si propongono così dichiaratamente di elevare il proprio ruolo politico ad un livello superiore a quello di semplici amministratori di grandi città, proclamandosi alternativa progressista ai correnti orientamenti politici ultraconservatori dei governi degli stati di cui sono capitali.

I sindaci promotori dell’accordo a Budapest il 16 dicembre, giorno della firma – credits: @V4_PRES

I quattro grandi paesi dell’Europa centrale di cui si parla, come è noto, formano il Gruppo di Visegrad: si tratta di un’alleanza nata nel 1991 con lo scopo originario di facilitare l’integrazione dei singoli stati nell’Unione europea (e nella NATO) e di promuoverne in generale lo sviluppo e la cooperazione.

Negli ultimi anni le occasioni di scontro del gruppo con la UE si sono moltiplicate: ricordiamo soltanto i rifiuti di aderire alle politiche migratorie comunitarie con la mancata implementazione del meccanismo di ricollocamento dei migranti, che ha portato all’apertura di una procedura d’infrazione, nonché la procedura ex art. 7 del Trattato sull’Unione europea avviata (per la prima volta nella storia) contro Polonia e Ungheria per violazione dei valori fondamentali dell’UE.

Col passare del tempo infatti tale alleanza si è gradualmente trasformata in un blocco politico di paesi retti da partiti fortemente omogenei nella propria vocazione ultraconservatrice e nazionalista e spesso promotori di conclamate politiche talvolta chiaramente reazionarie. Da un lato tale visione politica si manifesta internamente in atti tendenti all’accentramento del potere politico nelle mani dell’esecutivo, all’imposizione di limiti alle libertà individuali e al restringimento degli spazi di dibattito consentiti alle organizzazioni della società civile, dall’altro i rapporti con l’Unione europea sono normalmente incentrati su principi utilitaristici e nazionalisti che possono essere riassunti nella seguente formula: prendere ciò che conviene come membri dell’Unione ma rivendicare il diritto all’autonoma e indipendente azione e legislazione nazionale ogniqualvolta ciò faccia comodo.

Una visione ben lontana dallo spirito essenziale della costruzione europea ed anche dai doveri derivanti dai Trattati, che rischia a volte di rimettere in causa – da parte di alcuni dei paesi dell’ovest d’Europa – la ragionevolezza del grande allargamento ad est avvenuto dopo la caduta del muro di Berlino, allargamento generoso e probabilmente necessario in termini geopolitici ma che ha sempre sollevato non poche critiche quanto alla sua presunta eccessiva rapidità.

L’intento dichiaratamente progressista del patto siglato dai quattro sindaci è stato accolto in maniera generalmente positiva dalla maggioranza della stampa dell’Europa occidentale, nella misura in cui la stessa si è occupata dell’evento, ossia marginalmente.

Si è sottolineato come le capitali siano ancora una volta, più avanzate socialmente e politicamente delle aree rurali e delle periferie, e la maggior parte dei commentatori hanno giudicato positivamente questo tentativo di contrasto, da parte dei sindaci “progressisti” delle quattro capitali, alle politiche più reazionarie dei governi dei paesi di Visegrad. Se l’intento politico è chiaro e condivisibile, riteniamo comunque interessante andare oltre lo stesso, che è soltanto uno degli aspetti della notizia – il più facilmente leggibile nonché quello più evidente alla nostra sensibilità politica – per analizzare anche i risvolti meno evidenti delle intenzioni dichiarate.

Ciò che si propongono di chiedere i sindaci attraverso il loro patto è infatti l’accesso diretto ai fondi UE, bypassando i rispettivi governi nazionali. Nel patto si parla esplicitamente di azioni comuni di lobbying in tal senso; tecnicamente del resto l’erogazione diretta di fondi alle città o l’istituzione di nuovi fondi specifici non è impossibile.

La cosa ovviamente non farebbe piacere ai governi di per sé accentratori di Polonia, Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca, il che rischia di creare ulteriori tensioni tra questi paesi e le Istituzioni europee, oltre che tra essi e le rispettive amministrazioni cittadine.

Inoltre, e non si tratta di un elemento secondario, una tale novità, se realizzata, oltre alle probabili ricadute positive – più efficace implementazione dei fondi a livello locale – potrebbe comportare anche il rischio di potenziali effetti negativi su due fronti: da un lato vi sarebbe il rischio concreto di accrescere le diseguaglianze già esistenti tra alcune zone (le capitali in questo caso) e il resto dei rispettivi paesi nonché tra classi sociali, dall’altro si acuirebbe probabilmente la già esistente dicotomia tra cittadini dei grandi centri urbani, che generalmente manifestano sentimenti e percezioni positive a proposito dell’Europa, ed abitanti delle zone rurali e periferiche che al contrario tendono a percepire soltanto gli effetti negativi, veri o presunti, delle politiche europee.

Il primo ministro ungherese Victor Orban durante le ultime elezioni amministrative – credits: FERENC ISZA/AFP via Getty Images

Allargare questo fossato vorrebbe dire diffondere ancora di più la “geografia del dissenso europeo”. Tutto ciò potrebbe ulteriormente contribuire ad alimentare tanto i sentimenti populistici – che già si alimentano di alcuni effetti di quello che alcuni considerano uno “svuotamento della democrazia” che deriverebbe dal modello di governance europea – quanto il c.d. “populismo dei ricchi”, inteso come impulso indiretto da parte della struttura sovranazionale europea ad aspirazioni separatiste da parte delle regioni (o città) più ricche (si pensi ai più palesi e seri casi di Scozia e Catalogna).

È comunque un fatto che fin dalla fondazione delle prime istituzioni politiche europee si è ampiamente discusso circa il ruolo delle comunità locali, regioni in primis ma non solo, e negli ultimi trentanni il loro coinvolgimento in ambito UE si è notevolmente rafforzato. Sia la devoluzione avvenuta spontaneamente in molti stati, sia le politiche comunitarie di coesione che costituiscono uno degli obiettivi fondamentali dell’UE hanno contribuito all’evoluzione del ruolo degli attori locali.

Se l’idea di una “Europa delle regioni” un tempo teorizzata è decisamente tramontata, è altresì vero che l’approccio neofunzionalista e sovranazionale (che privilegia gli attori non statali) ha nel corso degli anni superato nelle aspirazioni il modello intergovernativo (secondo il quale sono gli stati ad essere, di fatto, gli unici attori della politica europea).

Nei fatti in realtà il processo di europeizzazione non ha privilegiato l’uno o l’altro degli attori, bensì ne ha progressivamente incrementato l’interdipendenza e la cooperazione, secondo un modello di multi-level governance all’interno del quale le rivendicazioni del “Patto delle città libere” trovano una loro ragion d’essere.

Un compito delicato non delle sole Istituzioni UE ma dell’Europa nel suo complesso sarà quello di gestire le pulsioni divergenti che esistono nelle società europee nell’attuale momento storico e comporle in una sintesi unitaria accettabile da tutte le parti in causa, e che risponda non solo alle esigenze di tutti, ma che sia anche fermamente rispettosa dei principi fondativi dell’Unione e delle sue aspirazioni a sviluppare un futuro di pace e di crescita economica.

di Paolo Pellegrini