Perché la dichiarazione Onu sui rifugiati è un fallimento

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La firma della Dichiarazione ONU in materia di migranti e rifugiati dello scorso 19 settembre è stata salutata come un grande passo in avanti per tutta la comunità internazionale. Ma stanno davvero così le cose?

Nelle sale tristemente semi-vuote del quartier generale delle Nazioni Unite a New York, lo scorso 19 settembre si è tenuta una riunione plenaria di alto livello su come affrontare la questione dei grandi movimenti di rifugiati e migranti. Nell’occasione è stata adottata ufficialmente la New York Declaration for Refugees and Migrants che esprime la volontà politica dei leader mondiali di proteggere i diritti dei rifugiati e dei migranti, salvare vite umane e condividere la responsabilità per i grandi movimenti su scala globale.

L’iniziativa era partita nel settembre dello scorso anno quando, dal Segreterio Generale e dalla presidenza dell’Assemblea (UNGA) giunse la richiesta, indirizzata a tutti gli stati membri, di avviare una seria discussione sul possibile rafforzamento della cooperazione in materia di flussi migratori e di rifugiati nella prospettiva della nuova agenda per lo sviluppo. Così, nel giugno 2016, con la mediazione di Dina Kawar, rappresentante permanente del Regno Hashemita di Giordania, e di S.E. il Sig David Donoghue, Rappresentante permanente dell’Irlanda, si sono costituiti quattro panel appositi per coinvolgere il mondo della società civile, il settore privato, e le Ong.

La General Assembly Hall delle Nazioni Unite semi-vuota, all'apertura dei lavori del "Summit for Refugees and Migrants". Credits: UN Photo
La General Assembly Hall delle Nazioni Unite semi-vuota, all’apertura dei lavori del “Summit for Refugees and Migrants”. Credits: UN Photo

È stato necessario circa un anno di lavoro per arrivare al testo conclusivo per il quale, il Segreterio Generale dell’Onu Ban Ki-moon, si è congratulato con gli Stati membri perché:

“il vertice…rappresenta un importante passo avanti nei nostri sforzi collettivi per affrontare le sfide della mobilità umana. […] Ora più bambini potranno frequentare le scuole, più lavoratori potranno cercare lavoro all’estero in modo sicuro – invece di essere alla mercé di contrabbandieri criminali – e più persone avranno reali possibilità di scegliere se restare nel loro paese di nascita una volta finiti i conflitti”.

A questo punto, gli Stati membri dovrebbero passare all’implementazione delle indicazioni contenute nella Dichiarazione entro il 2018. Un grande impegno per la comunità internazionale che, in moltissimi, hanno definito uno “storico traguardo” in materia di diritti umani.

A dire il vero però, già dalla lettura della prima draft presentata lo scorso 5 agosto, si poteva capire che il documento avrebbe contenuto raccomandazioni vaghe e inconsistenti (invitiamo i lettori a leggera). Ma ciò che più lascia perplessi, è che buona parte degli Stati membri che si sono impegnati ad implementare le misure espresse durante il summit, stanno già violando i principi che sono alla base della Dichiarazione Onu. Tra questi ci sono Stati Uniti, Russia, Italia, Turchia, Grecia, Giordania, Bangladesh, Camerun, Messico, Ciad, Niger, Myanmar, e molti altri. Infatti, come avevamo già avuto modo di spiegare, non è solo l’Europa ad affrontare l’enorme flusso di esseri umani in cerca di protezione o di condizioni di vita migliori.

Perché parlare di fallimento?

Nel mondo le emergenze umanitarie, così come le reiterate violazioni dei diritti, sono all’ordine del giorno. Riportiamo di seguito alcuni degli esempi più drammatici che fanno riflettere su quanto gli Stati, al di là della retorica usata nel consesso internazionale, adottino policies quantomeno discutibili in materia di migranti e rifugiati.

“The Berm” – Rukban, Giordania

Il Berm, letteralmente “muro di sabbia”, è una grande area nei pressa della cittadina di Rukban, al confine settentrionale tra Siria e Giordania. Questo enorme accampamento ospita circa 75000 persone in fuga dalla guerra, di cui quattro su cinque sono donne e bambini. Dal 21 giugno scorso, per motivi di sicurezza nazionale, il governo giordano ha virtualmente spostato il proprio confine all’esterno del campo, rendendo impossibile per chiunque sia l’accesso che l’uscita. Da allora, la popolazione è bloccata in una striscia di terra inospitale nella quale, a causa della mancata assistenza sanitaria, dell’inadeguato accesso all’acqua e la cibo, le morti continuano a susseguirsi numerose. Non è consentita la presenza di nessun operatore umanitario. Amnesty International ha documentato la costruzione di cimiteri di fortuna (nessuno è autorizzato ad uscire, nemmeno da morto).

Il "berm" visto dall'alto. Questo sito, fino al settembre 2015, non ospitava più di 6000 rifugiati. Nell'arco di un anno la popolazione del campo è cresciuta più di 10 volte. Credits: CNES 2016
Il “berm” visto dall’alto. Questo sito, fino al settembre 2015, non ospitava più di 6000 rifugiati. Nell’arco di un anno la popolazione del campo è cresciuta più di 10 volte. Credits: CNES 2016
Dadaab,  Kenya 

Dadaab è il campo profughi più grande al mondo. Si compone di cinque campi e la sua popolazione è in gran parte somala. Se fosse una città, sarebbe tra le più grandi del Kenya. Il complesso fu inaugurato nel 1991 come rifugio temporaneo per i somali in fuga dalla guerra civile, ma la cronica insicurezza lo ha trasformato in una enorme “città virtuale”. L’insediamento ospita oggi più di 300.000 persone e, nonostante esista da 25 anni, il governo keniota non ha mai consentito la costruzione di strutture permanenti. Nel 2013, per promuovere il rimpatrio volontario dei rifugiati somali, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha mediato un accordo tra i governi di Kenya e Somalia il quale ha portato alla dipartita di appena 14.000 persone. Non passa estate senza che Nairobi minacci di chiudere Dadaab (avvenimento che innescherebbe un drammatico esodo dalle conseguenze imprevedibili), eppure il campo consente al Kenya di raccogliere 100 milioni di dollari l’anno fornendo ai rifugiati, alla popolazione e al personale umanitario fino a 10mila posti di lavoro. Non a caso, oggi Dadaab viene definto dai kenioti un “hub commerciale” sin dall’indipendenza negli anni ’60.

Il versante nord-occidentale del campo di Dadaab, Kenya. Credits: B. Bannon/IOM/UNHCR
Il versante nord-occidentale del campo di Dadaab, Kenya. Credits: B. Bannon/IOM/UNHCR
“The Jungle” – Calais, Francia

“Jungle” è il soprannome dato all’enorme accampamento nei pressi di Calais, nel quale vivono circa 7.000 persone (la maggior parte proveniente dal Sudan e dal Corno d’Africa) che hanno tentato invano di entrare illegalmente nel Regno Unito. Molti di loro sono vittime di storie disumane vissute nel tentativo di attraversare la manica nascosti su autocarri, traghetti, auto, o treni. Come in altri casi, il campo doveva essere una struttura temporanea, ma il fatto che il governo francese – almeno inizialmente – distribuisse viveri, acqua e medicinali, ha attirato moltissimi esuli in cerca di rifugio. Oggi le condizioni risultano altamente precarie. L’igiene è scarsa ed è spesso pericoloso bere l’acqua corrente. Manca l’elettricità e per fare una doccia fredda si possono trascorrere anche sei ore in coda. Le autorità francesi, spinte anche dai sempre più frequenti atti di violenza perpetrati (e subiti) dalla popolazione locale, hanno messo in atto una strategia di graduale espulsione (in piena violazione del principio di non-respingimento) che ha generato scontri e rivolte culminate in brutali atti di violenza. Lo scorso 20 settembre è iniziata la costruzione del muro di quattro metri (interamente finanziato dal governo britannico) che servirà bloccare i tentativi di accesso al porto di Calais e all’Eurotunnel.

Abitazioni di fortuna nel grande campo di Calais, Francia. Credits: Martin Barillas
Abitazioni di fortuna nel grande campo di Calais, Francia. Credits: Martin Barillas
Jabalia Camp, Striscia di Gaza

Quello di Jabalia è il più grande degli otto campi profughi della Striscia di Gaza. Si trova a nord di Gaza City, nei pressi di un villaggio omonimo. Dopo la guerra arabo-israeliana del 1948, 35.000 rifugiati in fuga verso il sud della Palestina si stabilirono nel campo. Oggi sono quasi 110.000 le persone che vivono in questo enorme carcere di cemento, che si estende su una superficie di soli 1,4 chilometri quadrati. A partire dal 2007, per via del blocco imposto da Israele ed Egitto alla Striscia di Gaza, le condizioni di vita a Jabalia sono precipitate. I livelli di disoccupazione sono aumentati drammaticamente, e sempre meno famiglie possono provvedere a sé stesse. Buona parte della popolazione dipende dall’assistenza dell’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi (UNRWA), che fornisce cibo e acqua – anche se il 90 per cento di questa è inadatto al consumo umano.

Bambini palestinesi giocano tra le case del campo di Jabalia. Credits: Wissam Nassar/Al Jazeera
Bambini palestinesi giocano tra le case del campo di Jabalia. Credits: Wissam Nassar/Al Jazeera
Stato del Tamil Nadu, India

Nello Stato indiano del Tamil Nadu sono presenti oltre cento campi profughi nei quali attualmente vivono oltre 60.000 srilankesi. Sono arrivati a metà degli anni ottanta, quando sull’isola di Ceylon infiammava la battaglia tra l’esercito cingalese e le Tigri Tamil (LTTE). Alcune di queste famiglie vivono in questi territori da tre generazioni, ma nessuna di queste gode del diritto di cittadinanza indiana (e molto probabilmente non accadrà mai). Il loro status di rifugiati limita le loro libertà e le opportunità: le aziende private non li reclutano e non possono fare domanda per gli impieghi pubblici; ma non è tutto. Il governo di Nuova Delhi infatti, richiede il pagamento di una fee annua (3600 rupie a persona) per concedere loro di restare sul proprio territorio e, se decidono di vivere al di fuori dei campi, l’importo della tassa aumenta sensibilmente. In molto hanno provato a fare ritorno nel proprio paese ma, la disoccupazione cronica e le spese elevate fanno si che nessuno riesca ad accumulare abbastanza denaro per pagare il viaggio per sè e la propria famiglia. I cingalesi del Tamil Nadu sono prigionieri in un carcere senza pareti.

Un villaggio di rifugiati cingalesi nel Tamil Nadu. Alcuni di loro occupano il territorio da 3 generazioni. Credits: Asia News
Un villaggio di rifugiati cingalesi nel Tamil Nadu. Alcuni di loro occupano il territorio da 3 generazioni. Credits: Asia News
Verso Messico e Stati Uniti

Sono circa 400.000 le persone che, ogni anno, fuggono dal Triangolo Settentrionale del Centro America (NCT). Vengono dall’Honduras, da El Salvador e dal Guatemala, tre dei cinque paesi più pericolosi al mondo. Fuggono verso nord per raggiungere il Messico ed entrare illegalmente negli Stati Uniti. La violenza vissuta da queste persone è simile a quella nelle zone di guerra in tutto il mondo. Omicidi, rapimenti, minacce, reclutamento forzato da parte di gruppi armati, estorsioni e sparizioni sono all’ordine del giorno. Medici Senza Frontiere riferisce che il 68% della popolazione migrante è vittima di violenza durante il transito verso gli Stati Uniti, ed un terzo delle donne subisce violenza sessuale lungo il tragitto. Arrivati a destinazione, i richiedenti asilo vengono tenuti in grossi centri di detenzione (35.000 solo in Messico nel 2015) che spesso mancano di assistenza sanitaria e umanitaria. Lo scorso anno, in netta violazione del principio di non-respingimento, le autorità messicane hanno deportato 165.000 centro-americani, mentre 75.000 sono stati espulsi dagli Stati Uniti. Soltanto lo 0,5% di questi viene accolto con lo status di rifugiato. Ad oggi, il programma di cooperazione in materia di sicurezza (Frontera Sur) che ha decretato l’aumento dei controlli alle frontiere non ha avuto altro esito che alimentare una (già) enorme crisi umanitaria e fortificare la bande criminali che controllano il traffico di esseri umani in Centro-America.

Un militare statunitense arresta un immigrato clandestino nell'area di Rio Grande. Credits: John Moore/Getty Images
Militari statunitensi arrestano un immigrato clandestino nell’area di Rio Grande. Credits: John Moore/Getty Images
Stato del Rakhine, Myanmar

L’esodo dei Rohingya, pressoché sconosciuto in occidente (noi di Zeppelin ne avevamo parlato qui) è conseguenza dei violenti attacchi subiti da parte della maggioranza buddista in Myanmar dal 2012 ad oggi. Molti abitanti non li considerano birmani: li ritengono dei bengalesi musulmani, arrivati con la colonizzazione britannica e, come minoranza senza Stato, non hanno nessun modo per fuggire dal paese, se non quello di rivolgersi ai trafficanti. Secondo le Nazioni Unite, sarebbero circa 6.000 i migranti alla deriva nel mare delle Andamane e in cerca di un approdo, ma secondo altre stime potrebbero essere 30.000. Altri hanno cercato rifugio in Bangladesh, dove circa mezzo milione di loro vive in uno stato di apolidia completa senza status formale di rifugiati. Il resto della popolazione è stanziale nello Stato del Rakhine ma, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) non possono essere proprietari terrieri, non possono andare a scuola, curarsi negli ospedali del paese o avere piena libertà di movimento.

I Rohingya sono considerati tra i popoli più perseguitati al mondo. Credits: Christophe Archambault/Getty
I Rohingya sono considerati tra i popoli più perseguitati al mondo. Credits: Christophe Archambault/Getty

 

Già alla fine del 2014 erano circa 60 milioni le persone nel mondo in fuga dalla guerra, dai conflitti o dalle persecuzioni. Una media giornaliera di 42.500 rifugiati che abbandona la propria casa in cerca di salvezza e protezione. I numeri sono in aumento, e forse servirà ben più di una Dichiarazione Onu per evitare un fallimento collettivo della comunità internazionale in materia di asilo.

di Paolo Iancale