I problemi dell’opposizione cilena

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Il regime di Pinochet, che l’11 settembre del 1973 destituì con un colpo di Stato il governo democratico dell’Unidad Popular di Salvador Allende, aveva inizialmente impostato la propria politica economica e sociale secondo il classico modello da caudillo latinoamericano, mantenendo un ruolo attivo dello Stato in economia con elevate voci di spesa pubblica per tenere a freno le proteste della propria popolazione, altrimenti represse con la forza.

 Col passar degli anni, in Cile, il modello politico-economico divenne difficilmente sostenibile a causa di diverse ondate di crisi interne alla giunta militare oltre a oscillazioni economiche dovute a crisi internazionali. Nei primi anni ‘80 il regime militare, dopo aver vissuto una stagione di duri conflitti, vide cambiare i propri equilibri interni per ciò che riguardava la direzione della politica economica e sociale; buona parte delle gerarchie militari fu estromessa dalla giunta e il regime accolse tra le proprie fila – non senza difficoltà e non senza incomprensioni di molti suoi sostenitori – un’équipe di tecnocrati (i cosiddetti Chicago Boys, così chiamati perché la maggior parte di essi si era formato presso l’Università di Chicago, alla corte di Milton Friedman), che si impegnarono a implementare una vera e propria svolta neo-liberale, trasformando l’intero sistema economico, oltre al quadro sociale e politico.

Si trattò di una vera e propria rivoluzione poiché tale processo modificò radicalmente la struttura intera del paese imponendo un nuovo modello di governo. Il Generale Pinochet per far fronte alle crisi economiche che si riproponevano ciclicamente sperimentò quella che in seguito venne definita una politica economica neo-liberale, ben presto emulata da M. Thatcher e R. Reagan, e da molti altri governi nel mondo. Il gruppo di professori, imprenditori e giovani studenti formatisi a Chicago e in altre università degli Stati Uniti (grazie a dei programmi bilaterali di borse di studio finanziate dal governo statunitense) realizzò quella che è stata definita da Naomi Klein una “terapia dello shock”. Si trattava di un ambizioso e radicale piano di privatizzazioni dei principali servizi garantiti un tempo dallo Stato e di una frettolosa svendita delle maggiori risorse del paese al grande capitale nazionale e transnazionale. Era necessario, pertanto, seguendo alcuni dei principi del filosofo-economista Friedrich Von Hayek, che lo Stato si privasse delle proprie funzioni essenziali, riducendo ai minimi termini la sua attività, smettendo di esercitare così il “proprio potere tirannico” e permettendo che la “vera” libertà potesse esprimersi a livello individuale dentro ad un sistema economico e sociale “liberalizzato”.

Con la caduta della dittatura a seguito del Plebiscito del 1988 e le prime elezioni democratiche vinte dalla Concertacion por la Democracia (una coalizione che raccoglieva al suo interno i principali partiti e movimenti di opposizione di centrosinistra), buona parte della popolazione si aspettò un’inversione di rotta: un piano per il recupero di settori ritenuti strategici per lo Stato, oltre a un ruolo più attivo dello stesso nella gestione delle risorse e nel funzionamento dell’economia e dei servizi.

Le speranze di una riforma democratica dello Stato si rivelarono ben presto tradite poiché i governi di centrosinistra, che per circa un ventennio hanno amministrato il paese, non presero allora sostanzialmente le distanze dal modello economico e sociale ereditato dalla dittatura, ma al contrario, lo accettarono facendolo proprio, con alcune piccole modifiche in ambito di politica sociale e assistenzialista.

Da allora, la prima alternanza di governo si è realizzata solo nel 2009, quando Sebastian Piñera ha raggiunto la presidenza. Per la prima volta dai tempi di Pinochet si è formato un governo di centrodestra, erede politico e convinto sostenitore delle politiche del governo militare. Il Governo Piñera, in carica fino al 2014, ha sostenuto con maggior radicalitá le politiche neoliberali giá consolidate durante il ventennio della Concertación. Proprio per questo, di fronte ad una simile radicalizzazione, si é inaugurata una intensa stagione di contestazione con mobilitazioni sociali che hanno paralizzato a lungo il Paese. Alla fine del 2014, il ritorno alla presidenza di Michelle Bachelet, alla guida di una nuova coalizione Nueva Mayoría (che includeva per la prima volta il Partido Comunista Chileno tra le proprie fila. Da notare che il Pcc accoglieva tra i suoi candidati alcuni protagonisti del movimento studentesco) non ha segnato un vero proprio punto di svolta per il Paese né un’inversione di tendenza. Al tempo stesso, a pochi mesi dal suo insediamento, il Governo é stato travolto da diversi scandali di corruzione che hanno indotto la presidenta a procedere con un imponente rimpasto di governo, con la sostituzione dei principali ministri (l’11 Maggio 2015). Di conseguenza, anche dinanzi ad un governo di centrosinistra, il malcontento sociale non é diminuito; inoltre si é acuita la scarsa fiducia nelle istituzioni statali (il tasso di approvazione della Presidenta Bachelet ha raggiunto in Aprile il minimo storico del 29%).

Chi quindi osserva da vicino le politiche implementate nell’ultimo trentennio dai diversi governi di colore opposto, potrà, non senza stupore, riscontrare una certa linea di continuità: il governo militare, il ventennio della concertacion di centrosinistra, il governo di centrodestra ed infine il ritorno del centrosinistra, sono legati da un unico filo rosso. In altre parole il modello neo-liberale  ha avuto modo di consolidarsi ricevendo il beneplacito della maggioranza della classe politica ed imprenditoriale cilena.

Di riflesso la popolazione ha assistito inerme a molte delle proposte “shock” implementate dai propri governanti non vedendo rappresentata in alcun modo la propria voce all’interno del sistema partitico. Il sistema politico e quello elettorale hanno inoltre favorito una crescente de-politicizzazione della  società che in molti casi si è tradotta in vera e propria alienazione politica.

Gradualmente, tuttavia, si è sviluppata un’opposizione silenziosa che ha iniziato a mettere in discussione le criticità di questo sistema. Tale corrente non ha però trovato spazio all’interno dell’agone politico e della rappresentanza parlamentare a causa di un sistema elettorale binomiale che premia i maggiori partiti. La critica che parte della società civile ha mosso al sistema si è quindi materializzata tramite nuove strategie con la finalità di portare nuove istanze all’interno del dibattito pubblico.

Conseguentemente oggi, nonostante il trionfalismo della classe dirigente cilena, giustificato dagli ottimi indicatori economici e dai livelli occupazionali, esistono diffusi sentimenti di malcontento e di disagio sociale. Questi vengono articolati tramite movimenti locali dal basso: i movimenti sociali.

Questi nuovi soggetti politici, sono in alcuni casi portavoce di battaglie per il riconoscimento di diritti territoriali e ancestrali, e delle rivendicazioni delle popolazioni indigene. Il loro merito è quello di aver mobilitato una cittadinanza divenuta politicamente “amorfa” e scarsamente interessata alla cosa pubblica. L’iniqua ripartizione delle risorse del paese, la forte disuguaglianza economica e sociale favorita dalla radicalità del disegno neo-liberale, l’inesistenza di un sistema di welfare state (tra cui la limitata accessibilità a servizi primari come la sanità e all’istruzione) sono altri elementi al centro della loro critica che identifica i gruppi dirigenti del paese come agenti del grande capitale transnazionale.