Breve storia di una nazione nata suo malgrado grande, ma che non ha mai smesso di sentirsi piccola.
Chi ci legge da molto tempo forse se lo sarà chiesto almeno una volta. Se si escludono due argomenti in cui l’Italia, volente o nolente, è coinvolta – Unione Europea e crisi dei migranti nel Mediterraneo -, oppure casi più legati alla cronaca che all’analisi internazionale quali quello dell’italiano Giulio Regeni assassinato in Egitto, e quello delle vicende dei Marò, sulla nostra rivista abbiamo parlato specificatamente della nostra nazione soltanto in occasione della sua possibile elezione a un seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – a cui si aggiunge la riflessione sull’EXPO di Milano e sull’incapacità del nostro paese di rendere l’esposizione un evento realmente internazionale.
Un bilancio che non lascia molti margini d’appello: tra quelle poche volte in cui abbiamo scritto del Bel Paese, non c’è solo un articolo che vede l’Italia come protagonista attiva, ma piuttosto come elemento chiamato suo malgrado in causa.
Non che la politica estera italiana risulti poi così entusiasmante, in generale. Basta andare su Google News e digitare “Italian Foreign Policy” per vedere come primo risultato un articolo di Foreign Policy dal titolo “Buon Compleanno Mr Bunga Bunga” che lascia poco spazio all’immaginazione circa il suo contenuto.
Ora, una buona fetta dell’opinione pubblica nostrana risponderebbe che non c’è nulla di cui stupirsi, perché l’Italia è un paese marginale, insignificante e che non merita troppa menzione nella cronaca internazionalista di rilievo. Tutta una serie di constatazioni figlie del nostro più becero provincialismo, constatazioni spesso sbagliate.
Partiamo da quella più facile da confutare. Per quanto in molti siano ancora convinti che fare parte “dell’Occidente” significhi vivere in uno spazio geopolitico sicuro, stabile, quasi noioso, l’Italia attualmente si trova alle soglie di due delle più grandi faglie di crisi che attualmente interessano il pianeta: l’esodo forzato dei migranti dal Mediooriente e dall’Africa subsahariana e il caos libico con annessa ascesa di Daesh a poche miglia di distanza dalle nostre coste. Due ragioni che, da sole, dovrebbero garantire al nostro Paese una copertura mediatica giornaliera da parte dei media di tutto il Mondo, ma che invece ci vedono sostanzialmente ignorati, tanto che la “crisi dei rifugiati” è diventata tale a livello mondiale quando ha cominciato a interessare la Germania nel 2014, nonostante il fenomeno ci riguardasse direttamente già da qualche anno.
Anche l’altra grossa argomentazione, ossia che sì, magari ci troviamo in una zona nevralgica, ma che siamo del tutto insignificanti dal punto di vista politico in virtù della nostra debolezza in ambito economico, militare e culturale, nei fatti non sta in piedi. Nonostante il perdurare della stagnazione economica, l’Italia resta una delle dieci economie più sviluppate al mondo, e anche in termini di potenziale bellico rientra nella Top Ten.
La tipica narrazione nazionale che ci vuole intenti a badare solo ai nostri affari è peraltro fallace, in quanto siamo tra i paesi con il maggior numero di militari presenti in missioni all’estero. Dal punto di vista culturale, occorre soltanto ricordare che, al momento, l’Italiano è la quarta lingua più studiata al Mondo, il tutto senza un insieme di nazioni ex coloniali che parlino la nostra lingua come per francese e inglese e senza alcun tipo di supporto da parte dei governi nostrani che si sono via via succeduti negli anni. Tanto insignificante questo Paese perciò non è, nonostante sia una convinzione condivisa da una robusta fetta dell’opinione pubblica.
Insomma, l’Italia nello scacchiere internazionale agisce; il problema tuttavia è che sembra lo faccia senza perseguire un proprio specifico e circoscritto interesse nazionale, forse perché indecisa se dare adito alle sue aspirazioni continentali piuttosto che a quelle mediterranee. Così che la sua politica estera risulti essere confusa e contraddittoria. Le ragioni alla base di questo atteggiamento sono molte, e non sarebbe sufficiente un articolo anche solo per introdurle. Ci si limita qui a citare un caso storico cruciale che può aiutare a comprendere la cronica incapacità da parte del nostro Paese di essere un agente consapevole nel panorama politico internazionale.
Quando Cavour ricevette notizia dello sbarco di Garibaldi in Sicilia, la reazione fu tutt’altro che gioiosa. Secondo le intenzioni dei Savoia infatti, il progetto unitario avrebbe dovuto comprendere esclusivamente l’Alta Italia. Secondo i piani del Conte di Cavour, la nuova Italia doveva essere una specie di Olanda del Mediterraneo: un paese non troppo grande ma ricco e prospero grazie all’uniformità tra il Piemonte e i nuovi territori conquistati. Pochi anni dopo accadde quel che tutti sappiamo, e il Piemonte si ritrovò a gestire un corpo molto più grande rispetto alle proprie capacità, che imponeva di ragionare da grande potenza, qualcosa che il piccolo Stato a cavallo delle Alpi non aveva mai avuto modo di fare nella sua storia plurisecolare.
Spesso si paragona l’unificazione italiana a quella tedesca, e sorprende la decisione e il dinamismo dei tedeschi nei decenni post unitari rispetto alle incertezze e ai numerosi passi indietro commessi dagli italiani (per non parlare poi dei passi falsi, come la beffa in Tunisia ad opera della Francia).
In realtà, se si confrontano i rispettivi percorsi unitari tutto appare limpido come il sole. La Germania si è formata per opera di una Nazione, la Prussia, che da un secolo era già a sua volta una grande potenza. L’unità tedesca è stato il risultato di un processo voluto e perseguito in maniera decisa negli anni. L’Italia invece è stato il frutto di decisioni prese soprattutto da cancellerie situate aldilà dalle Alpi, e si è creata secondo modalità e con risultati che nessuno al tempo avrebbe potuto prevedere, men che meno i suoi principali promotori e futuri regnanti.
L’Italia pensata dall’irredentismo sarebbe dovuta essere, piuttosto, quella del 1848: una confederazione di Stati di dimensioni medie uniti da alcuni interessi comuni in ambito soprattutto internazionale. Il fallimento della coalizione anti asburgica fece naufragare il progetto per via delle defezioni dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie, ma qualcosa di quell’idea perdurò anche dal passaggio al Regno di Savoia al Regno d’Italia.
Secoli e secoli di dominazione straniera hanno fatto sì che il solo interesse delle nazioni italiane fosse limitarsi a sopravvivere in qualche modo. L’unico potere pre-unitario che continuò a costruire una strategia internazionale di ampio respiro fu la Repubblica di Venezia, la quale tuttavia, in epoca risorgimentale, era già morta e sepolta da qualche decennio, per di più dopo un secolo di lunga agonia passato a ritrarsi su sé stessa come nella più classica tradizione degli stati italiani moderni.
Il Regno di Savoia a un certo punto costituì l’eccezione, ma fu eccezione per troppo poco tempo e in ogni caso restando un Paese marginale nello scenario europeo, con scarse possibilità di manovra in autonomia. Una volta a capo dell’intera penisola, i Savoia trasferirono questo tipo di mentalità all’intero Paese, rendendo l’Italia un colosso sgraziato e barcollante fin dai suoi primi anni di vita.
Non a caso l’unica, sola, regola costante nell’agenda politica estera italiana dall’Unità oggi è quella di cercare di indovinare il cavallo vincente sui cui puntare e accodarsi. Una strategia che non è altro che la continuazione della politica di sussistenza degli Stati pre-unitari, i quali per sopravvivere dovevano cercare a tutti i costi d’indovinare chi tra Spagna, Francia e Austria appoggiare in un dato momento. Del resto, fu seguendo questa strategia – e indovinando un paio di cavalli giusti (Francia prima e Prussia poi) – che il Paese riuscì, seppur in maniera rocambolesca, a restare ciò che è.
Naturalmente si potrebbe puntualizzare come in più di 150 anni di storia la mentalità strategica italiana sia potuta cambiare, cosa che non è di fatto avvenuta. Anche qui le ragioni principali risalgono al periodo di decadenza a cavallo tra il XVI e il XIX Secolo. Con l’inizio delle dominazioni straniere in Italia, i nostri antenati persero in larga parte quel dinamismo che ci contraddistinse invece durante il Medioevo e il Rinascimento. La penisola diventò una realtà sempre più marginale dal punto di vista economico e culturale, e questo influenzò anche il modo di pensare degli italiani dell’epoca, concentrati più verso la propria realtà locale che a ciò che accadeva nel Mondo.
Questi secoli di “chiusura” verso l’esterno hanno continuato a pesare (e pesano tutt’oggi) sulla condotta italiana all’estero. Creata da un gruppo di piccole potenze proiettate verso le distese marittime (poiché incapaci di contrapporsi ai grandi Stati Nazioni del nord Europa), l’Italia unita non si è curata di quanto accadesse oltre le Alpi.
Leggendo delle disastrose avventure coloniali italiane, o analizzando la condotta nostrana durante il percorso d’integrazione europea, si nota un ricorrente senso di smarrimento. Il motivo principale risiede nel fatto che la politica estera italiana è stata funzionale all’ottenimento del consenso politico interno, come dimostrano casi quali la novecentesca ossessione verso la formazione dell’Impero, e la poco proficua spedizione in Cina in seguito della Rivolta dei Boxer.
Certamente, qualunque Stato prima di agire al di fuori dei propri confini “misura la temperatura” dell’opinione pubblica. Ma agire solo in funzione di quest’ultima ci ha portati, nel tempo, ad avere un peso specifico inferiore rispetto a quanto realmente fossimo in grado di esprimere, e questo perché incapaci di mettere a punto una strategia di lungo periodo basata sull’interesse nazionale, apparendo inevitabilmente incerti ed inaffidabili agli occhi degli altri paesi.
Del resto, la chiusura italiana durante l’Epoca Moderna ha contribuito a creare quel tipico fatalismo nostrano per cui non conta in fondo cosa si faccia: questo Paese non sarà mai padrone del proprio destino. Considerazione in fondo dettata dal realismo? No, piuttosto un retaggio del passato duro a morire, che già più volte ci ha condotti al disastro.
Questo per via di un assioma semplicissimo: per quanto si possa ignorare la politica globale, prima o poi la politica globale non ignorerà noi.
I circa vent’anni di fascismo sono figli anche dell’incapacità di Vittorio Emanuele Orlando di affrontare Versailles a testa alta, abbandonando il tavolo delle trattative poiché indignato per quella “Vittoria Mutilata” che divenne il carburante per il propagarsi dell’ultra-nazionalismo negli anni successivi. Orlando non fu il principale e unico responsabile, certo, ma fu l’espressione di un Paese che scelse di entrare in guerra senza avere idea di quale fosse il proprio obiettivo.
Per quanto si possa ignorare la politica globale, prima o poi la politica globale non ignorerà noi.
Qualcuno potrebbe dire che, in fondo, l’Italia non ha fatto altro che rispettare il famoso Articolo 11 della sua Costituzione (il ripudio della guerra). Una considerazione per nulla vera, visto il massiccio impiego dei nostri soldati in missioni all’estero. Al contrario, per portare avanti una reale politica pacifista è necessario essere molto abili nello scacchiere internazionale, soprattutto bisogna saper dire “no”. Svezia e Svizzera, due paesi il cui peso a livello globale è di gran lunga superiore alle rispettive capacità militari, costituiscono due esempi perfetti in tal senso.
La gran parte dei problemi che attualmente vive il nostro Paese ha origine, e può trovare risposta, soltanto al di là del nostri confini. Continuare a essere inerti, rifuggire alla formazione di una vera Grand Strategy e cercare di scimmiottare chi sembra più capace di noi (magari lo è, ma proprio per questo seguirà quelli che sono i suoi interessi: vedasi il caso libico nel 2011) non è evidentemente un progetto perseguibile. L’Europa e il Mediterraneo, dimensioni a noi più prossime, restano alla nostra portata.
Se il progetto europeo fallirà non potrà essere solo colpa di Francia e Germania che hanno cercato di cannibalizzarlo, ma anche e soprattutto nostra che, per via della nostra inerzia di fronte a tale atteggiamento, non ci siamo impegnati per impedirlo.
Non tutto però è perduto, se c’è una cosa che insegna la politica internazionale, soprattutto quella contemporanea, è la velocità con cui gli attori possano ribaltare la propria situazione, nel bene e nel male. In uno scenario tanto più veloce quanto più competitivo, il nostro paese si presenta con una economia stagnante sempre meno competitiva, un indice demografico che rischia di portare al collasso del welfare nel giro di una quarantina d’anni e, soprattutto, una notevole tenacità nel tenere la propria popolazione giovane sempre più ai margini.
Oggi molti dei problemi che sta vivendo il nostro Paese hanno una portata globale. Cominciare dunque a riflettere seriamente sul ruolo che l’Italia dovrebbe avere nel Mondo del XXI Secolo potrebbe aiutare a trovare anche le soluzioni per risolvere i propri problemi interni. Non c’è più spazio per il disfattismo quasi compiaciuto che si prova nel vedere il nostro paese fallire in tutto ciò che fa: in palio, c’è il futuro.
Mirko Annunziata