Potere e oppressione

All’alba del nuovo millennio il mondo pensava di essersi lasciato alle spalle la barbarie, eppure in tutto il pianeta ci sono milioni di persone che soffrono le più crudeli persecuzioni. Queste sono le loro storie.


Per capire a cosa si fa riferimento quando si parla di oppressione è necessario stabilire un criterio oggettivo che ci permetta di identificarla. Secondo la definizione che ne dà la filosofa e attivista statunitense Iris Young, l’oppressione è l’esercizio della tirannia da parte di un gruppo dominante ai danni di un altro gruppo (siano essi gruppi etnici, religiosi, di genere, di classe ecc.).

Young afferma che esistono cinque diverse tipologie di oppressione: sfruttamento, violenza, marginalizzazione, mancanza di potere e imperialismo culturale.

Si identifica come sfruttamento l’atto di utilizzare il lavoro di alcune persone per ottenere un guadagno, senza ricompensarle in modo equo. Ciò crea inevitabilmente una divisione in classi sociali: coloro che sfruttano e coloro che sono sfruttati. Molto probabilmente i primi saranno ricchi e i secondi poveri. Questa situazione è destinata a perpetuarsi nel tempo, rendendo sempre più ricchi gli uni e sempre più poveri gli altri. In questo caso è evidente come gli sfruttatori opprimano gli sfruttati e all’interno della società si evidenzia una rima di frattura lungo l’asse della divisione in due grandi classi sociali. È per protestare contro questo genere di oppressione che Marx ha teorizzato il comunismo, affermando che il sistema capitalistico di produzione generi proprio questo tipo di comportamento oppressivo.

La violenza è senza dubbio la forma più ovvia di oppressione. Omicidi, torture, esecuzioni di massa, violenze sessuali, mutilazioni rientrano all’interno di questa categoria particolarmente odiosa. Quando gli appartenenti ad una popolazione temono continui ed indiscriminati attacchi fisici nei propri confronti significa che ci troviamo di fronte ad un comportamento oppressivo violento. Anche attacchi ingiustificati contro le proprietà di appartenenti ad una minoranza sono da considerarsi “violenze”. Molto spesso, come vedremo, interi villaggi vengono dati alle fiamme per far sì che una determinata popolazione abbandoni per sempre un dato territorio.

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La marginalizzazione riguarda, invece, l’esclusione di una minoranza dalla vita sociale in una determinata società. La minoranza viene, appunto, confinata ai margini. Il processo di marginalizzazione può essere considerato anche peggiore di quello di sfruttamento, in quanto i membri della minoranza marginalizzata non sono considerati degni nemmeno di essere sfruttati. Sono esclusi completamente dall’accesso a qualunque tipo di risorsa disponibile in una data società. Compreso il lavoro. Ciò rende la sopravvivenza degli appartenenti a questa minoranza estremamente complicata. Molto spesso questo genere di comportamento oppressivo sfocia in un comportamento violento che in alcuni casi arriva fino al genocidio. Basti pensare a quanto successo agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale: prima esclusi dalla società e infine deliberatamente sterminati.

La mancanza di accesso al potere è invece considerata la peggior forma di oppressione. Si tratta della totale subordinazione di alcuni individui rispetto ad un gruppo dirigente dominante. Si collega con la teoria marxista dello sfruttamento in quanto anche in questo caso la rima di frattura va a generare due classi: quella dei dominati e quella dei dominatori.

Se portata agli estremi, quando entra in profondità all’interno di un gruppo sociale discriminato, la mancanza di accesso al potere può divenire molto insidiosa. Harriet Tubman, uno schiavo afroamericano liberato divenuto abolizionista, affermò che se gli altri schiavi fossero stati consapevoli dell’ingiustizia della loro posizione sociale, avrebbe potuto liberarne molti di più.

1860. Donne e bambini al lavoro in un campo di cotone. J. H. Aylsworth, via Museo Nazionale Smithsonian

È qui che si nasconde l’insidia di questo tipo di comportamento oppressivo. Se esso dovesse essere perpetuato, si arriverebbe alla paradossale situazione nella quale l’oppresso non si rende conto di esserlo. Sarebbe infatti il primo a considerare la sua condizione come del tutto normale. È così che va, perché è così che è sempre andata. Estremizzando ulteriormente questo tipo di comportamento oppressivo si arriverebbe a quella che il pedagogista brasiliano Freire chiama “cultura del silenzio”.

Ci sono differenti gradi di silenzio dell’oppresso. Si parte da quello impostogli, quando all’escluso è vietato persino di parlare della propria condizione, per arrivare ad una situazione nella quale è lo stesso escluso dall’accesso al potere che sceglie di non farne menzione. La ritiene giusta, in quanto l’immagine che ha di sé stesso è quella dello schiavo che non merita una condizione migliore in quanto non ne è degno.

Infine, l’imperialismo culturale è l’imposizione della cultura del gruppo dominante a tutte le minoranze di un dato territorio. Riguarda tutti gli aspetti della vita: dalla lingua che deve essere utilizzata per comunicare, al modo di vestire; dalla religione che deve essere praticata, a ciò che può essere insegnato nelle scuole. Gli oppressi non avrebbero dunque diritto a parlare nella propria lingua ed a tramandare le proprie tradizioni popolari, subendo un processo di assimilazione culturale.

Singolarmente o combinati insieme questi elementi caratterizzano il comportamento oppressivo del gruppo dominante.

Ma come può essere legittimata l’oppressione? Secondo quello che viene considerato il più importante sociologo del XX secolo, Max Weber, questa liceità si collega direttamente con la legittimità che viene attribuita al potere del gruppo dominante. Il potere corrisponde alla capacità di un individuo di produrre effetti sulla realtà. Quando questo potere ha per oggetto altri esseri umani, si parla di potere sociale. Una particolare categoria subordinata di suddetto potere sociale è il potere politico.

Lo studioso tedesco identifica tre diverse tipologie di potere politico legittimo, ovvero quello tradizionale, quello carismatico e quello razional-legale.

Il potere tradizionale è quello che poggia sulla credenza nella sacralità di tradizioni valide da sempre. In questo caso la legittimità deriva dal passato, si basa sul sentimento che “così è sempre stato”. È il potere del re oppure del padre nelle famiglie patriarcali.

[La regina d’Inghilterra Elisabetta II, esempio di potere tradizionale]. Credits to AP

Il potere carismatico è quello che fa riferimento a una qualità personale di un individuo particolare che viene considerato eletto rispetto a tutti gli altri. La legittimità deriva appunto da questa straordinaria qualità personale che può essere la dedizione di un uomo verso il suo popolo, il carattere sacro di questa persona oppure il suo carattere eroico. Questo tipo di legittimità spiega l’obbedienza che si deve ai profeti oppure ai grandi condottieri.

[Napoleone Bonaparte, esempio di potere carismatico]. Credits to MeteoWeb

Sebbene questo particolare tipo di potere possa portare a grandissimi mutamenti, in quanto l’obbedienza dovuta all’uomo che possiede il “carisma” è assoluta, si pone il problema della successione una volta che questi sia morto. Tale processo, che Weber chiama di “routinizzazione del carisma”, è delicato.

Infine il potere razional-legale poggia sulla credenza nella legalità degli ordinamenti e nel diritto di chi governa in base ad essi. Ovviamente in questo caso l’obbedienza non è prestata nei confronti di una persona fisica, bensì nei confronti della legge. Essa trae la propria legittimità dal fatto di essere il frutto di un procedimento razionale determinato da una discussione pacifica.

[La Camera dei Comuni del parlamento britannico, esempio di potere razional-legale]. Credits to AP

Esistono regole che consentono l’evolvere delle leggi in base al mutamento dei tempi, permettendo agli ordinamenti di perpetuarsi.

Ciò che accomuna queste differenti tipologie di potere politico è che il ricorso alla forza non scompare. Al contrario, la forza è monopolizzata dal gruppo dominante proprio grazie alla legittimazione di cui gode e può essere utilizzata in modo legittimo contro chi, all’interno della società, si oppone alle regole che il detentore del potere, dunque il gruppo dominante, ha stabilito.

Anche Carl Schmitt, controverso giurista e politologo tedesco che aderì al nazionalsocialismo, e la cui opera è oggi largamente studiata e conosciuta, era convinto che in particolari casi di necessità, ovvero quando le istituzioni dello Stato fossero in pericolo, la Costituzione potesse essere sospesa e misure eccezionali dovessero essere prese.

Schmitt affermava che il compito principale dello Stato fosse quello di garantire ordine e sicurezza ai propri cittadini. In questo ambito, era prerogativa dello stesso Stato, in casi eccezionali, definire il nemico interno descrivendo come tale il gruppo che veniva percepito come una minaccia per l’esistenza delle istituzioni statali.

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Gli interrogativi principali rispetto a questa convinzione erano relativi alla necessità di comprendere chi avesse il diritto di agire contro la suprema legge dello Stato e quali criteri dovessero essere adottati per stabilire se fosse legittimo ricorrere ad una sospensione della Costituzione. Schmitt si concentrò dunque sul ruolo del Presidente della Repubblica. Chi si fosse trovato ad occupare questa posizione, in un ordinamento che ne avrebbe previsto l’elezione popolare diretta, avrebbe avuto la prerogativa di decidere quali gruppi non avrebbero potuto acquisire legalmente il potere, perché pericolosi per la sopravvivenza dello Stato. Arrivando anche alla sospensione delle garanzie costituzionali per consentire il contrasto a questi stessi gruppi.

Ecco che per vie legali si torna al concetto di oppressione, intesa come violenza quando si parla di utilizzo della forza o come mancanza di accesso al potere, marginalizzazione ed in alcuni casi persino imperialismo culturale quando si parla dell’esclusione di alcuni gruppi dalla partecipazione alla gestione della cosa pubblica e della vita pubblica stessa.

La degenerazione di queste teorizzazioni, quando viene messa in pratica e portata all’estremo, diventa inevitabilmente genesi di orribili crimini contro l’umanità. La barbarie di cui da sempre l’uomo ha dato prova di essere capace, viene applicata in modo sistematico nei confronti di chi non ha reali possibilità di difendersi, in quanto estraneo al gruppo dominante. Che diventa quindi oppressore e giustiziere, in quanto le azioni spesso criminali che vengono intraprese ai danni degli oppressi sono considerate legittime oppure legittimate da un bene superiore: la conservazione delle istituzioni statali o religiose.

Ma quali sono i popoli che vivono in questa particolare condizione?

di Riccardo Allegri