La Rivoluzione siriana, 5 anni dopo

I residenti di Maarat al-Nouman (Idlib) protestano contro il regime siriano sventolando la bandiera siriana in vigore prima della salita degli Assad al potere, cioè quella dell'indipendenza, adottata subito dopo la fine del domino francese, 4/03/2016. Credits to: Khalil Ashawi/Reuters
I residenti di Maarat al-Nouman (Idlib) protestano contro il regime siriano sventolando la bandiera siriana in vigore prima della salita degli Assad al potere, cioè quella dell'indipendenza, adottata subito dopo la fine del domino francese, 4/03/2016. Credits to: Khalil Ashawi/Reuters
La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
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La Primavera Araba siriana non è considerata da molti come una “primavera”. Esiste però una parte della società civile siriana che durante il cessate il fuoco è nuovamente scesa in piazza pacificamente per rivendicare le istanze della ribellione. Cosa implica alla luce dei colloqui di pace?

Harriye e Karama. Libertà e Dignità. Queste le parole scandite dai siriani che negli ultimi giorni, approfittando del cessate il fuoco, sono di nuovo scesi in piazza contro il regime, rivendicando le istanze della Rivoluzione del 2011. Negli ultimi anni l’attenzione sulla Siria si è focalizzata sulle dinamiche militari, e l’avanzata di ISIS ha finito per avvalorare la teoria del male minore, secondo cui un regime dittatoriale e repressivo come quello di Assad è preferibile a un sedicente Stato Islamico che s’impone con la forza all’interno di una regione dove è in corso una lotta geopolitica per l’egemonia. Ma in Siria c’è anche altro, attori dimenticati e inascoltati, tra cui molti cittadini siriani, una società civile che, nonostante la repressione continua a (r)esistere.

Come avevamo visto qui, la Primavera Araba soffiò in Siria 5 anni fa, il 15 marzo 2011, quando la goccia che fece traboccare il vaso (dopo decenni di umiliazioni e repressione) fu l’arresto e la tortura, da parte delle forze di sicurezza siriane, di alcuni bambini di Deraa, rei di aver scritto slogan anti-regime sui muri della propria scuola. Le prime proteste pacifiche di Deraa si estesero presto a tutto il Paese, portando in piazza milioni di siriani, di diverse etnie e religioni, tutti fianco a fianco al grido di “il popolo siriano è uno”. Chiedevano al governo Assad – e alla sua famiglia al potere da 40 anni – riforme, diritti umani e civili e la scarcerazione dei prigionieri politici. Affrontati con pallottole e carri armati, i manifestanti cominciarono a chiedere la caduta del regime.


Protesta anti-regime ad Aleppo, al grido “Harriye”, cioè libertà. 9/10/2012.

Da allora, la repressione e la guerra hanno causato, secondo recenti stime del Syrian Centre for Policy Research (SCPR), quasi mezzo milione di morti, quasi 5 milioni di rifugiati fuori dalla Siria e circa 9 milioni di sfollati all’interno della Siria (su una popolazione totale originaria di 23 milioni).

Dati sui morti e sui rifugiati siriani aggiornati a Febbraio 2016. Credito to: AFP
Dati sui morti e sui rifugiati siriani aggiornati a Febbraio 2016. Credito to: AFP

La brutalità del regime, di al-Nusra e ISIS, la comparsa di fazioni islamiste, hanno schiacciato quel movimento di protesta pacifico, che per anni diversi analisti hanno dato per morto. C’è chi ha parlato di rivoluzione tradita, chi di rivoluzione rubata, chi di Primavera Araba ormai morta in un “triste inverno” e, indubbiamente, la guerra ha portato disillusione e amarezza in quei siriani che volevano solo diritti e che oggi si ritrovano un Paese distrutto.

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Ma è davvero così? La generazione di giovani che nel 2011 scese in piazza è stata sterminata o costretta all’esilio, ma non decimata. In tutti questi anni, nonostante le bombe, i cittadini delle zone sotto il controllo dell’opposizione hanno continuato a manifestare, seppur in maniera inconstante e con numeri ridotti per via dei bombardamenti quotidiani. Simbolo di queste proteste è Kafranbel (Idlib), divenuta famosa per i suoi banner e poster colorati di protesta contro il regime, contro al- Nusra (e per questo repressa, anche con attentati, dal gruppo terrorista), contro ISIS e contro l’indifferenza della comunità internazionale. Ma qualcosa sta cambiando. Il recente “cessate il fuoco“, nonostante lo scetticismo iniziale, le sue lacune strutturali e le violazioni registrate quotidianamente, nel complesso regge, ed ha già prodotto i primi, inaspettati risultati.

Protesta a Maarat al Nouman (Idlib), la cittadina dove a febbraio caccia russi centrarono un ospedale di Medici Senza Frontiere. Il banner dice: “Il coprifuoco è il coprifuoco; la nostra rivoluzione pacifica è ancora in corso fino alla caduta di Assad per imporre la giustizia su tutta la Siria”. 4/03/2016. Credits to: Khaled-al-essa
Protesta a Maarat al Nouman (Idlib), la cittadina dove a febbraio caccia russi centrarono un ospedale di Medici Senza Frontiere. Il banner dice: “Il coprifuoco è il coprifuoco; la nostra rivoluzione pacifica è ancora in corso fino alla caduta di Assad per imporre la giustizia su tutta la Siria”. 4/03/2016. Credits to: Khaled-al-essa

Approfittando della diminuzione dei bombardamenti e con lo slogan “la rivoluzione continua“, i siriani, bambini compresi, sono di nuovo scesi a migliaia nelle strade, riproponendo i canti che caratterizzavano le prime proteste del 2011 e sventolando la bandiera siriana pre-baathista, in vigore prima della salita degli Assad al potere, cioè quella dell’indipendenza, adottata subito dopo la fine del domino francese.

Solo il 4 marzo si sono registrate 104 manifestazioni nelle province di Aleppo, Idlib, Homs, Damasco, Deraa e persino Latakia. Tra queste Maarat al-Nouman (Idlib), Anjarah e Azaz (Aleppo), al-Waer e Talbise (Homs), Deir al-Asafir e Jobar (sud di Damasco), Douma (est di Damasco), Nawa e Harak (Deraa). Le richieste, espresse nel manifesto dei giovani di Deraa, sono sempre le stesse di 5 anni fa (tra cui scarcerazione dei prigionieri politici, libertà di stampa ed espressione, riforme economiche e delle istituzioni statali in chiave democratica, abolizione della politica del partito unico, lotta alla corruzione, un sistema giudiziario indipendente, ecc…) e, come 5 anni fa, non si sono viste bandiere di fazioni islamiste.


Protesta a Maarat al-Nouman (Idlib), 4/03/2016. Credits to: Hadi Alabdallah

Un déjà-vu dunque? Sì e no, perchè la società civile siriana non ha mai smesso di auto-organizzarsi e auto-governarsi laddove ha avuto la possibilità di sfuggire al giogo del regime e dei terroristi. Esistono molti casi di cittadine in mano all’opposizione auto-governate da Comitati e Consigli Locali democraticamente eletti che provvedono ai servizi civili (eletticità, acqua, sanità, istruzione ecc..) e alla gestione delle città. Si stima che in tutta la Siria, nei territori dell’opposizione, siano 416 i Consigli Locali che amministrano le città, previe libere elezioni locali, sotto i bombardamenti, così come sono centinaia le associazioni della società civile (ONG, reti di attivisti, la Protezione Civile nota come Elmetti Bianchi, circoli di intellettuali ecc..) che per la prima volta dopo la cacciata delle autorità governative hanno avuto la possibilità di prosperare, senza censura né repressione. Per avere un’idea dell’estensione del fenomeno, si consiglia questa prima mappatura degli attori della società civile siriana.

Il banner legge: “2011-2012-2013-2014-2015-2016 e vogliamo ancora la libertà”. Aleppo, 4/03/2016. Credits to: Buzzfeed.
Il banner legge: “2011-2012-2013-2014-2015-2016 e vogliamo ancora la libertà”. Aleppo, 4/03/2016. Credits to: Buzzfeed.

Il rifiorire spontaneo delle proteste di questi giorni ha una valenza straordinaria per molti motivi. Innanzitutto dimostra che in Siria esiste ancora una società civile che non si arrende alla violenza e al terrorismo e che è ancora salda nei suoi propositi per una Siria pluralista. La guerra non ha eliminato questa alternativa pacifica, l’ha solo schiacciata; ma se le bombe tacciono, alla prima occasione riprende vita. La pacificazione della Siria passa necessariamente dal popolo siriano che, se tutelato (da un diritto internazionale ripetutamente violato), non avrebbe neanche bisogno di una dittatura militare per arginare il pericolo del terrorismo.

In secondo luogo, le manifestazioni di questi giorni dimostrano che le forze di opposizione moderate note come Free Syria Army (Esercito Siriano Libero in italiano) hanno ancora sostegno popolare: molti manifestanti hanno sventolato la bandiera adottata dall’FSA, ed hanno chiesto a gran voce, oltre alla caduta del regime, l’unità delle forze ribelli. A questo proposito, è significativo quanto accaduto il 13 marzo a Maarat al-Nouman (Idlib), controllata dalla Divisione 13 dell’FSA. Qui la popolazione scesa in strada con la bandiera della Rivoluzione è stata attaccata da al-Nusra, che chiaramente osteggia le istanze democratiche della Rivoluzione e considera l’FSA traditori. L’FSA ha difeso i manifestanti, come 5 anni fa li difendeva dalle forze di sicurezza del regime, e in questi giorni si registrano scontri (armati) tra Nusra ed FSA.

Protesta anti-regime a Talbisieh (Homs), 4/03/2016. Credits to: MAHMOUD TAHA/AFP
Protesta anti-regime a Talbisieh (Homs), 4/03/2016. Credits to: MAHMOUD TAHA/AFP

Infine, questo rifiorire delle istanze della Primavera Araba siriana potrebbe avere una valenza importante alla luce dei colloqui di pace tuttora in corso: dimostra non solo che non si possono ignorare le richieste e i sacrifici di quella maggioranza del popolo siriano repressa dal regime da un lato e da Nusra/ISIS dall’altro, ma che non si può neanche pretendere che venga riscritto il patto sociale con lo stesso regime che ha represso qualsiasi istanza di cambiamento (come infatti l’opposizione siriana chiede da mesi ai tavoli di Ginevra). L’8 febbraio una Commissione d’Inchiesta Indipendente dell’ONU ha pubblicato un dettagliato rapporto in cui conclude che le torture e le morti di massa che avvengono nelle carceri del regime siriano ammontano a “una politica di stato di sterminio della popolazione civile“, ampiamente documentata. Il caso Caesar è un monito che aleggia sui colloqui di pace e il messaggio dei siriani in piazza è rivolto ai potenti che a Ginevra stanno decidendo le sorti del Paese.

di Samantha Falciatori