Perché le guerre asimmetriche sono così difficili da vincere

https://cdn.theatlantic.com/assets/media/img/photo/2014/09/afghanistan-the-long-withdrawal/a05_01522938/main_1200.jpg?1420489943

Nel caos della guerra asimmetrica, le classiche strategie militari entrano in crisi e non riescono a scardinare quello che è stato definito il “trilemma impossibile della controinsurrezione”.


Il “trilemma impossibile della controinsurrezione” offre un modello teorico per concettualizzare le problematiche che i vertici politici, specie nei paesi democratici, devono affrontare nella lunga corsa verso il raggiungimento dei principali obiettivi strategici legati alla lotta controinsurrezionale. La guerra invisibile nello Yemen (illustrata a più riprese da Zeppelin qui, qui e qui), rappresenta un caso studio d’eccezione per sondare le caratteristiche del trilemma.

Sono state definite nei modi più vari: guerre di terzo tipo, di quarta generazione, nuove guerre, guerre asimmetriche, guerre infinite, guerre di controinsorgenza. Muoversi nel bandolo della matassa richiede un contorsionismo terminologico che non sta certo a noi promuovere, e le parole sono importanti. Basti sottolineare, in questa sede, che il fenomeno “guerra” ha subito negli ultimi decenni graduali e irrefutabili cambiamenti, e che a dominare, oggi, è il concetto di asimmetria, ovvero l’insieme delle differenze quantitative e qualitative che separano i contendenti sul campo di battaglia.

Le asimmetrie esistenti tra gli attori statuali e i loro nemici odierni – forze insurrezionali, criminalità organizzata, stati canaglia, gruppi armati autonomisti – riguardano fattori materiali – uomini, armi, mezzi e risorse – e immateriali – obiettivi tattici di breve e lungo termine, valori espressi attorno ai concetti stessi di vita e di morte, responsabilità di fronte al grande pubblico.

Perfino la più grande potenza militare della Storia, gli Stati Uniti d’America, ha sperimentato difficoltà e fallimenti d’ogni sorta nelle guerre della contemporaneità: Corea, Vietnam, Somalia, Iraq, Afghanistan. Una lunga serie d’insuccessi dovuti non certo alla carenza di potenziale bellico, ma all’esistenza e all’insistenza di profonde e laceranti asimmetrie tra le forze oppositrici, sapientemente sfruttate dai deboli per sconfiggere il forte.

Il “trilemma impossibile della controinsurrezione”, concettualizzato da Lorenzo Zambernardi (“Counterinsurgency’s Impossible Trilemma”, The Washington Quarterly, 2010) illustra con chiarezza alcune delle difficoltà che le nazioni sovrane incontrano nella guerra asimmetrica.

Il “trilemma” è graficamente rappresentato da un triangolo ai cui vertici sono posti i principali obiettivi strategici della guerra controinsurrezionale:

  1. Force Protection: protezione e salvaguardia delle proprie truppe.
  2. Physical destruction of insurgents: distruzione delle forze oppositrici.
  3. Distinguish combatants from non-combatants: protezione della popola­zione civile.

Lorenzo Zambernardi afferma che solo due di questi tre obiettivi possono essere perseguiti contemporaneamente. È questa l’essenza del trilemma.


trilemma impossibile della controinsurrezione
credits to: Francesco Balucani (click per ingrandire)

La riottosità nel veder morire i propri soldati negli odierni campi di battaglia è il primo tratto caratteristico della guerra asimmetrica. Se solo cento anni fa gli eserciti europei venivano mandati al massacro nelle battaglie della Somme e della Marna, con un conteggio delle vittime ben al di sopra del milione, nel 1993 sono bastati 18 soldati morti per convincere Bill Clinton a ritirarsi dalla Somalia e cancellare l’intera operazione Restore Hope; guerra post-eroica o a-zero-morti è stata definita in ambito accademico.

Force Protection – AP Photo / Shakh Aivazov

Le grandi potenze democratiche, pesantemente influenzate da un’opinione pubblica aprioristicamente disgustata dalla violenza, sono ormai incapaci di subire perdite eccessive sui campi di battaglia. Al contrario, gruppi insurrezionali e forze armate irregolari non rispondono delle proprie azioni ad alcuna platea internazionale, e possono permettersi di violare e bypassare le più comuni norme etiche e sociali siglate nella contemporaneità, come dimostrano le violenze e gli abusi perpetrati ai danni della popolazione civile o il reclutamento coatto di bambini soldato.

La distruzione delle forze oppositrici rappresenta il secondo obiettivo principe della lotta controinsurrezionale. Detto in soldoni: se non sconfiggo il nemico, la guerra stessa perde di significato. Più facile a dirsi che a farsi, in un mondo dove il confine tra civile e militare è diventato talmente labile da non poter più essere rilevato distintamente, dove gli oppositori sembrano comportarsi più da spettri che da soldati, svanendo senza preavviso né schema. Le recenti esperienze in Iraq e in Afghanistan lo illustrano chiaramente. Sconfiggere un nemico che adotta tattiche di guerriglia implica un impegno enorme in termini diatopici, diacronici e soprattutto finanziari.

Physical destruction of insurgents – Foto di Aleppo dopo i bombardamenti russi – Hosam Katan / Reuters

La distinzione tra militare e civile rappresenta il terzo obiettivo nel trilemma della controinsorgenza. Proteggere la popolazione civile da abusi ingiustificati rappresenta una priorità indiscussa nelle agende politiche delle nazioni impegnate nelle guerre controinsurrezionali. Negli ultimi decenni la proporzione tra vittime civili e militari si è completamente invertita a scapito della popolazione civile e la legge degli innocenti è caduta negli antri oscuri della storia. Anzi, viene da più parti suggerito che la popolazione civile rappresenta ora il vero e proprio centro di gravità della guerra asimmetrica. Del resto, la crescita del terrorismo transnazionale non è che una terribile e lampante dimostrazione di questo assunto. La distruzione della società civile e dei suoi simboli tramutata in tattica militare.

Distinguish combatants from non-combatants – Soldati statunitensi in Afghanistan – credits: New Statesman / 30 novembre 2009

Il dilemma – trilemma, in questo caso – sorge nel momento della scelta strategica. Cosa prediligere? Cosa trascurare?

Prima opzione: se scelgo di salvaguardare l’integrità fisica dei miei soldati, ma al contempo pretendo di sconfiggere il nemico, la soluzione è rappresentata dal potere aereo e dalla tecnologia missilistica. Oltre a far lievitare esponenzialmente i costi, una strategia di questo tipo mette a repentaglio la vita dei civili e l’integrità delle infrastrutture dedicate alla gestione dei sistemi vitali. L’Amministrazione Obama ha fatto grande uso di questa strategia, incrementando a dismisura l’impiego di droni da ingaggio sul campo di battaglia. Meno soldati, più macchine. L’uomo in divisa che diventa un funzionario sedentario col joystick in mano. La guerra che diventa un videogioco.

Seconda opzione: se decido di sconfiggere il nemico nel breve-medio termine e proteggere nei limiti del possibile la popolazione civile, non posso far altro che schierare truppe sul terreno e affidare alla fanteria le principali mansioni tattiche. La copertura aerea è limitata al minimo, i bombardamenti a tappeto cassati, i droni impiegati a solo scopo perlustrativo. I soldati sul campo corrono rischi estremamente elevati, ma non dovrebbero esservi danni collaterali rilevanti.

Terza opzione: in alternativa, posso anteporre la salvaguardia dell’integrità fisica dei soldati schierati sul campo e della popolazione civile agli obiettivi strategici di medio-lungo termine, riducendo al minimo la presenza delle unità militari sul terreno e ridimensionando il ruolo dell’aeronautica a compiti di perlustrazione e pattugliamento. Quest’ultima combinazione ha il vantaggio di perorare una guerra a zero morti, ma provoca una dilatazione teoricamente infinita dei tempi, un accrescimento indetermi­nato delle spese e pone i vertici militari nell’impossibilità di sconfiggere militarmente il nemico.

Cosa fare, dunque? Ciascuna delle opzioni descritte presenta delle criticità. Per fare chiarezza, prendiamo in esame un caso studio emblematico: lo Yemen.

via Bbc

Azzardiamo uno scenario fantapolitico: gli Stati Uniti, inclini a giocare un ruolo ancora più partecipativo nella regione mediorientale, varano un provvedimento per intervenire militarmente nello Yemen e ripristinare lo stato di diritto. Dopo la distensione dei rapporti con l’Iran di Hassan Rouhani, il buon senso impone al governo americano di schierarsi affianco dei ribelli sciiti fedeli all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, che controllano la metà occidentale del paese, compresa la capitale Sana’a. Nel paese sono presenti roccaforti di al-Qaeda (al-Qaeda in the Arab Peninsula – Aqap), gruppi armati secessionisti, milizie sunnite fedeli a Daesh e città portuali dedite alla pirateria costiera nelle acque del Mar Arabico. Lo Yemen rappresenta un vero e proprio “incubo strategico”.

Quale strategia adottare, alla luce del “trilemma impossibile della controinsurrezione”?

  • force protection & physical destruction of insurgents.
    Pro: poche perdite sul campo e grande efficacia tattica.
    Contro: la sofferenza portata alla popolazione civile e alle strutture vitali della società dai bombardamenti americani alienano le simpatie della stampa internazionale, dell’opinione pubblica interna e dell’intero mondo sunnita, alimentando la spirale terroristica e ledendo ancor più l’immagine del Paese in Asia.
  • force protection & distinguish combatants from non-combatants.
    Pro: poche perdite sul campo e tra la popolazione civile.
    Contro: scarsa o nulla efficacia tattica. Le poche truppe sul campo sono rintanate nei bunker fortificati e l’aeronautica svolge compiti di mero pattugliamento. I tempi si dilatano, i costi lievitano e cominciano a montare accuse di inettitudine da parte dell’Iran e della coalizione sciita. Ben presto l’opinione pubblica perde interesse e la situazione si congela in un limbo di inattivismo strategico.
  • physical destruction of insurgents & distinguish combatants from non-combatants.
    Pro: grande efficacia tattica e poche perdite tra la popolazione civile. Le organizzazioni umanitarie impegnate sul campo sono relativamente tranquille, la popolazione percepisce i soldati americani come una presenza non ostile e le forze oppositrici si trovano sopraffatte.
    Contro: sul medio-lungo termine, le perdite militari subite e le bandiere perennemente a mezz’asta adirano l’opinione pubblica interna, che non comprende le ragioni del conflitto. Gran parte della stampa internazionale comincia a parlare di neo-imperialismo e l’intero mondo sunnita rompe le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, compromettendo la sicurezza di Israele. La Presidenza statunitense perde capitale politico e in carenza di risultati rapidi e concreti rischia di doversi ritirare dall’area.

Com’è possibile constatare, ogni scelta strategica comporta vantaggi e svantaggi sul breve e sul lungo termine. Malgrado la geometria del modello sembri rigida, sono possibili scelte mediane tra le opzioni illustrate. Muoversi con intelligenza nel triangolo del trilemma rappresenta la grande sfida strategica di oggi.

di Francesco Balucani