Geografia del Rischio: Maghreb

credits: Xinhua / Allpix Press

Due settimane fa, in questo articolo nato sulla scia dei due tragici attentati in Mali, abbiamo analizzato la precaria situazione dell’Africa Occidentale rispetto alla proliferazione dei gruppi armati jihadisti, notando come la peggiore delle ipotesi possa portare alla creazione di un fronte estremista unico che dall’Oceano Atlantico attraversi il Sahara toccando le sponde del Mediterraneo.

L’assalto al Museo del Bardo a Tunisi (anticipato da un vano tentativo di irrompere dentro il Parlamento)  e costato la vita a 23 civili, impone un ulteriore excursus su un alternativo e ipotetico scacchiere di crisi, questa volta nel Maghreb, a Nord del grande deserto.

L’attentato è stato rivendicato dalla “succursale” dell’Isis in Libia, che durante questi mesi ha gettato nel panico le opinione pubbliche mondiali, in particolare quella italiana per ovvie ragioni di vicinanza, spinta a  ipotizzare un intervento armato, anche per la paura che il problema del terrorismo si mischi con quello delle migrazioni e dei profughi.

Come è stato fatto notare da diversi analisti, ciò che i media definiscono “Isis in Libia” sono in realtà gruppuscoli jihadisti già operativi da alcuni anni, sorti dal caos scatenatosi a seguito della guerra civile del 2011 e frutto dell’attuale clima di polverizzazione del potere vigente all’interno del paese. Per queste formazioni, sparpagliate sul territorio libico, alzare la bandiera nera del “Califfato” significa in primo luogo dare una risonanza politica e mediatica alle proprie azioni. Inoltre costituisce un’opportunità per comprendere con quali altri formazioni (che hanno a loro volta, preso il nome Isis o si dichiarano affini al progetto), è possibile collaborare in un teatro strategico non molto diverso dal “bellum omnium contra omnes” di Hobbes.

In tutto questo cosa c’entra la vicina Tunisia, a parte costituire il paese con il maggior numero di foreign fighters al servizio del “Califfato”, quello autoproclamatosi tra Siria e Iraq?

C’entra eccome, poiché nell’arco di soli quattro anni, una porzione considerevole di persone che risiedevano in Libia si è spostata nel piccolo territorio tunisino. Ad oggi sono stimati circa due milioni di rifugiati libici in Tunisia; numeri che se fanno impressione in termini assoluti, non possono che lasciare attoniti se li si guarda in un’ottica relativa. La Libia ha una popolazione stimata tra i 6 e i 7 milioni di abitanti, mentre la Tunisia si attesta tra i 10 e i 12 milioni. Ciò significa che se la Libia ha perso quasi un terzo del totale dei propri abitanti, la Tunisia attualmente ospita un numero di profughi pari ad almeno il 25% della propria popolazione. Per dare le debiti proporzioni è come se l’Italia ospitasse un numero di profughi corrispondente a circa 15 milioni.

Ed è tra quei due milioni di fuggiaschi dalla guerra civile libica che provengono i nove uomini del commando che ha attaccato il Museo del Bardo. La Tunisia difatti è uno dei pochi paesi della “Primavera Araba” dove il passaggio verso la democrazia è riuscito (pur con diverse ombre) e al momento la gran parte delle pulsioni islamiste sono sfogate democraticamente attraverso il supporto accordato al partito Ennhada, attualmente al governo. Grazie a una politica pragmatica (basata sull’esperienza desunta dal fallimento al governo dei Fratelli Musulmani in Egitto), sembra riuscire a guidare il paese, nonostante un contrasto stridente tra islamisti e laici all’interno. Il paese tuttavia si trova minacciato sia dal possibile contagio dell’anarchia libica (per mezzo delle masse di profughi presenti nel suo territorio), sia dalla forte presenza dei salafiti, uno dei movimenti islamisti più radicali, dalle cui fila, spesso, hanno attinto diverse milizie jihadiste. Il movimento salafita a sua volta è appoggiato dalle parti più conservatrici della società, rispetto all’animo particolarmente progressista che caratterizza una buona parte della popolazione tunisina. Tanto meno Ennhada riuscirà a coinvolgere le espressioni conservatrici tunisine, maggiore sarà il numero di islamisti ortodossi sfiduciati dallo strumento democratico e disposti eventualmente, ad abbracciare la lotta radicale, anche armata.

Una Tunisia sull’orlo del collasso sociale getterebbe sale tra le ferite non del tutto rimarginate, della vicina Algeria. Il paese è stato tra i primi, più di vent’anni fa, ad aver a che fare col terrorismo di matrice islamista. Una crisi nata proprio dall’incapacità dimostrata dal Fronte di Liberazione Nazionale (forza politica ininterrottamente al potere in Algeria dall’indipendenza del Paese) di sfogare, per mezzo di strumenti democratici, i contrasti tra le anime laiche e islamiste del paese. Rifiutando la vittoria alle urne del Fronte di Salvezza Islamica, durante le elezioni del 1991, il FLN dovette affrontare una sanguinosa lotta intestina sedata solo dieci anni più tardi  e costata la vita a circa 100.000 persone. Ancora oggi però esistono alcuni focolai nel desertico Sud del paese, (in quelle stesse regioni che paradossalmente vent’anni prima non accordarono la propria fiducia al FSI), di gruppuscoli jihadisti legati prima ad al-Qaeda e, oggi, all’Isis, (un’operazione non troppo diversa da quella effettuata dai cugini libici). Al momento, a parte balzare alle cronache mondiali per il rapimento e la decapitazione di uno sfortunato escursionista francese e per la più recente evacuazione di un centinaio di lavoratori turchi per il pericolo rapimenti, i jihadisti algerini a marchio “Isis” sono sostanzialmente dormienti, ma potenzialmente ricettivi ad ogni nuovo fattore di crisi proveniente da Tunisia e Libia.

Infine, all’estremità occidentale del Maghreb, troviamo il Marocco. Paese che fortunatamente vanta una certa stabilità politica, al punto da esser uscito praticamente immune dai forti venti della Primavera Araba. Attualmente le uniche criticità riscontrate (di natura jihadista) sono gli sporadici sconfinamenti dei gruppi algerini e il ritorno dei foreign fighters marocchini dalla Siria. Problematiche al momento affrontate in maniera efficace da parte delle forze di sicurezza marocchine. Resta però la questione del Sahara Occidentale, territorio rivendicato dal Marocco che, de facto, lo controlla col proprio esercito ma, conteso da parecchi decenni, da un movimento indipendentista noto come Fronte del Polisario. Il Polisario si rifà ha una tradizione legata al socialismo e segue una ricetta per l’indipendenza ispirata all’ETA.

Fa scuola però il caso del Mali, dove l’iniziale moto di protesta da parte dei Tuareg (decisi a perseguire la propria indipendenza) sfociato poi in una lotta a diverse sigle jihadiste, mostra come questioni in origine prettamente politiche o etniche possano costituire un terreno fertile per l’islamismo radicale. Se l’insuccesso del Polisario sarà destinato a perdurare, l’eventualità che molti saharawi delusi cerchino un nuovo “salvatore” nei gruppi jihadisti non è poi così remota.

Il Maghreb è una regione che per posizione geografica è stata un crocevia per una moltitudine di civiltà. L’Islam pregato in queste terre ha assunto dei connotati peculiari, rispetto a quello sviluppatosi in altre regioni musulmane del mondo, poichè si è mescolato con un humus culturale che si può far risalire agli albori della civiltà. Questa inestimabile ricchezza identitaria però in più occasioni, ha costituito una tra le principali fonti di destabilizzazione interna; dove non è stata trasformata in un punto di forza è  sfociata in violenza. L’attuale contrasto tra il volto laico e quello religioso nel Maghreb costituisce solo uno dei numerosi giochi di specchi che, cadendo, rischierebbero di frantumare la regione e le cui schegge arriverebbero molto più lontano di quella sponda d’acqua e di sabbia che delimita la “terra del tramonto”.

Mirko Annunziata