Cosa succede ai migranti che arrivano in Libia?

Sub-Saharan illegal migrants and refugees reach through the window of a cell in the Garabuli Detention Centre, pleading for water, cigarettes, food and their release. Garabuli, Libya.
Nel febbraio 2017 l’Unicef ha pubblicato un report sulle travagliate vicende che i migranti di passaggio in Libia  devono affrontare per raggiungere l’Europa attraverso l’Italia. Un fenomeno drammatico, fatto di violenze e abusi, che parte dai centri di detenzione disseminati nel deserto per giungere alle traversate in mare gestite dai trafficanti, e il cui proliferare, stando alle accuse di Frontex, sarebbe favorito da una verosimile collusione tra ONG di recente formazione e trafficanti.

“Rotta migratoria del Mediterraneo centrale”: sono sufficienti cinque parole per geo localizzare quello che negli ultimi anni è divenuto uno dei più grandi cimiteri a cielo aperto non ufficialmente riconosciuti. Secondo quanto risulta dal report pubblicato da Unicef lo scorso febbraio, soltanto nel 2016 oltre 181.000 migranti – di cui più di 25.800 sono bambini privi di accompagnatori- hanno intrapreso il percorso che attraverso il Sahara collega l’entroterra dell’Africa e del Medio Oriente alla Libia, che diventa l’ultimo ostacolo che si frappone al Mar Mediterraneo, sbocco naturale per l’Italia e per la tanto agognata Europa, novella terra promessa.

Violenza, povertà, sicurezza precaria dovuta alle guerre tra milizie o tra le stesse e le forze governative, cambiamenti climatici, ma anche ricerca di migliori condizioni di vita: sono numerose le ragioni che spingono queste persone ad allontanarsi dal luogo dove sono nate per mettersi in marcia verso un futuro che sperano possa essere più dignitoso. Nel 2016 sono stati 4.579 coloro che hanno perso la vita durante la traversata del mare; tra cui almeno 700 i bambini. Altri però muoiono prima, lungo l’itinerario di 1000 km che si estende dal confine meridionale del deserto della Libia alla costa mediterranea.

Per cercare di far chiarezza sul fenomeno ed avere la reale percezione di quali siano le terribili condizioni di viaggio dei migranti lungo tale tratta, nel 2016 l’ufficio Unicef in Libia ha commissionato all’Organizzazione Internazionale per la Cooperazione e gli Aiuti d’Emergenza, in collaborazione con il Feinstein International Center presso la Tufts University, un’indagine basata su interviste fatte ad un campione di 122 persone (82 donne e 40 bambini di nazionalità diverse), da cui sono emersi dati sconcertanti, seppur prevedibili.

Tre quarti dei bambini e la metà delle donne intervistate hanno dichiarato di aver subito molestie, abusi sessuali, aggressioni, estorsioni e violenze durante il viaggio attraverso il deserto o nei campi di detenzione gestiti dai trafficanti di uomini; i punti più critici in tal senso sono le frontiere o i checkpoint, dove spesso aggressori vestiti in uniformi o individui presumibilmente associati all’esercito o a forze armate costringono le donne intenzionate ad attraversare il confine libico a cedere servizi sessuali come merce di scambio alternativa al denaro. Lungo alcune tratte, gli abusi sono così frequenti che le donne ricorrono ad iniezioni contraccettive o portano con sé anticoncezionali d’emergenza per precauzione: delle violenze, quasi mai denunciate per motivi di disonore, senso di vergogna o per il timore di ritorsioni, rimane così traccia indelebile soltanto nella mente delle vittime.

Un altro dato allarmante concerne il numero di minori coinvolti nel fenomeno migratorio: secondo le stime fornite dal governo, circa il 9% dei 256.000 migranti presenti in Libia sono bambini, oltre un terzo dei quali non accompagnati. L’indagine ha però evidenziato una evidente contraddizione tra i dati ufficiali e la realtà effettiva: nel 2016 sarebbero infatti arrivati in Italia circa 25.800 bambini non accompagnati (un numero tre volte superiore a quello stimato in Libia e tristemente destinato a salire). A queste cifre occorre poi aggiungere la conta di coloro ai quali il diritto di cercare una vita più dignitosa all’estero è negato dalle grate di carceri create ad hoc; sono 34 i centri di detenzione identificati in Libia. 24 di essi sono gestiti dal Dipartimento per la Lotta alla Migrazione illegale, cioè dal governo libico, e pur rappresentando centri ufficiali, risultano inaccessibili alla comunità internazionale, Unicef compresa; i restanti sono invece centri di detenzione “non ufficiali” gestiti da gruppi armati a scopo di lucro. Si tratta di prigioni o campi di lavoro forzato in cui i migranti sono relegati senza alcun processo legale, adducendo come pretesto la loro pericolosità o il loro essere portatori di malattie. Disumanizzati e privati di cibo, cure, assistenza e di qualsiasi diritto, i migranti sono costretti a condividere talvolta con altre 20 persone i 2 metri quadrati di cella in cui sono confinati, sottoposti a condizioni igienico-sanitarie disastrose, con conseguenti effetti negativi sulla salute e sulla psiche. La situazione politica del paese favorisce la diffusione di prigioni illegali, tanto che risulta attualmente impossibile stimare con certezza quante siano; esse da un lato chiedono e ottengono fondi governativi per accogliere i migranti, comprare cibo, acqua e vestiti, dall’altro controllano direttamente il traffico umano, trattenendo i profughi fino alla partenza.

Libia, Garabulli, centro di detenzione di Alquaiha Maggio 2015. Credits to: Alessio Romenzi/CESURA

I responsabili di tratta, a differenza di quelli di traffico, non esauriscono la loro attività illegale fornendo ai migranti, in cambio di denaro, un aiuto per attraversare confini e paesi in maniera illecita: essi sfruttano anche le persone che trasportano e non è un caso che la Libia rappresenti uno dei principali snodi di transito per la tratta delle donne dirette in Europa a scopi sessuali.

Il proliferare del fenomeno migratorio, sarebbe peraltro recentemente favorito dall’ipotesi sempre più verosimile di una collusione tra contrabbandieri e alcune ONG di recente formazione. Il 17 febbraio la procura di Catania, dove ha luogo la sede operativa di Frontex in Italia, ha aperto una indagine sulle ONG che svolgono attività di ricerca e soccorso nel canale di Sicilia, riscontrando una interazione tra le ONG e i trafficanti e un anomalo aumento delle ONG di piccole dimensioni impegnate nel salvataggio di migranti. Ha contribuito ad alimentare i dubbi, l’utilizzo da parte delle stesse di dotazioni e mezzi sofisticati di cui spesso nemmeno le marine militari dispongono, e le testimonianze dei migranti, a cui i trafficanti indicherebbero la rotta precisa da seguire per esser certi di ricevere soccorsi, raccomandandosi di evitare qualsiasi collaborazione con le forze italiane o Frontex in seguito al salvataggio.

Agosto 2016 uomini al largo delle coste libiche si tuffano in mare per essere salvati. Credits to: AP Photo/Emilio Morenatti

Le ONG, prima fra tutte Medici senza frontiere, respingono con forza ogni accusa, sottolineando come il loro impegno abbia favorito un aumento dei salvataggi, ma i numeri confermano una crescita di quanti, nel corso della traversata, hanno trovato la morte. Secondo il rapporto annuale Risk Analysis for 2017, i migranti sarebbero incoraggiati ad intraprendere il pericoloso viaggio proprio dalla consapevolezza dell’esistenza di organizzazioni impegnate a svolgere operazioni di ricerca e soccorso vicino alle coste libiche e gli stessi trafficanti, forti di tale convinzione, sarebbero indotti a stipare quante più persone su mezzi di fortuna assolutamente precari, consci che la presenza delle navi delle ONG entro le acque territoriali ridurrà la durata del viaggio. Dure le repliche delle associazioni, le quali si professano “risposta, non causa” alla crisi umanitaria legata ai fenomeni di tratta.

L’indagine dell’Unicef si conclude con alcune raccomandazioni e richieste che l’organizzazione indirizza agli Stati per contrastare la crisi nel Mediterraneo centrale e salvare i bambini sradicati, ma spetta all’UE l’onere di impegnarsi nel tentativo di dare una risposta concreta al problema, impedendo alle onde del mare e alle dune del deserto libico di cancellare le storie di uomini, donne e bambini la cui unica “colpa” consiste nell’essere nati nella parte sbagliata del mondo.

di Federica Allasia