Discorso senza veli sull’islam italiano

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Il disprezzo, il sospetto e le richieste intimidatorie che settori dei media e della politica hanno rovesciato in questi giorni sui musulmani d’Italia, con il pretesto del massacro di Parigi, non sono nuove; né è nuova l’assenza della reazione forte e trasversale che sarebbe necessaria per contrastare questa marea.

di Guido Rampoldi

Stavolta il sommarsi delle crisi mediorientali alla crisi d’identità di molte democrazie europee prospetta il rischio che queste esplosioni di ostilità finiscano per costruire rapidamente un’atmosfera, una tendenza, una direzione. Tanto più è indispensabile che i musulmani non siano lasciati soli, in una lotta che riguarda chiunque abbia a cuore la libertà e i principi dello stato di diritto liberale, in una parola le fondamenta dell’unica Europa possibile. Ma a loro volta i musulmani devono imparare a difendersi con efficacia, come finora non è accaduto.

Se l’efficacia è mancata, i musulmani sono colpevoli solo a metà. Ogni qualvolta si trattava di dare voce ad un generico islam, intenzionalmente o no il sistema televisivo preferiva chiamare sul palcoscenico religiosi cresciuti in nazioni arabe, i quali parlavano un italiano rudimentale, non avevano dimestichezza con le categorie della politica europea e finivano per rafforzare nel pubblico l’immagine della religione aliena, del corpo estraneo.

Il fatto che questo pregiudizio si attenui o svapori appena in tv appare un giovane musulmano capace di esprimere idee comprensibili in un linguaggio corretto, segnala quanto sia importante per gli italiani di fede islamica costruire efficaci figure di riferimento, percepibili dal grande pubblico come parte di questo Paese. Se vogliamo essere sinceri, a questa descrizione non sembrano corrispondere alcuni dirigenti delle maggiori associazioni di musulmani, a giudicare da comunicati scritti in un italiano approssimativo.

A me sembra altrettanto importante che i musulmani non si consegnino al patrocinio politico del pacifismo, peraltro lo stesso pacifismo che per tre anni e mezzo lasciò scannare i Musulmani di Bosnia senza indire una sola manifestazione, salvo alla fine indignarsi per il provvidenziale intervento Nato. Per quanto fondata sia la sua critica alle guerre post-coloniali in Iraq e in Libia, il pacifismo oggi ricade nel peccato di ipocrisia: chi dice che l’Isis va affrontato con il dialogo e lo spirito fraterno, mai con le armi, dovrebbe essere coerente e affratellarsi di persona con i guerrieri del califfato (e poi farci sapere com’è andata, se riesce a riportare a casa la testa).

Beninteso, non meno ipocriti sono gli appelli alla guerra che lancia la stampa italiana, in genere sottraendosi al dovere elementare di precisare con quali alleati, con quale strategia politica e militare, la guerra andrebbe combattuta. Questo retorico invocare il ricorso alle armi malgrado le armi siano già sguainate, da una parte sembra alludere al progetto di un successivo intervento in Libia, ma dall’altra suggerisce il desiderio un conflitto più vasto e generalizzato, un conflitto identitario, “culturale”, di “civiltà”: un conflitto con l’islam. Un islam tanto compatto quanto immaginario, di cui l’Isis sarebbe l’espressione autentica: senza questo retropensiero  risulta incomprensibile la petulanza con la quale l’intera stampa nazionale intima ai musulmani d’Italia di “prendere le distanze” dal Califfato.

Ora, se qualcuno chiedesse ai cattolici italiani di “prendere le distanze” dagli stermini di musulmani inermi compiuti in questi anni da milizie “cristiane” (da Sabra e Chatila alla Bosnia, dal Nagorno-Karabach alla Repubblica centro-africana ) sarebbe considerato un imbecille o un provocatore. E a ragione, perché il cattolicesimo italiano non è in relazione con gli sterminatori (cristiano-ortodossi, cristiano-maroniti, evangelicals, cattolici croati, etc). E soprattutto perché la religione da parata di questi ultimi è un elemento accessorio e strumentale rispetto alle motivazioni reali delle loro imprese. Ma se tutto questo vale per i cattolici italiani, perché i musulmani d’Italia non dovrebbero provare la stessa estraneità rispetto alle atrocità dell’Isis, e di conseguenza fastidio per chi intima “prese di distanza”, con una richiesta già di per se oltraggiosa per quel che insinua?

Questo mi pare un punto decisivo. La richiesta di proclamare la propria lontananza dall’Isis è un’arma strategica puntata contro i musulmani. Abbozza un diritto differenziale per il quale un segmento della popolazione italiana viene gravata di una presunzione di colpevolezza in ragione della fede che professa. Un tempo erano gli ebrei i colpevoli fino a prova contraria, in quanto figli del “deicidio”. Sia pure in forme più educate, oggi allo stesso ruolo di capri espiatorii vengono candidati i musulmani.

Eppure le condanne dell’Isis reclamate a gran voce dalla stampa sono state prodotte dalle associazioni musulmane ancora prima che fossero pretese (per esempio, il tempestivo comunicato dell’associazione dei Giovani musulmani). Ma a quanto pare non basta, perché i giornali continuano a ripetere che “l’islam moderato… deve affermare pubblicamente la sua condanna dell’islamismo terroristico…, deve dichiarare una scelta non equivoca per il quadro di valori e di regole della democrazia, separandosi per sempre dal terrore omicida”.

L’autore di questo editoriale all’epoca della guerra di Bosnia dirigeva un quotidiano, la Stampa di Torino, che chiamava i laicissimi soldati bosniaci “gli hezbollah”, per intendere fanatici sanguinari, con un ribaltamento per il quale gli sterminati diventavano sterminatori, e all’inverso, i ferocissimi miliziani croati risultavano vittime del terrore islamista. Non sono forse i numerosi giornalisti di questo tipo che dovrebbero “prendere le distanze” da se stessi, e dissociarsi dai propri errori, e chiedere scusa? E non è forse arrivato il momento per i musulmani d’Italia di reagire all’insulto di chi li incalza a “separarsi per sempre dal terrore omicida”? Di rigettare queste prose violente che in Italia, e solo in Italia, sono diventate normali?

La nuova normalità s’instaura nel momento stesso in cui un progressismo eticamente e intellettualmente mediocre non solo rinuncia a combattere l’emergere di idee illiberali ma addirittura se ne appropria. Dopotutto è stato un sito progres, l’Huffington post, che in Italia ha proposto di discriminare gli immigrati secondo religione, dentro i cristiani fuori gli islamici, un’ideuzza infame respinta non solo da Obama ma anche da parte della destra americana.

Ma contro il consolidarsi di questa nuova normalità anche i musulmani devono fare la loro parte, senza timidezze e senza ipocrisie. Per esempio, riconoscendo che l’uso ideologico della religione trova spunti nella tradizione e nelle scritture di qualsiasi fede, inclusa la loro. Che esegua o no un piano predisposto da quanto rimane dello spionaggio di Saddam, l’Isis si richiama esplicitamente alla sanguinosa Guerra all’Apostasia condotta nel VII secolo dal califfo abu Bakr, di cui ripete i feroci stili di combattimento. È legittimo sostenere con Obama che l’isis è unislamic, non islamico, che esso equivochi il senso delle scritture; ma non si può negare che esso si muova all’interno di una tradizione, e di una scuola di pensiero (il frammento jihadi del salafismo haraki), interne alla storia dell’islam.

Allo stesso modo i pastori Evangelicals che avallano il massacro di villaggi musulmani in Africa, o i rabbini che ispirano frange omicide di settlers israeliani, non sono esterni alle religioni cristiana e israelita, come conferma anche il vasto arsenale di citazioni dalle scritture di cui quei forsennati dispongono. In altre parole ogni religione ha alle spalle percorsi tortuosi ed eventi controversi, perfino terribili, sempre a disposizione delle più aggressive ideologie identitarie. Ammettere questa complessità può essere disagevole ma negarla con le solite frasi fatte (“islam è pace e amore” non è affermazione più intelligente dello slogan islamofobo “islam vuol dire sottomissione”) è un modo per risultare poco coraggiosi e ancor meno credibili.

Onestà e coraggio devono essere richiesti anche a quel progressismo frastornato e pauroso che volta le spalle ai musulmani d’Italia: che se la sbrighino da soli, e “abiurino” l’islam dell’Isis. Eppure le ruvidezze oggi riservate ad una minoranza piuttosto indifesa sono parte di un progetto identitario votato ad uno scopo assai più ambizioso che rendere qualsiasi islam un’entità aliena. E quel progetto riguarda noi tutti. Che abbia possibilità di successo lo dice la fraseologia che torna a rimbombare in tv, incontrastata, dopo la strage di Parigi. Il continuo richiamo ad una mai precisata identità italiana, il ricorso costante ad una terminologia fumosa (“i nostri valori”, cristiani o giudaico-cristiani), l’invito a contrapporre fieramente “le nostre radici” all’arrendevolezza del “multiculturalismo”, finiscono per accreditare l’esistenza di una “cultura italiana”, cioè di un sistema di valori e di comportamenti che renderebbe sostanzialmente omogeneo, per esempio, l’intero quadro politico, dalla sinistra radicale fino alla destra populista. Ma questa mono-cultura esiste solo nella demagogia di politici e di giornalisti che un interessante ramo della politologia definirebbe “imprenditori dell’identità”.

In realtà qualsiasi democrazia è inevitabilmente “multiculturale”. Come ci confermano in Italia proprio gli ‘imprenditori dell’identità’ più islamofobi. La gran parte ha alle spalle traiettorie assai “multiculturali”: i più sono ex militanti della sinistra rivoluzionaria col tempo passati alla destra dopo una sosta nel psi, e oggi impegnati nella ricerca di un nuovo “posizionamento”, cui sembra funzionale il “dagli al musulmano”. Altri provengono dall’estrema destra antisemita e adesso figurano come “moderati”. Nessuno di loro ha mai spiegato le contraddizioni di un percorso così radicalmente “multi”; tutti ne hanno ricavato un discreto vantaggio personale.

Ora, è evidente che se “cristianesimo” è, tra i tanti, il cristianesimo coraggioso e includente di papa Bergoglio, esso è parte costitutiva della possibile Europa liberale. Ma è altrettanto evidente che un’Europa ripiegata sul proprio passato “cristiano”, ovvero su una storia magmatica che contiene spaventose guerre tra cattolici e luterani, la Santa Inquisizione e il Terrore, i massacri carlisti e i massacri di preti spagnoli, avrebbe notevoli difficoltà nel trovare il filo del proprio destino.

In realtà l’Europa può nascere solo da uno slancio verso il futuro, come propositional nation, quale furono in origine gli Stati Uniti, fondati su una cesura con il passato, su un progetto di libertà che accoglieva – spegnendone i rancori – identità religiose ed etniche fino ad allora inconciliabili. Se questo è vero, allora la battaglia dei musulmani d’Italia contro chi li vorrebbe chiudere in una condizione inferiore e sottomessa, è la stessa battaglia di ogni autentico europeista. Di chi crede e di chi, ateo come chi scrive, tuttavia è convinto che ciascuno abbia diritto di esprimere liberamente la propria spiritualità, ovviamente nella cornice dello stato di diritto liberale.

Si tratta allora di trovare modi e strumenti per contrastare la marea che sale dalla politica e dal giornalismo, e ormai anche dai ranghi di un moderatismo sempre più informe. Per decostruire simulacri e imposture. Per offrire e richiedere onestà e chiarezza. Senza arroganze ma anche senza paure, sapendo che mostrarsi accomodanti, la storia lo insegna r i musulmani prendano nota, ha l’unico effetto di eccitare gli aggressori. Come domandava il romanzo scritto da un grande italiano sopravvissuto ad Aushwitz, Primo Levi: Se non ora quando?

Guido Rampoldi