Viaggio intorno alle lingue minoritarie europee

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La politica linguistica della UE si è articolata verso due direzioni: da un lato ha promosso l’uso di tre lingue “di lavoro” all’interno delle sue istituzioni (Inglese, francese, tedesco), dall’altro ha spinto verso la preservazione e la valorizzazione delle lingue minoritarie. Ma cosa si intende per lingue minoritarie, e quante sono in Europa?


COSA SI INTENDE PER LINGUE MINORITARIE? QUALE POLITICA VIENE ATTUATA DALLA UE?

Per lingue minoritarie intendiamo le lingue parlate da gruppi di persone che godono dei diritti di cittadinanza di uno Stato ma che, per ragioni storico-politico-geografiche, non ne condividono la lingua. Pensiamo ad esempio al tedesco, parlato dal 69,41% delle persone in Alto Adige, o al catalano, parlato in Spagna nella regione della Catalogna.

In Europa vi sono circa 80 lingue minoritarie, che convivono con le 24 ufficiali registrate presso l’Unione Europea. Sono parlate da circa 40 milioni di persone, e tra esse annoveriamo tra le altre il basco, il frisone, il gallese, il persiano, l’assiro e lo yiddish. Da un lato sono i governi nazionali a gestire e stabilire lo status giuridico di queste lingue, dall’altro l’Unione Europea incoraggia la diversità linguistica, con azioni mirate al mantenimento e la diffusione di queste lingue, talune peraltro rare.

source: cesdomeo.it
LA BASE GIURIDICA

Due sono i documenti su cui si basa questa politica: la “Carta europea per la tutela delle lingue minoritarie” del Consiglio d’Europa (da non confondere con il Consiglio dell’Unione Europea), e un documento del 2008 dal titolo “Una sfida salutare – come la molteplicità delle lingue potrebbe rafforzare l’Europa”, stilato dal Gruppo degli intellettuali per il dialogo interculturale costituito su iniziativa della Commissione europea (Bruxelles 2008), che propone l’adozione di una seconda lingua da parte di tutti i cittadini della UE.

La Carta europea per la tutela delle lingue regionali o minoritarie è uno strumento giuridicamente vincolante per la tutela e la promozione delle lingue regionali e minoritarie. La carta è basata sul principio della “promozione attraverso l’uso”, e impone ai paesi che firmano e ratificano il documento, di promuovere l’uso effettivo della lingua, attraverso il suo utilizzo nei settori dell’istruzione, della giustizia, dell’amministrazione e dei servizi pubblici, dei mass media, delle attività e infrastrutture culturali, della vita economica e sociale. La Carta è entrata in vigore il 1 marzo 1998.

Il documento del 2008, invece, è il risultato dello studio di un gruppo di dieci “saggi” del mondo della cultura, nominati dall’ex Presidente della Commissione Europea Manuel Durão Barroso e dal commissario per il multilinguismo Leonard Orban, chiamati ad esprimere il loro parere sul contributo che il multilinguismo può dare al dialogo interculturale e alla comprensione reciproca tra i cittadini dei paesi della UE.

In questo studio viene esaltata l’importanza della valorizzazione delle lingue minoritarie, che – specchio di una cultura che rappresentano – se preservate e portate a diffusione, possono giocare un ruolo importante nella nascita di una cultura europea ricca di sfaccettature, fatta di un popolo solo, ma dalle tante culture.

Così il gruppo dei dieci saggi propone l’adozione, da parte di ogni cittadino europeo, di una seconda lingua straniera, al di là dell’inglese, da approfondire e conoscere come la propria lingua madre, e che si potrà scegliere secondo gusti ed affinità. In questo modo si diffonderebbero una cultura e una lingua “rara” in Europa, in modo più variegato e spontaneo, con il risultato di avere più cittadini europei che conoscano una realtà e una lingua “in estinzione” da un lato, e più cittadini formati nella conoscenza di una lingua specifica dall’altro.

Manifestazione pro-indipendenza catalana, Barcellona 2012 / credits to: EFE
A CHE PUNTO SIAMO IN EUROPA?

La Carta è stata aperta alla firma il 5 novembre 1992 ed è entrata in vigore il 1° marzo 1998. Ad oggi, è stata ratificata da 25 Stati (anche extra-Ue): Armenia, Austria, Bosnia-Erzegovina, Cipro, Croazia, Repubblica ceca, Danimarca, Finlandia, Germania, Liechtenstein, Lussemburgo, Montenegro, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Regno Unito, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Ucraina e Ungheria.

Nel territorio di questi Stati, la Carta tutela e promuove 79 lingue parlate da 203 minoranze nazionali/gruppi linguistici. Altri otto Stati hanno firmato la Carta pur senza ratificarla: Azerbaigian, Francia, Islanda, Italia, Malta, Repubblica di Moldova, Federazione Russa ed “ex Repubblica jugoslava di Macedonia”.

E IN ITALIA?

L’Italia ha firmato la Carta europea per la tutela delle lingue minoritarie nel 2000, ma ancora oggi non l’ha ratificata. Sembrava che la ratifica dovesse arrivare entro il 2016, ma ad oggi questa deve essere ancora approvata dal Senato, nonostante vi siano forti pressioni da parte di minoranze linguistiche regionali che vorrebbero vedersi riconoscere i privilegi indicati (è il caso della minoranza linguistica regionale veneta e di quella friulana).

Nel nostro paese la legge tutela 12 lingue minoritarie o regionali (Albanese, Catalano, Croato, Francese, Francoprovenzale, Friulano, Greco, Ladino, Occitano, Sardo, Sloveno, Tedesco), e al MIUR è stato affidata la gestione del piano dei finanziamenti relativi alla loro tutela e alla valorizzazione.

Conclusioni

Molto si è fatto in materia di minoranze linguistiche negli ultimi decenni in Europa, ma la strada è ancora lunga. Nel Rapporto biennale del Segretario generale del Consiglio d’Europa (02.03.2016) è riportato il monitoraggio dell’applicazione della Carta da parte degli Stati firmatari. In esso viene sottolineato che numerosi Stati incontrano difficoltà nell’applicazione dei principi in essa enunciati. Una delle motivazioni è da ricercarsi nella crisi economica: basti pensare che in Italia i fondi dedicati alla tutela delle lingue minoritarie sono scesi dai dieci milioni di euro stanziati nei primi anni del progetto, a poco più di 1milione di euro per il 2016, a carico dello Stato e non delle regioni, come previsto dalla legge 482/99.

Altro motivo di rallentamento del processo di riconoscimento dell’autonomia delle lingue è in alcuni casi strettamente legato alla paura della perdita dell’identità nazionale, fortemente legata al concetto di lingua nazionale. Ad esempio il 6 dicembre scorso, il Consiglio regionale del Veneto ha approvato il ddl 116, che definisce il popolo veneto “una minoranza nazionale”, aprendo la strada all’insegnamento della lingua veneta nelle scuole e all’uso di essa negli uffici pubblici e nelle attività amministrative.

Parallelamente il gesto ha un valore che va al di là del semplice riconoscimento della lingua; a esso infatti si collegano la richiesta del Veneto di diventare regione a statuto speciale come il Sudtirolo e il Trentino, e la conseguente richiesta degli stessi diritti e fondi stanziati dallo Stato. Quindi spesso gli interessi di salvaguardia di una lingua minoritaria si intrecciano con interessi e rivendicazioni di diritti politici veri o presunti e che non sempre possono essere accettati e garantiti.

Difficile dire come potrà sbloccarsi questa situazione. Per rimanere nel mero ambito linguistico, andrebbe pubblicizzato maggiormente il documento dei dieci saggi, soprattutto nelle scuole superiori, ove si potrebbe implementare lo scambio tra studenti appartenenti a scuole di pari grado, ma di paesi diversi, e protrarre il progetto per tutta la durata del quinquennio. I lati positivi sarebbero l’apprendimento di una ulteriore lingua straniera, magari poco “diffusa”; uno dei lati negativi sarebbe l’impossibilità da parte degli studenti di poter scegliere la lingua. Ad oggi, negli scambi culturali tra paesi europei, nel comunicare si predilige l’uso della lingua inglese anche quando i paesi coinvolti non sono anglosassoni.

di Paola Cafarella