La situazione siriana è un inferno. Capire cosa sta succedendo è doveroso in quanto esseri umani e indispensabile per la comprensione di quei fenomeni che travalicano i confini naturali di quella terra. Per questo motivo la nostra Rivista seguirà più da vicino la guerra siriana, che in realtà sono tante guerre diverse e sovrapposte, in modo da fornire un quadro sempre aggiornato e il più chiaro possibile.
Dopo l’intervento turco, molti siriani stanno tornando nella safe zone turca, ma quanto è sicura e cosa sta accadendo?
Dopo il caos mediatico seguito all’intervento turco in Siria, l’attenzione sembra di nuovo calata su quel pezzo di terra che nelle intenzioni di Erdogan dovrebbe essere la safe zone dove ricollocare almeno una parte dei 3.5 milioni di rifugiati siriani che la Turchia ospita da anni. Ma qual è la situazione sul terreno?
Nonostante per la Turchia il peso di 4 milioni di rifugiati, quasi tutti siriani, sia diventato insostenibile e trovare una soluzione imperativo, rendere “sicura” un’ampia fascia di territorio siriano è un progetto irrealistico, perché le condizioni non solo di sicurezza ma anche di sostenibilità non potranno raggiungere gli standard minimi internazionali in un’area ancora in conflitto, almeno nel breve-medio termine.
Come denunciato da un recente rapporto di Human Rights Watch, le milizie siriane dell’Esercito Nazionale Siriano (ri-brand dell’ex Free Syrian Army che oggi conta per lo più fazioni islamiste) di cui la Turchia si è avvalsa per l’intervento militare, hanno commesso crimini di guerra, soprattutto su basi etniche, comprese esecuzioni sommarie, arresti arbitrari e sciacallaggio. Così come non sono mancati casi di rappresaglie sui civili da parte dell’YPG curdo in ritirata, accusato ad esempio di aver ucciso tre civili sospettati di appartenere a una cellula dell’Esercito Nazionale Siriano a Ras al-Ain.
Anche le operazioni belliche proseguono: nei giorni scorsi due attacchi bomba a Tal Abyad e Ras al-Ain, di cui la Turchia incolpa l’YPG curdo, hanno ucciso rispettivamente 9 e 17 persone mentre a Tell Rifaat bombardamenti d’artiglieria turchi hanno ucciso 9 civili di cui 8 bambini, nello stesso giorno in cui i bombardamenti aerei russo-siriani su due mercati di Idlib facevano anch’essi strage di civili, tra cui bambini.
La narrativa che la safe zone turca è una zona sicura appare dunque lontana dalla verità, anche se in effetti migliaia di civili sono ritornati.
L’intervento turco ha inizialmente sfollato quasi 200.000 persone e secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) del 19 novembre, 117.000 persone sono tornate alle loro case, mentre 75.000 sono rimaste sfollate. Di queste, quasi la metà è tornata nelle aree controllate dalle fazioni sostenute dalla Turchia e dalle forze armate turche a Tal Abyad, Ein Issa e Suluk.
Questo perché le milizie dell’Esercito Nazionale Siriano stanno riavviando le amministrazioni locali e i servizi cittadini, seppur lentamente e a livelli ancora carenti, soprattutto per quanto riguarda i servizi medici, data la situazione sul terreno.
I ritorni stessi sono controllati e non mancano casi di civili curdi respinti o molestati mentre tentavano di tornare nelle loro case per affiliazioni, reali o presunte, con l’YPG curdo.
In generale comunque è probabile che il numero dei rimpatri crescerà dato che il valico di frontiera tra Tal Abyad e la Turchia è stato riaperto per la prima volta in cinque anni il 26 novembre.
La vera sfida sarà garantire a queste persone le condizioni minime di sussistenza e sostegno, sia in termini di aiuti umanitari che di servizi, cose di cui la Turchia si sta già occupando pur senza poter contare sull’appoggio internazionale, che ha condannato l’intervento militare.
L’Unione Europea ad esempio ha reso chiaro che non sosterrà economicamente nessun progetto che incentivi i rimpatri in un’area che non considera sicura e che è frutto di un intervento che ritiene illegittimo e che rischia di alterarne ancora di più la composizione demografica.
In tutto ciò pesa inoltre il riavvicinamento dell’YPG curdo con il regime siriano, dopo che i primi hanno riaperto i loro territori alla presenza militare del secondo. Il 4 dicembre Ali Mamlouk, capo della Sicurezza Nazionale del regime di Assad, ha visitato la città di Qaka, nella campagna di Hasaka, dove ha incontrato funzionari dell’YPG, indice del crescente coordinamento tra i due ex nemici.
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Pesa perché essendo la repressione del regime siriano la causa principale dello sfollamento di massa dei siriani negli anni, il ritorno dei territori limitrofi alla safe zone turca sotto l’influenza del regime – che ha una lista nera di persone da arrestare con i nomi di 3 milioni di siriani – rischia di rendere la creazione delle condizioni di sicurezza ancora più difficile – per non parlare del processo di riabilitazione politica del regime incarnato dal Comitato Costituzionale siriano, di cui abbiamo parlato qui.
Idlib
E mentre la Turchia prosegue le sue operazioni lungo il confine con il benestare russo, la Russia e il regime siriano hanno ripreso – con il benestare turco – a radere al suolo Idlib, facendo stragi di civili, colpendo un campo profughi e bombardando ospedali – deliberatamente, come alcune inchieste hanno dimostrato. Il 27 novembre l’ultimo ospedale operativo nell’intera area sud di Idlib è stato distrutto.
La priorità del regime è riconquistare l’autostrada M5 che collega Damasco ad Aleppo e che percorre tutta la provincia di Idlib e per farlo, in nome della lotta al terrorismo, ha intensificato nelle ultime settimane i bombardamenti sulle città che giacciono lungo l’autostrada, colpendo indiscriminatamente.
Dove dovrebbero fuggire i 3,5 milioni di civili e sfollati di Idlib non è chiaro, ma ciò che è certo è che la catastrofe umanitaria a Idlib è lungi dall’essere conclusa.
di Samantha Falciatori