L’ascesa turca nel Mediterraneo orientale

Dalla Libia a Cipro, la preoccupante militarizzazione del Mediterraneo orientale è in parte dovuta all’aumento della presenza turca nella regione, già destabilizzata dai numerosi conflitti tra gli stati rivieraschi e dalla volontà di questi ultimi di controllare i giacimenti di idrocarburi scoperti di recente.


Nei primi giorni del 2020 un nuovo attore si è imposto con prepotenza nel calderone libico. Si tratta della Turchia, la cui politica estera è diventata più assertiva nel corso degli ultimi anni.

Mezzi corazzati turchi in Libia. Credits to Turkish Defence Ministry/AP Photos.

L’intervento turco sembra essere la logica conseguenza della presenza di membri della compagnia militare privata Wagner al fianco delle truppe del generale Haftar. Come abbiamo scritto in questo articolo, la Wagner è legata al Cremlino, che di solito se ne serve negli scenari di guerra in cui la Russia è impegnata.

La Turchia si è schierata dalla parte del governo di Serraj, opposto alle forze del generale Haftar, in quella che sembra una strategia che ricalca quanto successo in Siria. Putin ed Erdogan intervengono in un conflitto appoggiando le opposte fazioni, per poi costringerle ad un cessate il fuoco, mentre le due potenze si spartiscono la regione. È ancora presto per dirlo, ma la Libia potrebbe effettivamente seguire questa strada, venendo suddivisa in Tripolitania e Cirenaica. La prima sotto la protezione di Ankara e la seconda sotto la tutela di Mosca. La rilevanza della Libia nello scacchiere internazionale è determinata dalla grande disponibilità di risorse energetiche, senza contare che già dai tempi di Gheddafi, esistevano le infrastrutture necessarie per il trasporto di queste risorse verso l’importante mercato europeo.

Il Presidente turco Erdogan. Credits to Reuters.

Come avevamo scritto qui, la Russia aveva importanti accordi con il regime del Raìs la cui salvaguardia è necessaria. Senza contare che se Mosca dovesse riuscire a controllare una parte delle risorse energetiche libiche dirette verso l’Europa, ciò vanificherebbe la strategia di diversificazione nell’approvvigionamento di gas messa in atto da Bruxelles a seguito delle crisi energetiche del 2006 e del 2009.

L’Europa, con la sua totale assenza di progettualità in politica estera – basti pensare che se l’Italia appoggiava Serraj, la Francia proteggeva Haftar, mentre gli altri Paesi sembravano indifferenti agli sviluppi in Libia -, non è stata in grado di impedire l’intervento di Russia prima e Turchia poi, facendosi un clamoroso autogol.

Questo perché l’Unione Europea non possiede un esercito comune e nessuno dei Paesi membri è stato disposto a mandare un contingente militare che potesse cambiare le sorti del conflitto. O ha avuto le risorse per farlo. Sia Serraj che Haftar si sono dunque rivolti a chi, invece, era disposto a mandare un aiuto concreto: Turchia e Russia.

In realtà, Ankara non era del tutto assente dalla Libia, essendo l’unico Paese della regione, oltre al Qatar, ad appoggiare il Governo di Accordo Nazionale (Gna), cioè quello considerato legittimo in quanto l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite. Inoltre proprio nel novembre del 2019 Erdogan era riuscito a raggiungere un accordo di importanza rilevante con il governo di Tripoli.

Schieratasi con Serraj, la Turchia aveva promesso di inviare uomini e mezzi nello scacchiere libico in cambio del riconoscimento di una Zona Economica Esclusiva che partisse dalle coste del Paese nordafricano per arrivare alle acque territoriali controllate da Ankara. La rilevanza di questo accordo è direttamente collegata alla questione cipriota e alla volontà, più volte espressa da parte di esponenti del governo turco, di trasformare l’Anatolia in un importantissimo hub energetico.

La Zona Economica Esclusiva derivante dall’accordo tra il Gna e la Turchia. Credits to Modern Diplomacy.

Secondo uno studio del Peace Research Institute Oslo, la Turchia vorrebbe sfruttare la propria fortunata posizione strategica per far fronte alla carenza di idrocarburi. Dovendo importare il 70% del proprio fabbisogno di petrolio e gas naturale ed avendo un’economia che, seppur fragile, è in crescita, Ankara non ha mai fatto mistero di volersi trasformare in un crocevia per i flussi di gas diretti verso l’Europa.

Ciò le permetterebbe di raggiungere alcuni obiettivi significativi. In primo luogo la Turchia riuscirebbe a diversificare i propri approvvigionamenti di gas naturale, riducendo la propria dipendenza da Mosca. In secondo luogo, potrebbe ammortizzare il costo per l’acquisto degli idrocarburi necessari alla propria economia tramite le rendite derivanti dai diritti di transito. In terzo luogo, si troverebbe a disporre di una leva economica di assoluto rilievo nei confronti dell’Unione Europea e dei Paesi della regione, potendo potenzialmente interrompere le forniture di gas che transitano attraverso il suo territorio.

Pipelines che attraversano il territorio controllato da Ankara, contribuendo a fare della Turchia un importante hub energetico. Credits to Platts.

Un altro vantaggio del mantenimento dell’accordo sulla Zona Economica Esclusiva deriva dal fatto che il braccio di mare a cui fa riferimento è fondamentale per i progetti di Israele, Egitto e Repubblica di Cipro. Questi Paesi sono rivali della Turchia nella corsa ai mercati europei del gas naturale. La scoperta di nuovi importantissimi giacimenti di idrocarburi nel Mediterraneo Orientale è infatti centrale per capire le motivazioni dell’aumentata ingerenza di Ankara nella regione.

Giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo Orientale. Credits to Sergio Matalucci via Al Jazeera.

Questi giacimenti renderebbero infatti Israele, Cipro ed Egitto esportatori netti di gas naturale.

Il modo più semplice per fare arrivare il gas in Europa sarebbe quello di convogliarlo verso la Turchia e da qui, sfruttando le infrastrutture esistenti, verso la Grecia e l’Italia. Ciò rafforzerebbe il ruolo di hub energetico perseguito da Erdogan, rendendo la Turchia la principale potenza regionale per quello che riguarda il transito di gas.

Tel Aviv, Il Cairo e Nicosia avevano pertanto progettato di costruire pipelines che attraversassero il Mediterraneo escludendo il passaggio attraverso le reti turche. Ma oggi il progetto presenta enormi difficoltà dovute al fatto che le tubazioni dovrebbero essere posizionate lungo i fondali, per tratti di mare abbastanza estesi.

La piattaforma israeliana per l’estrazione di gas dal giacimento Tamar, nel Mediterraneo Orientale. Credits to Getty.

L’accordo tra Ankara e Tripoli complica, forse in maniera decisiva, la messa in pratica del progetto, in quanto il tratto di mare appartenente alla Zona Economica Esclusiva sotto il controllo della Turchia sarebbe fondamentale per la posa delle tubazioni. Ciò non lascerebbe alcuna scelta ad Israele, Egitto e Cipro: per esportare risorse energetiche in Europa sarebbero costretti ad utilizzare le infrastrutture controllate da Ankara.

Non è secondaria poi la presenza di giacimenti di gas naturale anche nel braccio di mare afferente alla Zona Economica Esclusiva turco-libica.

Questi avvenimenti vanno ad inserirsi nella più ampia disputa internazionale riguardante il controllo del Mediterraneo orientale.

In questo scenario sono due i focolai di crisi: la questione cipriota ed il conflitto arabo-israeliano. Ciò, unito alla presenza di importanti giacimenti di idrocarburi, rende il monitoraggio della regione di fondamentale importanza. Il minimo incidente potrebbe avere conseguenze catastrofiche, mettendo in moto meccanismi pericolosi per il mantenimento della pace in un tratto di mare importantissimo anche per il commercio via nave, vista la vicinanza a Suez e alle principali rotte commerciali sull’asse Asia-Europa-Nord America.

I giacimenti di gas del Mediterraneo e le Zone Economiche Esclusive dei vari paesi litoranei. Credits to Geopolitical Futures.

La questione cipriota, che avevamo ricostruito qui, risale al 1974, quando la Turchia invase l’isola di Cipro determinandone una divisione de facto. Da un lato vi è la Repubblica di Cipro, che Ankara non riconosce; dall’altro vi è la Repubblica Turca di Cipro Nord, proclamatasi indipendente il 15 novembre del 1983 e riconosciuta soltanto dalla Turchia.

La disputa tra Ankara ed Atene, la principale protettrice della Repubblica di Cipro, risale al tempo dell’Impero Ottomano, ma i negoziati per la riunificazione dell’isola sono tristemente collassati nel 2017.

La Turchia e la Grecia hanno altre antiche dispute territoriali riguardo alcune isole presenti nel Mar Egeo, che hanno portato i due Paesi sull’orlo di un conflitto armato nel 1987 e che negli ultimi anni si sono acuite.

Leggi anche: Grecia, Turchia e il tentativo di ridisegnare l’Egeo.

Ankara almeno mediaticamente è in pessimi rapporti con Israele, a seguito della morte di otto cittadini turchi in mano alle forze di sicurezza di Tel Aviv per l’incidente della Gaza Flotilla del 2010. Per non parlare del continuo supporto della Turchia ad Hamas e alla causa palestinese in generale.

Neppure con l’Egitto corre buon sangue, da quando il generale Al-Sisi ha preso il potere, estromettendo Mohammed Morsi che godeva del sostegno di Erdogan.

Per difendere i propri interessi la Turchia si è dunque fatta più assertiva. In particolare, Ankara non è parte della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (Unclos) e sostiene una diversa interpretazione dei confini marittimi. Secondo la Turchia, infatti, la sovranità sull’alto mare apparterrebbe agli stati continentali, mentre un’isola come Cipro avrebbe diritto ad una Zona Economica Esclusiva che non superi le dodici miglia marittime. Da qui il mancato raggiungimento di un accordo sui confini marittimi tra Ankara e Nicosia.

Per questo motivo le frizioni tra i due Paesi, e di conseguenza anche tra Turchia e Grecia, sono sensibilmente aumentate negli ultimi anni.

La scoperta di giacimenti off-shore rispetto alle coste cipriote ha fatto sì che Ankara, che non riconosce la Zona Economica Esclusiva della Repubblica di Cipro, mandasse tre navi da perforazione con il compito di esplorare i fondali in cerca di gas naturale. Ovviamente scortate da navi militari.

La nave da perforazione turca Fatih. Credits to Reuters.

Questa operazione, considerata illegale secondo l’Unclos, ha generato una serie di conseguenze. Cipro ha emanato avvisi di garanzia per gli equipaggi delle tre navi turche. La Grecia ha inviato alcune navi militari nella regione e Bruxelles ha protestato in modo molto forte, addirittura arrivando ad imporre sanzioni sulla Turchia, bloccando i programmi di assistenza finanziaria ed interropendo i negoziati di alto livello con i diplomatici di Ankara.

Anche gli Stati Uniti si sono levati contro le operazioni turche nel Mediterraneo orientale, schierandosi con Cipro.

La militarizzazione dell’area è evidente anche a seguito delle esercitazioni militari turche condotte per nove giorni tra il febbraio ed il marzo del 2019, le più imponenti della storia della Turchia.

Considerate una provocazione, hanno portato a forti proteste da parte dei paesi della regione, i quali a loro volta conducono questo tipo di esercitazioni in modo congiunto.

La corsa agli armamenti ha visto poi la Turchia acquistare il sistema di difesa missilistico antiaereo S-400 di produzione russa.

Un caccia di ultima generazione F-35. Credits to Getty Images.

Gli Stati Uniti hanno cercato in tutti i modi di dissuadere Ankara dal procedere con questa operazione e infine hanno deciso di escludere la Turchia dall’acquisto degli F-35 per i quali i due Paesi avevano già un accordo. Washington teme infatti che in questo modo i russi avrebbero accesso a troppe informazioni sui nuovi velivoli prodotti dalla Lockheed Martin.

Un altro motivo di frizione tra Ankara e i Paesi litoranei nel Mediterraneo orientale riguarda poi la questione del controllo sulle acque territoriali della Repubblica Turca di Cipro del Nord. Visto che nessun Paese riconosce questo Stato, la rivale Repubblica di Cipro rivendica la sovranità su dette acque, in contrasto con Ankara.

Nel 2019 i Paesi della regione hanno cercato di risolvere alcune delle questioni più spinose incontrandosi in quello che è noto come East Mediterranean Gas Forum ma la Turchia non è stata invitata a partecipare, creando piuttosto l’impressione di aver compattato l’asse anti-turco.

East Mediterranean Gas Forum 2019. Credits to Getty Images.

Il Mediterraneo orientale rimane dunque una zona calda, a causa delle numerose rime di frattura storicamente presenti nella regione. La scoperta di numerosi giacimenti di gas naturale non ha aiutato a migliorare la situazione. La Turchia è diventata più assertiva e sfruttando le dispute con Cipro e la Grecia, le rivalità con Egitto e Israele e le guerre in Libia e Siria, Ankara ha aumentato la propria presenza militare nella regione. Ciò ha creato i presupposti per una corsa agli armamenti in grado di esacerbare una situazione già di per sé esplosiva visti i numerosi interessi in gioco. Questo preoccupa gli osservatori di tutto il mondo, ben consapevoli che basti poco per infiammare una regione già devastata da decenni di conflitti.

di Riccardo Allegri